Scultura sociale: All The Beauty and The Bloodshed (Laura Poitras, 2022)

A partire dalla fine degli anni ’90 e per tutto l’ultimo quarto di secolo, negli Stati Uniti è andata in scena una delle crisi sanitarie e sociali più gravi della storia del paese (ma direi anche dell’intera storia umana), quella che forse molti conosceranno col nome di “crisi degli oppioidi”: al centro di questa vicenda, la commercializzazione selvaggia, appunto, di un farmaco oppioide, l’ossicodone, venduto sotto il nome commerciale di OxyContin dalla Purdue Pharma (spiegone scientifico: si definisce oppioide qualsiasi composto chimico psicoattivo che sia in grado di produrre effetti farmacologici simili a quelli della morfina o di altre sostanze a essa simili, termine da non confondere con “oppiaceo”, generalmente riferito piuttosto alle sostanze alcaloidi che si trovano nell’oppio, una miscela di sostanze naturali presenti nel lattice estratto dal papavero). Ho usato il termine “commercializzazione selvaggia” perché la Purdue Pharma riuscì, con una campagna pubblicitaria spregiudicata, tutta basata sull’asserzione (che l’azienda sapeva essere falsa) che l’ossicodone potesse essere usato in maniera sicura per trattare ogni tipo di dolore senza alcun rischio di dare dipendenza nei soggetti che lo assumevano, a rendere semplice in maniera quasi sconvolgente l’ottenimento delle prescrizioni mediche per il farmaco (ovviamente anche pilotando le preferenze dei medici, e facendo leva sul loro ritorno economico). Quando infine divenne chiaro come il farmaco fosse tutt’altro che innocuo, negli Stati Uniti si contavano già centinaia di migliaia di dipendenze legate al suo consumo: come da tradizione per un sistema che tenta sempre, pervicacemente, di preservare se stesso, niente (o quasi) venne fatto per salvare le vite di chi, scivolato in questa dipendenza, cominciò a rivolgersi a sostanze diverse e ancora più pericolose per superare le crisi d’astinenza; e, paradossalmente, niente, assolutamente niente fu fatto per evitare che la strage andasse avanti. I medici continuarono a prescrivere il farmaco senza essere formati sulle sue conseguenze, e anzi lasciando campo alla disinformazione sistematica messa in atto da Purdue; e le persone continuarono a morire, colpite da quello stigma sociale al quale sempre la società si rivolge quando decide di non farsi carico di alcuna responsabilità nelle situazioni di grave crisi (oggi gli oppioidi ma ieri, tanto per fare un esempio ormai noto ai più, l’insorgenza dell’AIDS). Ad oggi si contano oltre mezzo milione di morti negli Stati Uniti d’America in conseguenza di questa vicenda, e ovviamente a queste vite perdute si legano milioni di altre persone la cui esistenza è stata sconvolta dal farmaco (famigliari, parenti, amici).

