September Round-Up: New and Old Adventures on Spotify

Si comincia con un doppio contributo dai Vulfpeck, tanto per non perdere il vizio. Nel mese di settembre, tra le mille novità riguardanti la nostra low volume funk band preferita (tra parentesi: i soldi tirati su con l’asta della traccia 10 del nuovo album, The Joy of Music, The Job of Real Estate, d’ora in avanti JoM/JoRE per gli amici, sono stati destinati dalla band al finanziamento di alcune campagne su DonorsChoose, legate a progetti musicali/artistici all’interno delle high school americane), ci sono infatti i due brani nuovi che vi faccio ascoltare qui.

Il primo brano, LAX (codice IATA dell’Aeroporto Internazionale di Los Angeles), ha dato luogo ad uno dei commenti più divertenti letti recentemente su Youtube:

“Can’t believe they named an airport after a Vulfpeck song”
“You’re going to freak out when you hear about Cory Wong!”

E fin qui niente di nuovo, si sa che il pubblico dei Vulfpeck è simpatico assai (oltre che composto da gente bravissima ad armonizzare a più voci e a cui piace da matti “cantare” una certa linea di basso). Quel che c’è di bello, invece, è che anche questo brano nasce da una collaborazione dei nostri, stavolta con il sempre grandissimo Joey Dosik, che ci mette il sax e la voce per cantare dell’amore ai tempi dei terminal aeroportuali: mai il terminal degli arrivi era stato tanto romantico. Aggiungo solo che Joe Dart ci mette un pizzico di slap, che al solito la sezione ritmica (Katzman-Dart-Wong) è quadratissima e vi spinge a muovere quel piede anche se (come me) siete cionchi di legno, che il piano a quattro mani di Jack Stratton e Woody Goss è una goduria e il ritornello vale da solo il prezzo del biglietto: il resto lo trovate cliccando play qua sotto.

Poi c’è un brano che viene dal passato, e che i Vulfpeck recuperano per inserirlo in JoM/JoRE (come altri, svelati successivamente): si tratta di Poinciana, un fantastico lavoro di drum machine, basso (eccezionalmente suonato da Theo Katzman) e voci filtrate nel talkbox. Si tratta di una rilettura dell’iconico tema elaborato dal pianista jazz Ahmad Jamal, che tanto per dire era uno dei musicisti preferiti di un tal Miles Davis, e che a sua volta riprende e riarrangia la popolare canzone di Nat Simon con testi di Buddy Bernier, scritta e pubblicata nel lontano 1936 (qui qualche informazione in più). Vale la pena anche godersi il celebre (e finalmente sottotitolato) scambio di battute finale tra Katzman e un ineffabile Woody Goss: argomento del discutere, le abitudini vocali delle cosiddette “tenor male voices”. Ciò detto, chioserei semplicemente con un altro folgorante intervento pescato tra i commenti su Youtube: “Joe Dart on the Joe Dart was never so literal”.

Maddie Jay è una cantautrice e polistrumentista di base a Los Angeles, California, con all’attivo un EP, Mood Swings, pubblicato lo scorso 29 Aprile, e alcuni altri brani sparsi. Nel corso del lockdown, la ragazza si è dedicata alla composizione di questo breve brano, intitolato Undertow pubblicato lo scorso 28 agosto e più recentemente alla stesura di un nuovo EP online in 5 appuntamenti live su Twitch con i propri fan. Musicalmente, Undertow è un piccolo gioiello di dream-pop scandito dalle drum machine e dalle tastierine, e letteralmente dominato da una linea di basso spettacolare (la Jay ha studiato basso a Boston ed è soprattutto una formidabile bassista). La voce, delicata ed eterea, racconta la storia di un rapporto d’amore trascinato lungo le onde tristi dalla depressione di uno dei partner (I’ve been feeling so alone/ Swimming in your undertow): il testo (al pari della musica) è una piccola gemma. Il tutto scritto, suonato, registrato e prodotto dalla stessa Jay nel suo appartamento, e infine affidato per il master alla sound engineer Emily Lazar Lodge (una che ha vinto anche un Grammy, categoria Best Engineered Album, Non-Classical nel 2019 per Colors di Beck). Ma quello che rende il tutto ancora più prezioso è lo splendido video in stop motion che accompagna il brano, realizzato dalla Jay assolutamente in proprio usando soltanto uno scanner, tanta fantasia e mettendoci più di 60 (!!!) ore di lavoro. Per usare le parole dell’artista, Did this allll summer so you could stare at your phones for 2.5 minutes and say “huh that’s kinda cool”. Cliccate play perché è davvero una delle cose più tenere e azzeccate che vi sarà capitato di vedere da parecchio tempo a questa parte.

