Ritorno al Mondo Nuovo: Notes with Attachments (Pino Palladino + Blake Mills, 2021)

Pino Palladino non è certo il tipo di musicista che abbia bisogno di presentazioni: in quarant’anni di carriera da pregiatissimo sessionist, il melodicissimo glissato di questo sessantatreenne gallese di lontane origini italiane (molisane, per la precisione) ha marchiato a fuoco album di artisti come Paul Young, Erykah Badu, John Mayer o D’Angelo, e la sua tecnica fuori dal comune lo ha condotto dal 2002 a raccogliere l’eredità di John Entwinstle nella line-up degli Who. Il buon Pino si è sempre dimostrato un musicista dotato di tocco elegante, spiccata sensibilità melodica, un innato senso del groove e un’affidabilità fuori dal comune, tutte doti che caratterizzano i più grandi e che, in un felice esercizio di proprietà transitiva, ritroviamo in questo Notes with Attachments, il debutto solista di Palladino e, soprattutto, un disco gli assomiglia tantissimo aggiungendo allo stesso tempo innumerevoli nuovi livelli alla sua palette artistica. Per questo personale “viaggio inaugurale” Palladino si è affidato alle cure di Blake Mills, produttore e polistrumentista americano versato soprattutto nel jazz e nelle sperimentazioni sonore, che in queste otto tracce suona una ventina di strumenti diversi e soprattutto si adopera ad incastrare tutte le tessere di un puzzle musicale ricchissimo, eterogeneo e affascinante, cui contribuisce un ensemble di altri 11 musicisti: una piccola sezione di fiati, composta da Sam Gendel, Jacques Schwarz-Bart e Marcus Strickland; una di archi, coi violini di Andrew Bird e Rob Moose, che suona anche la viola; un botto di pianoforti preparati e sintetizzatori, governati dallo stesso Mills e da Larry Goldings, Bruce Flowers e Ted Poor; e la sezione ritmica composta da Chris Dave dietro le pelli, Ben Aylon alle percussioni senegalesi e Matt Chamberlain ai timbales. Proprio questo è il primo scarto di questo lavoro: quello che doveva essere un album solista è diventato, nel corso della sua lavorazione, una specie di progetto corale, un lavoro frutto della coesione strumentale dei 13 artisti coinvolti, caratterizzato da una chiassosa eterogeneità di ispirazioni, suoni e digressioni, un’opera la cui modernità assoluta risiede principalmente proprio nella leggerezza e sapienza con la quale riesce a fondere generi diversi, mondi musicali “altri”, in una lunga suite ibrida di otto movimenti. In questo, più che nella reale aderenza a un genere, considero Notes with Attachments un autentico disco di jazz, dove con jazz si intende la musica della contemporaneità, dell’oggi, una musica fluida e che rispecchia il mondo che la crea, un mondo nel quale, ogni giorno di più, le barriere e gli steccati devono cadere. Sia chiaro, i riferimenti sono presenti e ben riconoscibili: si va dal jazz (il free, in particolare) alle percussioni afro-cubane, dal funk al lirismo mediterraneo; e, pur tuttavia, questo album completamente strumentale, queste otto tracce misteriose ed eleganti, compongono un mosaico elusivo, sottile, magicamente sospeso, un flusso concreto di visioni immaginifiche che attingono dalle fonti più disparate per riaffermare la potenza del mezzo-musica nella creazione di ponti, connessioni e relazioni tra mondi apparentemente distanti.
Ventiquattro Fa ripetuti dal sassofono di Sam Gendel introducono al riff di basso di
Just Wrong, solide fondamenta per un suggestivo ibrido fusion avvolto dalle melodie delle ance, sostenute dai vibrati degli archi, e spezzato da un fulminante tempo dispari della batteria, per l’episodio probabilmente più jazzy dell’intera tracklist. La successiva Soundwalk è un jazz-funk notturno, sorretto dal groove granitico di Palladino sul quale si ergono gli svolazzi quasi free dei sassofoni, snodo centrale del discorso sonoro: Soundwalk è, come da titolo, una passeggiata sonora che è soprattutto un tragitto tra mondi musicali, ideale introduzione al tribalismo world di Ekuté, uno degli episodi più affascinanti dell’intero lavoro. Qui, su un tappeto ritmico di chiara ascendenza africana, impreziosito degli arpeggi della chitarra di Mills, comincia un dialogo tra il basso cadenzato di Palladino, i fiati e il violino di Andrew Bird: ben presto, il fuzz dell’elettrica di Mills scava un tunnel che percorre carsicamente l’intero brano e nel quale va a infilarsi il basso, potentissimo e rotondo. Ekuté è un brano insieme potente e lieve, in costante sviluppo, con una melodia che non si dimentica e un senso della coralità che sfocia in uno splendido finale groovy sul quale la batteria tagliata di Chris Dave si prende una bella fetta della scena. La titletrack è invece un episodio di intensa e abbacinante bellezza, lungo il quale i musicisti sembrano semplicemente lasciar cozzare le proprie linee, e una melodia sembra emergere inaspettata, per caso eppure naturalmente: ma è una melodia inafferrabile, vagamente cosmica, indefinita, quasi impalpabile. Il senso di questo brano breve ma intenso è quasi quello di un albeggiare, una dilatazione spazio-temporale luminosa e caldissima, l’accensione di una luce abbacinante. Djurkel sposa chitarre distorte e bassi profondissimi con pizzicati e fiati di sapore mediorientale, intrecciando una litania immaginifica che fa da ideale soundtrack per un film di genere fantastico; un esplosione sonora spezza a metà l’intreccio preludendo a un finale dal sapore funky, cadenzato dalla batteria di Chris Dave, cui è intitolato il brano seguente della scaletta, che si apre su un tappeto di synth che fa da sfondo a un unisono swingante di basso e fiati, governato dai grappoli di rullate del batterista. Chris Dave (il brano, s’intende, ma in fondo anche il musicista) riesce a fondere in meno di tre minuti e mezzo echi jazz, progressioni beat, bassi funk, malie chitarristiche e intrecci sonori dal sapore ambient in un unico quadro che, se mi si chiedesse di coniare un’etichetta, non potrei definire in altro modo che come “progressive alt-rock/jazz”, in ogni caso una musica totalmente nuova. Man from Molise celebra le origini italiane di Palladino, e comincia con un tempo lento della batteria sul quale il bassista può far cantare il suo fretless: per la prima volta si odono spettri di voci umane, ai quali a poco a poco si affianca una melodia dai sapori mediterranei, intessuta sopra un incedere fusion, col brano che vira repentinamente verso una world music calda e avvolgente. La conclusiva, breve, Off the Cuff è costruita tutta sulla ripetizione di una frase del basso di Palladino, sulla quale si stratificano gli interventi degli altri strumentisti: una chiusura dal forte sapore di minimalismo futurista, un meccanismo groove acceso dalla dinamo delle corde del bassista gallese.