Il collegamento tra questa vicenda dolorosa (tutt’ora lungi dal vedere una conclusione soddisfacente: dopo il fallimento della Purdue Pharma, fallimento pilotato per salvaguardare la potentissima famiglia titolare dell’azienda, riconoscibile come la causa principale di tutta questa brutta storia, sono appena dello scorso anno le prime condanne inflitte, ad esempio, alle catene di farmacie americane che hanno avuto un ruolo nel dilagare di questa “epidemia”) e il racconto di Laura Poitras, racchiuso nello splendido documentario All The Beauty and the Bloodshed, si trova nella famiglia Sackler, proprietaria della Purdue Pharma. I Sackler sono da tempo immemorabile una delle grandi famiglie del capitalismo americano, da una parte da sempre coinvolta nel campo della farmaceutica (prima dell’ossicodone, il loro campo d’azione era legato alla commercializzazione del valium e in generale delle benzodiazepine) e, dall’altra, impegnata nel mecenatismo artistico e nella filantropia (fa già masticare amaro così, quindi penso non ci sia da aggiungere altro): non si contavano, fino a qualche anno fa, le ali dei grandi musei mondiali edificate e allestite sfruttando il denaro delle donazioni ricevute dai Sackler, grandi collezionisti di cimeli storici e artistici, e a loro intitolate. Ed è qui che la traiettoria della famiglia Sackler incontra quella di une delle artiste più importanti della fotografia a cavallo tra il ‘900 e questo secolo, Nan Goldin: a seguito di un intervento chirurgico, alla Goldin fu prescritto l’OxyContin, con le conseguenze che a questo punto potrete facilmente immaginare. Per sua fortuna, Goldin poté salvarsi dalle conseguenze peggiori dell’abuso del farmaco, avendo accesso a programmi di riduzione del danno anche e soprattutto in virtù del suo status sociale; fortuna che molti altri, come capirete, non hanno avuto, principalmente a causa della reticenza del legislatore a investire in questo genere di politiche: lo stigma sociale è evidentemente ancora più conveniente, anzi, doppiamente conveniente, perché da un lato “libera” il legislatore dalla responsabilità del mancato controllo, scaricando sulla persona dipendente la totale responsabilità del proprio comportamento e dell’abuso; e dall’altro salvaguardia il nome e soprattutto i capitali di chi, in maniera a volte consciamente criminosa (come in questo caso), si è avvantaggiato proprio della mancanza di controllo. Una situazione di classico win-win per il Potere e che ci ricorda, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che non esiste qualcosa come un “capitalismo etico”: quando qualcuno vi parla di qualcosa del genere, siete autorizzati a ridergli in faccia.

Fatta questa doverosa premessa, nel fine settimana 10-12 Febbraio All the Beauty and The Bloodshed è finalmente sbarcato anche nei cinema italiani. Il documentario, come detto poc’anzi, è diretto dalla regista americana Laura Poitras (già autrice del premiatissimo Citizenfour, dedicato alla vicenda di Edward Snowden), e fotografata la vita e la carriera artistica di Nan Goldin con particolare riguardo proprio per la sua battaglia contro la famiglia Sackler. Ho avuto l’opportunità di assistere a una proiezione del film tenuta presso il cinema del Centro Pecci a Prato, in lingua originale e con sottotitoli italiani, in una sala che opera da sempre un’ottima selezione di film in lingua (ad esempio di ho visto come Paterson qualche anno fa e, proprio questo fine settimana, Decision to Leave). L’opera, premiata col Leone d’Oro per il miglior film all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è tuttora in corsa anche nella categoria Miglior Documentario ai prossimi Premi Oscar. Non bisogna però lasciarsi ingannare: il cinema di Poitras è ben più che semplice “cinema verità”. All The Beauty and The Bloodshed è un film molto crudo, iperrealista, che però mescola in maniera originale il pamphlet militante e serrato, costruito sulla tensione della battaglia sociale, con la fascinazione estetica emanata dall’arte, in questo caso dalla fotografia di Nan Goldin.