(Poor) english version: Maddie Jay is a canadian songwriter and multi-instrumentalist based in LA, California, whose first EP, Mood Swings, was published on April 29. During the lockdown, Maddie Jay has worked on this short track, Undertow, published on August 28, and on a new EP (realized also during a series of Twitch live sessions with her fans). Musically, Undertow is a little dream-pop gem, ruled by drum machines and pianos and literally dominated by a gorgeous yet very simple bassline (Jay studied bass in Boston and she is mostly a fantastic bass player). Jay‘s gentle and ethereal voice talks about a difficult relationship, swept away by sad waves of the depression with which one of the partners is struggling (I’ve been feeling so alone/ Swimming in your undertow): also the lyrics are very interesting, and gently written. Here Jay has written, played, recorded and mixed the whole thing, letting Grammy Winner Emily Lazar Lodge take care of the master. But what makes everything even more amazing is the stop-motion music video that goes along with the song, made again by Jay herself in only more than 60 (!!!) hours of work, using just a scanner and a lot of fantasy. As the artist wrote on Instagram, Did this allll summer so you could stare at your phones for 2.5 minutes and say “huh that’s kinda cool”. Press play because this is one of the most warm and inspired work you will see/hear in this year!

Il buon James Blake si è tinto i capelli di biondo platino e ha deciso di transitare più spesso dalle parti delle cose che mi hanno impressionato favorevolmente in questi mesi. Da parte mia, non posso che esserne contento: dopo la splendida Are You Even Real?, di cui avevo parlato qualche Round-Up fa, arriva la struggente versione piano-voce di Godspeed, brano di Frank Ocean originariamente contenuto nell’album Blonde (2016) che lo stesso Blake aveva a suo tempo contribuito ad arrangiare, oltre a farne una prima cover un annetto più tardi. Che dire? Quando il buon James ci si mette d’impegno di solito non fa prigionieri e qui gli ingredienti ci sono tutti, un amore tormentato (I will always love you how I do/ Let go of a prayer for you, e poi ancora in un crescendo straziante Wishing you godspeed, glory/ There will be mountains you won’t move/ Still I’ll always be there for you/ How I do/ I let go of my claim on you), la voce splendida di Blake, poche note sparpagliate del piano, un’atmosfera intima, calda, piena di sentimento, il senso di un’esplosione trattenuta: This love will keep us from blinding of the eyes/ Silence in the ears, darkness of the mind.

