Ritorno al futuro: Dune- Part One (Denis Villeneuve, 2021)

Probabilmente il film più atteso dell’anno, che esce al cinema dopo un lungo periodo avaro di prime e falcidiato dalla pandemia, Dune: Part One di Denis Villeneuve (già autore di Enemy, dello splendido Arrival e dell’ottimo Blade Runner 2049, tra gli altri), presentato in anteprima mondiale fuori concorso all’ultima mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, tenta nuovamente l’impresa (che a questo punto è lecito definire titanica) di trasporre sullo schermo l’opus magnum di Frank Herbert, che allo scrittore americano valse premio Hugo e premio Nebula. “Un libro impossibile da trasferire sullo schermo”, come si mormora da più parti e da tempi non sospetti: ci ha provato David Lynch (ne parlavo qui, lo scorso anno), riuscendo comunque, pur con tutti i limiti di una produzione oltremodo invadente e i problemi avuti dall’autore ad imporre il proprio controllo sull’opera (e in particolare sul montaggio), a creare un oggetto-sogno che ancora oggi, a dispetto dei suoi tanti problemi, riesce ad incantare lo spettatore; ci avrebbe voluto provare Alejandro Jodorowsky il quale, reduce dai successi di El Topo e soprattutto de La Montagna Sacra, lavorò a un celeberrimo storyboard di oltre 600 pagine con l’artista Moebius e imbastì una produzione enorme per un film che avrebbe dovuto vedere tra i protagonisti Mick Jagger, Orson Welles e Salvador Dalì, oltre al figlio dello stesso Jodorowsky, Brontis, che avrebbe dovuto interpretare il giovane protagonista Paul Atreides, con colonna sonora realizzata dai Pink Floyd e una durata compresa tra le 10 e le 20 ore. Di questo film mai realizzato resta oggi la testimonianza di un’interessantissimo documentario, Jodorowsky’s Dune, che ne ripercorre le tappe e (ovviamente) ne alimenta il mito: Jodorowsky aveva d’altronde l’ambizione smisurata di farne “il film più importante della storia dell’umanità”, “un film che avrebbe dato alla gente che all’epoca usava LSD le allucinazioni che si hanno con quella droga, ma senza allucinogeni. Non volevo che venisse usata l’LSD, volevo creare una droga”, tanto per usare le parole dello stesso regista. Un film spirituale, un delirio surrealista, un infinite jest ante litteram che iniziava con un lunghissimo piano sequenza e avrebbe avuto una conclusione molto diversa da quella del libro. Non se ne fece nulla, ovviamente, almeno fino agli anni ’80, quando i diritti passarono di mano e finirono ai De Laurentiis, che scritturarono David Lynch per adattare e dirigere l’opera: Lynch si buttò nel lavoro, conscio della ricchezza di spunti che le pagine di Herbert potevano offrire alla sua personale ricerca e grammatica cinematografica, attratto soprattutto dagli elementi onirici che attraversavano le pagine e che ancora oggi, nella sua trasposizione cinematografica, costituiscono i passaggi di maggior fascino, il vero collante immaginifico che tiene insieme una sceneggiatura esplosa, sfilacciata, mortificata da un montaggio (ma sarebbe più giusto dire uno “smontaggio”) imposto dalla produzione per contenere la durata dell’opera e farne un prodotto più affine al gusto delle masse. Ecco, il Dune di Lynch è un po’ come un sogno interrotto: in un’epoca in cui gli Studios hollywoodiani potevano prendere davvero sul serio l’ipotesi di affidare la direzione dell’ultimo capitolo della trilogia di Star Wars proprio a David Lynch (che rifiutò ritenendo l’universo di George Lucas troppo ben connotato per poter portare qualcosa di proprio nel progetto), a un promettente autore emergente, dotato di una visione già personale e irriducibile, venne impedito di portare il proprio sguardo completamente dentro il mondo di Herbert, facendolo proprio. D’altronde i De Laurentiis avevano in mente di opporsi simbolicamente alla fantascienza di Star Wars con un prodotto di fantascienza “adulta”, e non bisogna mai dimenticare che lo scopo dell’industria cinematografica è (prima di ogni altro) quello di staccare biglietti: la visione autoriale di Lynch