Il racconto del film prosegue di fatto su due binari paralleli, da una parte costruendo una vera e propria biografia di Nan Goldin e soprattutto rievocando gli episodi principali del suo passato (esplicitando attraverso essi le ragioni ideali e i motori della sua produzione artistica), e dall’altra raccontando, in presa diretta e telecamera a spalla, dentro il flusso del presente, le tappe dell’attivismo promosso dalla Goldin in merito alla protesta sull’ossicodone e contro i Sackler. Questi due piani, però, non sono mai, giustamente, compartimenti stagni, ma tendono fatalmente ad intersecarsi, e a sconfinare l’uno nell’altro, con l’arte che tracima nella protesta (e le manifestazioni che diventano performance, quasi una Plastik di beuysiana memoria, scultura sociale a tutti gli effetti) e la protesta che trova le proprie ragioni più intime nello stesso vissuto dell’artista. Il racconto di un’esistenza sradicata (i difficili rapporti giovanili coi genitori, seguiti soprattutto al suicidio della sorella maggiore Barbara, avvenuto in un istituto nel quale era stata rinchiusa; una vita vissuta ai margini della società, incontrando esperienze complesse e dure come la tossicodipendenza o la prostituzione, prima di veder riconosciuto il valore della propria arte; la decisione di usare la propria influenza artistica per sostenere cause politiche e sociali troppo importanti per poter essere ignorate, dalla questione femminile alla vicenda dell’AIDS fino appunto alla recente crisi degli oppioidi) è intercalato quindi al racconto della costituzione di un’associazione di vittime e famigliari di vittime della crisi, chiamata P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now, qui il sito web) e fondata da Goldin alla fine del 2017. Con questa associazione, Nan Goldin ha contribuito in maniera determinante a fare qualcosa che i tribunali (e forse l’intera società) non sono ancora riusciti a fare: associare in maniera permanente e non più ignorabile il nome della famiglia Sackler alla crisi dell’ossicodone. Sfruttando il proprio status artistico, la fotografa è riuscita, insieme all’associazione, a fare leva sui principali musei e sulle principali fondazioni artistiche internazionali perché smettessero di associare il proprio nome a quello della famiglia Sackler, ottenendo prima lo stop all’accettazione delle donazioni della famiglia e poi, in molti casi, la cancellazione del nome Sackler dalle ali dei musi ad essi dedicate. Può sembrare una soddisfazione di scarso rilievo ma non bisogna dimenticare, come il documentario ci ricorda, che i Sackler erano riusciti a venir fuori dal processo di fronte al tribunale fallimentare praticamente puliti, con la garanzia di poter conservare i propri capitali intatti (dopo averli chiaramente distratti dalla Purdue proprio allo scopo di non perderli) e la prospettiva, tutt’altro che peregrina, di essere riusciti a scamparla nonostante il crimine (how to get away with murders, viene da dire): il tutto, col placet del sistema, integralmente impegnato ad auto-conservarsi. All The Beauty and The Bloodshed ci insegna in maniera plastica come le questioni di metodo siano in realtà fondamentali: la damnatio memoriae non restituirà a nessuno i morti, non potrà curare il dolore perché per quello non esiste cura; però impedirà agli eredi di questa famiglia, che ha storicamente costruito la propria fortuna sullo sfruttamento privo di scrupoli del dolore, di continuare a presentarsi come ciò che sicuramente non è, o almeno non è integralmente: una famiglia di filantropi, di collezionisti d’arte, di capitalisti illuminati.