Conviene partire da una premessa: non intendo recensire il disco di cui sto andando a parlare. Non avrebbe molto senso, si sono spesi (e si spendono) fiumi di parole sulla carriera dei R.E.M., e New Adventures in Hi-Fi è un episodio che non fa eccezione. Ne potremmo parlare come del disco che segue gli exploit di Out of Time (1991) e Automatic for the People (1992), e quello che all’epoca parve il mezzo passo falso di Monster (1994); più facilmente, si potrebbe scriverne come dell’ultimo album dato alle stampe dalla band nella sua formazione storica, quella che includeva il batterista Bill Berry, fiaccato da un aneurisma patito sul palco nel 1995 e, da quel momento, progressivamente allontanatosi dal percorso dei suoi compagni di gruppo. L’addio giunge al termine delle registrazioni di questo disco, che ha compiuto 24 anni proprio lo scorso settembre, e che è un disco sul quale ancora si dibatte: “lavoro non all’altezza”, “lavoro minore”, “capolavoro”, “un album riscoperto con gli anni”. Non serve che stia qui a scrivere da che parte mi collochi in questa inutile querelle. Dico soltanto che, quando avevo ancora una band, il nostro ultimo progetto musicale partiva (per me) dalle poesie di Allen Ginsberg, dai versi di Derek Walcott e dalle atmosfere desertiche e on the road di questo album di Michael Stipe, Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry. Si tratta delle stesse atmosfere catturate in maniera mai così iconica ed efficace nell’immagine di copertina: un deserto attraversato in auto, un panorama ostile sul quale si assembrano nuvole minacciose, il tutto impresso sulla retina attraverso un bianco e nero drammatico, addirittura pulsante, un’immagine che tiene insieme il dinamismo esteriore, fisico, il movimento, e il tumulto interiore, sentimentale, l’emozione. Motion/Emotion, per giocare con un’idea cara a Wim Wenders, uno che di road movies se ne intende: un disco di viaggi, di spostamenti fisici e scarti sentimentali, di dolore e mutazione, una confessione vibrante e urgente. Soprattutto l’urgenza: quella più rock espressa in Wake up bomb, quella emotiva, squassante di E-bow the letter, quella impressa in tutta la sua forza lungo i solchi di Be Mine o di Electrolite. Se New Adventures in Hi-Fi fosse un film, sarebbe senz’altro un road movie, un percorso fatto di stazioni, di autostrade, di luci al neon e panorami infiniti: non è un caso che la grande maggior parte del disco sia stata registrata on the road, durante il tour di supporto a Monster. Un percorso che inizia dal grande west dell’opening di How the West was won and Where it got us e si snoda con piglio quasi biblico attraverso il nostro intero tempo, una salmodia di rock istintivo, quasi primordiale, sensuale e tattile: New Adventures in Hi-Fi è un disco ancora oggi presente, nel senso della sua fisicità, di qualcosa che si può quasi toccare con mano, sperimentare, sfiorare e stringere, qualcosa che ti accarezza ma sa anche prenderti a schiaffi. Sono stordenti i feedback di Undertow, ed è malinconica la chitarra di Buck, suonata con l’e-bow lungo la meravigliosa poesia in musica che è E-bow the letter, una straziante confessione in forma di lettera quasi sussurrata da Stipe (Look up, and what do you see?/ All of you and all of me, florescent and starry/ And some of them, they surprise/ I can’t look it in the eyes, Seconal, Spanish fly, absinthe, kerosene/ Cherry-flavored neck and collar/ I can smell the sorrow on your breath/ The sweat, the victory and sorrow, the smell of fear/ I got it) con i cori di Patti Smith; c’è il devastante feedback che scandisce Leave, un tornado di distorsioni che porta via con sé la dolcezza dell’organo su cui il brano si apre, la perfetta canzone dell’addio e della partenza, un altro momento dolente e totalizzante; il pop sognante e malinconico di Bittersweet me e l’inattesa, profonda dichiarazione d’amore e d’ossessione di Be Mine, qualcosa di così diretto e intenso che non ti aspetteresti mai da un autore tanto ermetico quanto Stipe, adagiata prima sulle chitarre distorte e infine di nuovo su una splendida linea melodica disegnata dall’e-bow; l’intermezzo western-strumentale di Zither, il rock’n’roll che gioca sui cliché del rock’n’roll di So Fast, So Numb e infine le concrezioni e i panorami desertici di Low Desert, un brano rock scarnificato nel quale riecheggia la grande tradizione musicale americana; e c’è Electrolite un attimo prima della fine, un brano che (fosse stato per Stipe) non ci sarebbe stato, una ninna-nanna per il ventesimo secolo, il riconoscimento dell’impossibilità (forse) di mettere in musica pop la profondità di tutte le sensazioni che muovono il cuore pulsante di questo lavoro denso, stratificato, oscuro a tratti, in perenne movimento. New Adventures in Hi-Fi dipinge una band nel mezzo del cambiamento in un mondo che, di lì a poco, sarebbe stato ancora più confuso, mutevole, privo di punti di riferimento (ammesso che ce ne siano davvero mai stati, da qualche parte): durante un viaggio si possono raccontare tante cose, lasciar scontrare tutti i punti di vista, cercare nuove prospettive. Forse è vero che gli unici pensieri buoni sono quelli che nascono camminando, per parafrasare malamente Nietzsche: mi piace soprattutto pensare a New Adventures in Hi-Fi come a un viaggio che inizia con le percussioni e il buffo giro di piano di How the West was won e si conclude dentro il silenzio che accompagna le ultime parole di Michael Stipe in Electrolite (I’m not scared/ I’m out of here), un silenzio profondo, quasi metafisico, un viaggio che finisce in un lungo sonno. Twentieth century,/ go to sleep/ Really deep/ We won’t blink/ Your eyes are burning holes through me/ I’m not scared/ I’m out of here.

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