venne così sacrificata sull’altare della vendibilità del prodotto. Quello che oggi rimane è un’opera tuttavia ricca di fascino, piena di elementi di rottura (le visioni di Paul, in particolare) che fanno deragliare il narrato verso una dimensione psicologico/onirica estremamente intrigante: forse solo l’ombra del film che avrebbe potuto essere, ma non per questo un lavoro trascurabile (anche se Lynch da sempre disconosce l’opera, considerandola il più grande dolore della sua luminosa carriera). Aveva forse ragione lo stesso Jodorowsky, secondo il quale Dune è un film che in alcun modo può essere realizzato dagli Studios di Hollywood, perché troppo intrinsecamente “altro” rispetto alla dimensione industriale del grande cinema americano; eppure è solo questo cinema, fatto di grandi capitali, che sarebbe stato in grado di portare nelle sale questa storia, ed è solo questo cinema che, si può malignare, c’è riuscito, anche se sotto mentite spoglie. Non è un mistero infatti che forse l’unica persona in grado di portare in scena l’universo di Dune sia stato proprio George Lucas, il cui Star Wars presenta più di un debito verso il libro di Frank Herbert (il pianeta Tattooine che altri non è che Arrakis, o la somiglianza tra la setta dei Jedi e la sorellanza Bene-Jesserit, tanto per dirne un paio): chiaramente Star Wars pescò a piene mani da tanti autori di fantascienza dell’epoca, ma George Lucas rifiutò sempre di riconoscere un’ispirazione diretta da Dune, e da par suo Frank Herbert, dopo la visione del primo capitolo della trilogia originale, chiosò con la celebre affermazione “proverò con tutte le mie forze a non fare causa”. Accanto al film-sogno di David Lynch e al sogno di un film-mondo folle, psichedelico e infinito partorito dalla mente di Jodorowsky e dalle chine di Moebius, oggi troviamo il lavoro di Denis Villeneuve, uno dei registi più interessanti dell’ultimo decennio, autore di grandissima personalità e che ha firmato due dei lavori di sci-fi più potenti (per motivi diversi) che mi sia capitato di vedere in tempi recenti: lo splendido Arrival (2017), ispirato da un racconto del formidabile autore di fantascienza Ted Chiang (se non lo conoscete, recuperatelo!), che gli è valso anche una candidatura agli Oscar come miglior regista, e il riuscitissimo (e non era affatto facile) Blade Runner 2049, sequel del capolavoro di Ridley Scott, un film in equilibrio costante tra continuità e scarto rispetto al testo originale, un’opera bella e seminale su più livelli, tutti strettamente concatenati all’affascinante universo di immagini che il regista ha saputo coordinare. Conforta che, sebbene apparentemente legata agli esiti commerciali di questa prima parte, la visione del regista sia stata in questo caso libera di approcciare la materia del romanzo in maniera personale, senza vincoli: il Dune di Villeneuve sarà pertanto un film in due parti, e quella vista nei cinema in questi giorni (personalmente ho scelto di vedere la versione originale sottotitolata, proiettata al Cinema Teatro Odeon di Firenze) è ovviamente solo la prima. Di fronte a un romanzo denso di avvenimenti e significati come Dune, la possibilità di contare su un’espansione del tempo che superi il limite “classico” delle due ore e mezzo (il vincolo che aveva spinto i De Laurentiis ad amputare la versione di Lynch, che sforava le quattro ore nel montaggio voluto dal suo autore) costituisce una bella boccata di aria fresca, permette al racconto di “respirare” più comodamente e non è quindi affatto da sottovalutare; d’altro canto in questo è venuta in soccorso a Villeneuve proprio quella tendenza alla serialità che si è ormai imposta nell’intero cinema hollywoodiano, estremamente sensibile alla creazione di universi narrativi spesso composti da una miriade di titoli in continuità tra loro, una tendenza sicuramente legata anche al successo che, nell’ultimo decennio, ha conosciuto la serialità televisiva (incarnata non più solo dalle TV via cavo ma dai colossi di Netflix, Amazon Prime e Apple TV).