Al di là però degli aspetti militanti, All The Beauty and The Bloodshed è importante anche perché il parallelo che crea tra la creazione artistica e la protesta politica getta luce sull’uso della performance come mezzo di rivendicazione sociale: le azioni della P.A.I.N., orchestrate da Goldin insieme ai militanti dell’associazione, sono in primis delle potentissime performance, concepite come vere e proprie azioni, inscenate all’interno di spazi adibiti all’Arte e quindi, per definizione (almeno auspicabilmente), intesi in un rapporto dinamico con l’Arte che ospitano. Allora i flaconi vuoti di farmaci gettati dentro le fontane, i militanti sdraiati a terra a mimare corpi senza vita, avvolti da un turbinio di volantini di protesta in foggia di finte prescrizioni mediche, le banconote insanguinate recanti la scritta “Oxy”, persino le conseguenze di queste azioni, come gli sgomberi forzati manette ai polsi ai quali i militanti vanno incontro; tutte queste azioni sono insieme azioni politiche ma, meno ovviamente, anche azioni artistiche, e ci ricordano come il principio dell’arte dovrebbe essere quello di incidere in qualche misura sulla realtà contribuendo anche, perché no, a cambiarla. La forma del documentario aiuta a creare questa sensazione, attraverso i contributi dei vari protagonisti intervistati direttamente, e intercalando al racconto della gestazione della performance le immagini in presa diretta della sua attuazione. Lo stesso espediente narrativo Poitras lo applica al racconto autobiografico di Nan Goldin: la voce fuori campo dell’artista accompagna foto, video, immagini di repertorio e soprattutto brevi estratti dei caroselli fotografici che hanno costituito la parte più importante dell’opera artistica della fotografa (vediamo quindi stralci da opere quali The Ballad of Sexual Dependency, The Other Side, Sisters, Saints and Sibyls e Memory Lost), creando un evidente parallelo col racconto dei modi e degli scopi della protesta. Si assiste pertanto a quella feconda fusione tra Arte e Vita che da sempre rappresenta una delle caratteristiche più proprie e definite dell’opera di Nan Goldin: raccontando la vicenda attraverso questi due binari paralleli, Poitras riesce a mettere su pellicola quella stessa vitalità inquieta, militante, autenticamente politica che si respira nelle fotografie di Nan Goldin, facendo di All The Beauty and The Bloodshed qualcosa di più di un semplice documentario autobiografico, ma piuttosto un ritratto in versi, un racconto per immagini, quasi lasciando che sia l’artista stessa a dispiegarsi lungo le due ore di proiezione.

Di particolare importanza, lungo la narrazione, è la figura della sorella di Nan Goldin, Barbara, la cui fanciullezza fu bruscamente interrotta a causa del suo carattere ribelle, rapidamente catalogato come disagio mentale, e che pagò conseguenze tragiche (che l’avrebbero spinta al suicidio) strettamente legate all’incapacità dei genitori di prendersi cura dei figli (incapacità in larghissima parte legata ai traumi subiti dagli stessi genitori, e in particolare dalla madre, in giovane età). La vicenda dolorosa di Barbara, la “sorella più grande” che è insieme primo riferimento e affetto più profondo della protagonista, accompagna l’intero film e ha certamente accompagnato tutta la vita di Goldin: la sua insofferenza alle regole, il suo ribellismo e la volontà feroce di autoaffermarsi, tutti prodromi di quella che sarebbe stata la vita della stessa artista americana. Il confronto con questo dolore e il coraggio che è servito (e serve) ad affrontarlo sono distillati in alcune delle sequenze più toccanti e difficili di tutto il film, il cui senso ultimo sembra essere racchiuso dentro una citazione da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad (dal quale peraltro proviene proprio il titolo, All The Beauty and The Bloodshed), affidata a un biglietto che Barbara aveva con sé al momento della morte, e che la madre legge in un video girato dalla stessa Goldin e presentato all’interno del documentario: Droll thing life is, that mysterious arrangement of merciless logic for futile purpose. The most you can hope for is some knowledge of yourself that comes too late – a crop of inextinguishable regrets. In qualche misura, la vicenda di Barbara costituisce un paradigma per la vicenda stessa di Nan Goldin, qualcosa che precorre tutta la sua storia personale (un tema intricatissimo che merita ben più che una riflessione occasionale, e per il quale rimando ad esempio a questa bellissima analisi).

Molte altre cose si potrebbero aggiungere sull’importanza di quest’opera e sul perché dovreste assolutamente correre a vedere questo film al cinema, prima che le logiche delle programmazioni riassorbano il palinsesto riportandoci alle consuete e più rassicuranti saghe multimilionarie che infestano sistematicamente gli schermi cinematografici da un quindicennio a questa parte; però voglio chiudere con un paio di ulteriori riflessioni soltanto.