Le prime tre parole che mi vengono in mente pensando a
Notes with Attachments hanno, per me, tutte intrinsecamente a che fare con il jazz: ibridazione, fluidità e interplay. Notes with Attachments è ben più che il frutto di un solipsismo del suo autore, ben più dello showcase di un virtuoso del basso elettrico, e quanto di più lontano dal luccicante pop al quale l’artista italo-gallese deve la maggior parte della sua fama: è, come detto, un affresco corale composto da una big band di 13 elementi, un flusso di materiale eterogeneo ibridato in una forma modernissima, mai banalmente fissato entro uno stile, che racchiude in sé un gusto profondissimo per la ricerca, la contaminazione e la sperimentazione (timbrica, armonica, ritmica e anche melodica). Per quanto la mano di Palladino (e quella di Mills, sia da un punto di vista strumentale che, anche e soprattutto, produttivo) siano evidenti nel dare forma a questo flusso sonoro, mai e poi mai i musicisti violentano questo movimento cercando di racchiuderlo entro il recinto di una lettura, di un genere: l’eterogeneità del materiale di partenza genera una profonda ibridazione, e non ci si limita ad accogliere certi tipi di suoni entro un discorso preesistente ma, piuttosto, si lascia che siano questi suoni a tratteggiare un percorso, una strada nuova (in questo la profonda sensibilità musicale di Palladino e Mills, che permette loro di calarsi dentro il flusso sonoro dell’ensamble resistendo alla tentazione di guidarlo da una posizione di preminenza, gioca un ruolo determinante). La fluidità con la quale il ricchissimo materiale di partenza viene manipolato dai musicisti emerge con chiarezza nell’intenso interplay che caratterizza lo scambio tra le varie parti: le linee di Palladino sono granitiche, esatte, perfettamente tese tra melodia e solidità ritmica, senza alcuna concessione all’autoreferenzialità, e si intrecciano e si inseriscono geometricamente dentro le distorsioni al calor bianco della chitarra di Mills, contrappuntando efficacemente il drumming vibrante di uno strepitoso Chris Dave e soprattutto gli arabeschi intessuti dai fiati di Gendel, Schwarz-Bart e Strickland; fiati che, in più di un’occasione, edificano ammalianti costrutti melodici sulle tessiture delicate degli archi, il tutto scandito dalla pulsazione costante e afro-cubaneggiante delle percussioni (perché in fondo questo è pur sempre il disco di un bassista, e quindi, in qualche misura, un discorso incentrato sul groove). In qualche modo Notes with Attachments riesce a fermare in musica l’inafferrabilità del sottile legame che mette insieme culture lontane tra loro in una fusione intrinsecamente world: se penso a queste otto tracce la prima cosa che mi viene in mente è come esse rappresentino la miglior prova dell’assunto secondo il quale solo dall’incontro tra mondi lontanissimi possa nascere l’autentica bellezza. La cosa strepitosamente bella poi è che non si può in alcun modo individuare, lungo queste otto tracce, uno strumento o un musicista che faccia da band leader: semplicemente ogni elemento è posto sullo stesso piano, inserito e dosato per contribuire alla costruzione di un quadro d’insieme, senza alcuna concessione alla personalizzazione, tenendo sempre fisso in mente l’ambizioso obiettivo di dare una forma al suono di un mondo nuovo. Per quanto riguarda tutto il resto, il primo disco solista di Pino Palladino è quanto di più minimalista possiate immaginare, a partire dalla copertina, affidata a uno sfondo grigio su cui si riportano unicamente una serie di crediti: non il prodotto di un solista, la gratificazione di una lunga carriera, ma una successione di composizioni in grado di parlare da sole, un florilegio di otto piccole meraviglie per ensemble eclettico, frutto fecondo di un appassionato ascolto del mondo, musica autenticamente del futuro, musica nuova le cui infinite potenzialità sono ancora tutte da scoprire.

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