La vicenda narrata da Dune è nota e mi limito qui a riepilogarne le linee essenziali (almeno per quanto riguarda la parte narrata in questa prima metà del film di Vileneuve). L’opera di Frank Herbert racconta le vicende della vita di Paul Atreides (qui interpretato da Timothée Chalamet), erede della casata degli Atreides, una delle case nobiliari che reggono la Galassia sotto la corona dell’Impero. L’universo di Dune si regge sull’estrazione e l’uso della Spezia, una particolare sostanza psicotropa che consente ai piloti della Gilda Spaziale di percorre in maniera efficiente e rapida le traiettorie commerciali tra le galassie, espandendo le proprie percezioni: la Spezia viene estratta sul pianeta desertico Arrakis, anche noto come Dune. L’estrazione della Spezia, assolutamente essenziale per la sopravvivenza dell’organizzazione sociale e politica dell’Impero, viene portata avanti dalla famiglia nobiliare degli Harkonnen a scapito dei Fremen, i legittimi abitanti di Dune, che si vedono usurpati dal controllo delle proprie terre e costretti a portare avanti operazioni di guerriglia contro gli invasori, nell’inane tentativo di scacciarli dal pianeta. Quando la casata degli Atreides, guidata dal duca Leto Atreides (un sempre convincente Oscar Isaac), padre di Paul, inizia ad assumere un enorme prestigio tra le altre casate nobiliari, l’Imperatore, sentendosi minacciato da questa rapida ascesa, decide di tendere una trappola al duca: d’accordo con il barone Vladimir Harkonnen (un mastodontico e debordante, in tutti i sensi, Stellan Skarsgaard), toglie agli Harkonnen il controllo di Arrakis per darlo agli Atreides, costringendoli a provvedere in poco tempo e a proprio rischio all’approvvigionamento di Spezia tanto essenziale per tutto l’Impero. Ovviamente si tratta di una trappola: gli Harkonnen, lasciando il pianeta, portano con sé o rendono inutilizzabili una buona parte delle apparecchiature necessarie a estrarre e conservare la spezia, e gli Atreides si ritrovano quindi a dover trovare soluzioni rapide per proseguire la raccolta su un pianeta completamente ostile, con il pericolo aggiuntivo rappresentato dagli enormi vermi della sabbia che popolano i deserti di Dune e attaccano continuamente i macchinari d’estrazione, rendendo difficilissima tutta la procedura. Il duca Leto, uomo illuminato, era stato previdente: aveva inviato in avanscoperta su Arrakis uno dei suoi uomini migliori, Duncan Idaho (il “collega” bassista Jason Momoa) per cercare l’appoggio o quanto meno per frenare l’ostilità dei locali Fremen, e al suo arrivo su Arrakis è proprio con il loro portavoce, Stilgar (cui presta il volto Javier Bardem), che il duca inizia a costruire un difficile rapporto. Sfortunatamente, non ci sarà tempo di realizzare l’utopia di uno sfruttamento “etico” delle risorse del pianeta: un tradimento (in verità un doppio gioco, tristemente destinato all’insuccesso) all’interno della corte degli Atreides apre le porte all’attacco sferrato dalle milizie dell’Impero insieme agli Harkonnen. La famiglia Atreides viene spazzata via, e il pianeta torna sotto il controllo della dinastia guidata dal barone Vladimir Harkonnen. Sopravvivono di fatto solo Paul e la madre, Lady Jessica (interpretata da Rebecca Ferguson), dopo una rocambolesca fuga che li conduce infine a essere salvati in aperto deserto dai Fremen: non un caso, perché Paul non è un adolescente qualunque. La madre, Lady Jessica, fa parte della Sorellanza Bene-Jesserit, un ordine spirituale estremamente potente e rispettato in seno all’Impero, composto ovviamente da sole donne e impegnato a tracciare la strada per la venuta di un Eletto, il cosiddetto Kwisatz Haderach, un individuo dai poteri psichici straordinari, destinato a cambiare le sorti dell’intero universo: Lady Jessica ha scelto di avere un figlio dal duca Leto Atreides nel tentativo ambizioso di dare i natali a questo Eletto che rappresenta, per Dune, il Messia che dovrebbe giungere a liberare infine il pianeta dall’oppressione e dal giogo imperiale, restituendogli nuova vita. Ci sono molti indizi che vedono in Paul il possibile Kwisatz Haderach, come confermato anche da una visita che il ragazzo riceve dalla Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam (Charlotte Rampling) della confraternita Bene-Gesserit, prima maestra della stessa Lady Jessica: i sogni di Paul sembrano fin dall’inizio misteriosamente connessi al pianeta Arrakis, e assomigliano più a visioni premonitrici che a semplici sogni. Il giovane vede segni del futuro proprio e di quello dei suoi amici e familiari, e soprattutto continua a vedere il volto e gli occhi di quella che sembra essere una giovane donna Fremen, Chani (interpretata da Zendaya).