La prima: uno dei temi principali di questo racconto è quello dello stigma sociale. È chiaro il parallelo tra la vicenda dell’ossicodone e quella dell’AIDS, il punto nel quale le due narrazioni parallele dell’opera di Poitras (la linea temporale del passato e quella del presente) si incontrano più da vicino: lo stigma sociale che per anni ha avvolto l’AIDS, il suo essere categorizzato dal sistema come una malattia che colpiva soltanto alcuni specifici corpi della popolazione, i tossicodipendenti ma soprattutto gli omosessuali (a volte insieme a cataclismatici deliri di stampo biblico che vedevano nella malattia la punizione divina per il peccato stesso dell’omosessualità) è lo stesso identico stigma che avvolge la dipendenza e l’abuso di sostanze (legali o illegali); spaventosamente identica la negazione che ha accompagnato i due eventi, l’immobilismo politico e legislativo, l’incapacità del sistema di difendere i cittadini (gli esseri umani) che fanno parte della società, la volontà ferrea del Potere di de-responsabilizzarsi e scaricare la responsabilità unicamente sulle persone direttamente colpite dalla crisi. È a dir poco inquietante come due vicende con così tanti punti di contatto possano essersi verificate nel rapido volgere di quattro decenni, apparentemente con le stesse modalità e con gli stessi sviluppi, e dovrebbe gettare un’ombra gelida sul funzionamento delle società liberal-capitalistiche nelle quali viviamo e spingerci a ben più di una riflessione a riguardo del modo nel quale restiamo vigili e attenti a ciò che ci circonda. All The Beauty and The Bloodshed predica allora soprattutto l’idea di una cittadinanza attiva, e traccia una direzione che dovremmo imparare a seguire per agire direttamente sulle società nelle quali siamo a volte intrappolati. La mostra curata da Goldin nel 1989 all’Artists Space di New York, Witnesses: Against Our Vanishing, cercava proprio di raccontare lo stigma, portando la tragedia dell’AIDS dentro i musei, dentro la vita reale delle persone, attraverso le testimonianze di artisti come David Wojnarowicz, che di AIDS sarebbe morto solo pochi anni dopo; le azioni di P.A.I.N. contro i Sackler compiono lo stesso identico percorso, sottolineando ancora una volta lo stigma sociale cui sono sottoposte le vittime della crisi, facendosi insieme strumento di lotta e arma against their (our) vanishing.

La seconda: uscendo dalla proiezione di All The Beauty and The Bloodshed ho avuto, come mi capita abbastanza spesso, la sensazione che l’Arte sia davvero un organismo vivo, e possa continuare ad esserlo anche dentro i musei (anche se a volte quegli spazi ci sembrano un po’ anestetizzati, come se avessero l’aspetto di comatose corsie d’ospedale). Quello che Poitras e Goldin mettono in scena è l’azione artistica che scolpisce la realtà, modellandola: Joseph Beuys la chiamava (mi lancio un po’ a generalizzare) scultura sociale, e per esteso la si potrebbe intendere come un modo di stare insieme dentro la società fino a cambiarla, rendendola più a misura d’uomo e delle sue ambizioni. L’azione di protesta è una performance, e l’Arte tracima nella vita reale: questo, come già accennato, è un meccanismo messo palesemente in mostra a più riprese nel corso della narrazione. Accanto alle azioni della P.A.I.N. viene rievocato per esempio il lavoro investigativo svolto dal giornalista Patrick Radden Keefe per la realizzazione del libro Empire of Pain: The Secret History of the Sackler Dynasty, creando intrecci e commistioni tra queste vicende; e allo stesso modo da sempre nella fotografia di Goldin era racchiusa la vita privata dell’artista in tutti i suoi aspetti, anche quelli più dolorosi. All The Beauty and The Bloodshed mette in mostra un interscambio continuo tra Arte e Vita: l’una agisce sull’altra, l’una può modificare l’altra. L’Arte smaschera la Vita, sbugiardando in questo caso le zone d’ombra del Sogno Americano, e insieme indica la possibilità di un’Altrove, facendosi strumento del cambiamento. Riuscite a pensare a qualcosa di più potente in una società come la nostra, nella quale ormai è diventato così difficile credere in qualcosa?

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