La prima cosa che salta agli occhi di questa nuova riduzione del romanzo di Herbert è che, come già accennato, stavolta il regista sembra aver avuto modo di lasciare alla storia il tempo di svilupparsi: senza arrivare alle durate immaginate da Jodorowsky, Villeneuve ha la grande fortuna di poter evitare l’esagerata compressione del racconto che costituisce uno dei grandi limiti della versione di Lynch. In poco più di due ore e mezzo (155 i minuti di durata del film), Villeneuve ci racconta tutta la prima parte di questa storia, per intendersi tutto quello che occupava poco meno di due ore del vecchio film di Lynch: nella seconda parte, il regista prevede di sviluppare tutta quella parte di trama che nella versione del 1984 era stata assottigliata all’inverosimile, per volontà della produzione, perché entrasse nell’ultima mezz’ora. Così, se da una parte il Dune di Lynch appariva spesso oscuro, erratico nel suo andamento (anche nelle parti diegetiche, laddove molti snodi restavano sottintesi e apparentemente non sviluppati, di certo poco chiari, e non soltanto in quelle parti volutamente oniriche legate a sogni, visioni e presagi di Paul), la versione di Villeneuve è essenziale ed estremamente attenta alla linearità: questo fa innanzitutto di Dune: Part One un film apparentemente lento, almeno rispetto ai canoni del cinema d’azione/fantascienza cui siamo stati abituati nell’ultimo decennio. Un po’ come accadeva per Arrival e Blade Runner 2049, Villeneuve sembra prediligere una fantascienza dal vago sapore metafisico-esistenziale, e la sua narrazione abbonda di particolari ed è arricchita da piccoli segni che contribuiscono a comporre un quadro ampio, raffigurato in tutta la sua grandiosità. Nella composizione di tutti questi elementi, che hanno sempre un ruolo ben preciso nel senso del racconto (penso a dettagli apparentemente insignificanti come le decorazioni del palazzo degli Atreides a Caladan, ispirate al padre di Leto, noto per aver domato i tori in quelle che sembrano essere delle specie di corride spaziali; agli alberi piantati nel cortile della nuova residenza degli Atreides su Arrakis; o anche a snodi più importanti della storia, come il rapporto d’amicizia tra Paul e Jason Idaho), Villeneuve insegue una completezza del narrato che non è mera filologia (tutt’altro, dato che la versione offerta dal regista è molto personale e anche spesso marcatamente diversa dall’opera di Herbert: Villeneuve ha scelto di scegliere, operando sempre un controllo e una selezione sul materiale letterario), ma volontà di dare sostanza e pienezza a un intero universo: non è azzardato sostenere che in queste prime due ore e mezzo Villeneuve abbia voluto tratteggiare nel modo più chiaro e luminoso possibile i contorni di quell’universo che la venuta del Kwisatz Haderach promette di cambiare per sempre. Ovviamente, allo stesso tempo, ogni considerazione sull’opera non può prescindere dalla consapevolezza che pur sempre di una sola prima metà del racconto si tratti: un giudizio complessivo sulla visione di Villeneuve non potrà essere pronunciato fino all’uscita nelle sale del capitolo conclusivo del racconto. Eppure qualcosa si può già dire, e viene chiarito fin dall’inizio, dalla scelta della voce narrante: se in Lynch, molto rispettosamente rispetto alla cornice del romanzo di Herbert, il racconto veniva aperto dalla voce fuori campo della Principessa Irulan Corrino, figlia dell’Imperatore Padishah Shaddam IV Corrino, che recitava alcuni versi del “The Manual of Muad’dib”, opera da lei redatta e incentrata sulla figura di Paul Atreides, incanalando di fatto il racconto in un inusuale bildungsroman che trovava il suo centro nella figura del giovane erede degli Atreides e nel suo destino di Kwisatz Haderach, qui Villeneuve sceglie di aprire con una voce off (che scopriamo quasi subito essere quella di Chani, un personaggio che si preannuncia come qualcosa di più di un co-protagonista nel prosieguo della storia) che racconta la lunga battaglia dei Fremen per difendere il proprio pianeta, Arrakis, dalla violenza e dall’oppressione imperiale esercitate per mano degli invasori Harkonnen. Per quanto la vicenda di Paul e quella dei Fremen siano strettamente interconnesse, la scelta del punto di vista attraverso il quale lo spettatore vi viene introdotto non può essere casuale: non quindi un racconto centrato unicamente sullo sviluppo di un personaggio, ma una sorta di canto collettivo, forse addirittura un’epopea a più voci all’interno della quale inserire la vicenda del giovane Paul, un panorama multiforme e complesso al quale Villeneuve sceglie di dedicare tutta l’attenzione necessaria per non darne una visione periferica, laterale, incompleta, conscio di come soltanto sullo sfondo di un universo perfettamente caratterizzato nella sua complessità possa emerge il ruolo di rottura del suo protagonista. Non sorprende quindi come proprio nella caratterizzazione del giovane Atreides risiedano forse le differenze principali tra il vecchio Dune e questa nuova versione: laddove Lynch raccontava, con un tono spesso deragliante verso il mistico/spirituale/onirico, il percorso attraverso il quale il suo Paul (che presentava molti tratti del carattere di un idiota dostoevksiano) giungeva alla consapevolezza di se stesso, nel film di Villeneuve il giovane erede degli Atreides vive una serie di conflitti decisamente più marcati ed esasperati, più fisici, incarnati. È conflittuale il rapporto con la madre, per quanto di un rapporto di amore filiale si tratti; è molto più “maschile” il contesto all’interno del quale Paul si muove alla corte del padre, con le amicizie che intrattiene e le persone che si curano della sua istruzione, dei suoi allenamenti ecc. (si pensi solo al rapporto con Gurney Halleck, interpretato da Josh Brolin), e molto più marcate le sue insicurezze, figlie dell’età (la sensazione di non essere all’altezza del compito, del proprio nome, della figura del proprio padre). Alla fine lo sviluppo della storia di Paul è lo stesso, con il ragazzo che acquisisce una consapevolezza via via sempre più marcata del proprio ruolo nella storia dei Fremen e di Arrakis; e pur tuttavia se questa comprensione giungeva, nel film di Lynch, attraverso un allucinato percorso fatto di deliri, sogni e presagi, nell’opera di Villeneuve è il confronto diretto con la materia a far crescere il giovane protagonista. Buona parte del fascino dell’opera di Lynch risiede tutt’oggi nel modo in cui il racconto si snoda e sembra procedere su due binari, quello del sogno e quello della veglia: da una parte un mondo fatto di visioni, da esperire col cuore e la mente; dall’altra un mondo reale, nel quale scorre il tempo della storia, con tutto ciò che si porta dietro (l’ambizione, il tradimento, la vendetta, il ritorno e la riconquista di ciò che è proprio). Questa dicotomia veniva resa anche a livello sensoriale con la presenza di fotogrammi unici, onirici, inseriti nella trama del racconto a mo’ di segnali, elementi di rottura rispetto al narrato che aiutassero a trovare (o a smarrire, perché no) la strada dentro la storia del film. Questa fascinazione è invece in larga parte assente nell’universo narrativo del Dune di Villeneuve: l’autore canadese sceglie di girare una storia dai connotati decisamente dark, oscura, materica, ancorata a una verosimiglianza che, come già accennato, tende soprattutto a dare lo spessore della tangibilità a un universo fantastico e talmente ampio da rischiare di risultare, se non raccontato con la dovuta cura, favolistico. Allora le visioni che turbano i sonni di Paul non hanno un chiaro distacco, dal punto di vista estetico, rispetto alle immagini del mondo in cui il ragazzo vive e si muove: sono visioni di luce, sabbia, deserti e morte, visioni di una donna misteriosa che sembra collegata al futuro di Paul, ma sono comunque immagini che non sembrano provenire da un altro mondo (o, più correttamente, da un’altra linea del racconto, un mondo sotto al mondo), come accadeva nel Dune di Lynch. Villeneuve sembra prediligere, tra le molte direzioni che il racconto di Dune può prendere, quella che muove verso la storia di liberazione del popolo Fremen, di cui Paul sarà certamente un protagonista, ma di sicuro non l’unico: e se nel Dune di Lynch la meraviglia della visione apriva alla percezione della possibilità di una comprensione amplificata della realtà, delle visioni di Paul nel film di Villeneuve restano impresse soprattutto le immagini del volto e degli occhi, azzurrissimi, di Chani, uno sguardo che sembra essere soprattutto una promessa di qualcosa di grande, abbacinante e, questo sì, “rivoluzionario”. D’altro canto, come notato anche altrove, il Dune di Villeneuve è l’opera di un razionalista che riadatta un materiale intimamente psichedelico: tutte quelle derive lisergiche che avrebbero costituito la fibra del tessuto stesso del Dune di Jodorowsky e che Lynch restituiva nel suo film attraverso il delicato rapporto tra dimensione onirica e dimensione reale, e le loro reciproche oscillazioni, probabilmente il particolare più visionario dell’opera originale e dell’intera storia, sono completamente assenti nel narrato di Villeneuve. Volendo farne un discorso meta-cinematografico, viene da pensare che non si tratti necessariamente di una resa incondizionata al fatto che il potere della mente e la sua sensibilità siano state ormai anestetizzate dalla tecnologia, ma forse proprio di una strada per raccontare, attraverso il dispiegarsi della stessa tecnologia, il nuovo stato di cose di un mondo in cui la componente emotiva, pre-razionale, sembra essere sempre più compressa, sacrificata. Anche se nessuno sembra farci caso, perché i due termini abitano oggi, nel nostro linguaggio quotidiano, sfere ben diverse che non sentiamo di poter connettere tra loro, il contrario di una visione anestetica del reale è la sua visione estetica: e di questo non può essere all’oscuro un autore raffinato come Villeneuve, che dello sguardo ha fatto il centro di una bella fetta del suo cinema più recente (penso solo a Blade Runner 2049, ma il discorso varrebbe, estendendolo ulteriormente dalla sfera dell’immagine a quella del linguaggio, anche per Arrival). Di sicuro, è probabilmente questo uno dei paradossi/territori interpretativi che rendono ulteriormente affascinante la visione e l’analisi del film. Il resto è la storia di un cammino, quello che porta Paul e la madre dai fastosi palazzi di Caladan alla disfatta su Arrakis, alla fuga e al deserto: la morte del duca Leto Atreides, voluta dall’Imperatore, orchestrata dall’Impero con la compiacenza della Sorellanza Bene-Gesserit e il contributo fattivo offerto dalla smisurata violenza e ambizione del barone Harkonnen, ansioso di eliminare un credibile avversario per sue le future guerre di potere, rompe un equilibrio e prelude al rovesciamento di un intero mondo. In questo, pur scegliendo un punto di vista diametralmente opposto a quello scelto da Lynch (collettivo, in qualche modo, e non puramente individuale), Villeneuve realizza l’auspicio della Principessa Irulan, che apre il romanzo: “A beginning is the time for taking the most delicate care that the balances are correct”. Al di là della spettacolare incarnazione di un universo sconfinato e affascinante, funzionale all’ottica di unire il blockbuster commerciale (la scelta del cast, di sicura presa per un pubblico anche molto variegato, non è casuale) ad una dimensione da fantascienza “adulta” e perfettamente riuscita anche in virtù di una potenza visiva davvero debordante, intimamente legata alla personalità fortissima del suo autore (se proprio bisogna trovare un difetto nella creazione dell’universo di Dune, trovo che la caratterizzazione di Giedi Prime, pianeta degli Harkonnen, fatta nel film di Lynch fosse sottilmente più inquietante e affascinante di quella che gli viene offerta in questa nuova versione), è proprio questa la grande promessa di quest’ultimo lavoro di Villeneuve: che, pur conoscendo la storia di Herbert, non è davvero possibile dire cosa ci si debba attendere dalla sua seconda parte. Una volta rotti gli equilibri tutto è possibile, anche coltivare la speranza di assistere a una rivoluzione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.