September Round-Up: il silenzio, la tempesta e le pure contraddizioni

A 21 anni dalla pubblicazione di Kid A e poco più di 20 da quella di Amnesiac, Thom Yorke e soci tornano con un album celebrativo, Kid A mnesia, lanciato dal singolo If you say the word, uno dei brani che saranno inclusi nel terzo disco di questa tripla ristampa, contenente outtakes, rarità, versioni alternative e brani inediti dell’epoca. If you say the word è un brano al quale i Radiohead lavorarono proprio nel corso delle sessions di Kid A, salvo poi abbandonarlo verso la fine del ’99: nel diario online del buono Ed O’Brien ci si riferiva al brano col titolo di C Minor Song. If you’re in the forest out of your mind/ Opposite branches breaking your eyes/ If you’re stuck in rainfall, shattering glass/ Where you miss the moment, watching it pass canta il buon Thom nella prima strofa, e proprio di questo si tratta: If you say the word è un gorgo oscuro nel quale è meraviglioso perdersi, con la certezza che If you say the word, if you say the word/ Then I’ll come running. Una richiesta d’aiuto, forse? Di sicuro un sound non così prossimo a quello dei due album di inizio 2000, forse più vicino a certe direzioni che i Radiohead avrebbero preso qualche anno dopo, a partire da Hail to the Thief. Appare abbastanza probabile che Kid Amnesiae (questo il titolo del terzo disco) non conterrà che pochi brani realmente inediti, ed è ovvio e scontato che, quando si parla della ripubblicazione (e della storicizzazione) di una coppia di dischi capaci di incedere un solco tanto profondo nella musica pop dell’ultimo ventennio, si trovi qualcuno già pronto a dubitare dell’onestà delle intenzioni della band: che non si tratti soltanto di una banale operazione commerciale? Personalmente, vedo questa riedizione (come il lussuoso lavoro fatto a suo tempo per OKNOTOK nel ventennale di OK Computer) più come un gesto d’arte, che insuffla nuova vita in una musica che non ha ancora finito di dire tutto quel che ha da dire, consegnandola al futuro (e, chissà, alle orecchie di ascoltatori che ancora non l’hanno incontrata) con tutta la sua forza ancora intatta. E scusate se è poco.

Il 17 settembre scorso Nick Cave ha dato alle stampe l’inedito Earthlings, registrato coi fidi Bad Seeds (incarnati per l’occasione dal solo Warren Ellis), e risalente al periodo delle sessions del bellissimo Ghosteen (2018/2019). Il brano farà parte della raccolta B-Sides & Rarities Part II, in uscita il 22 ottobre prossimo a completamento dell’omonima prima parte pubblicata nel 2005, che Nick Cave in prima persona definisce come uno dei suoi lavori preferiti della band (Mi è sempre piaciuto l’originale “B-Sides & Rarities” più di ogni altro nostro album. È l’unico album che ascolterei volentieri. Sembra più rilassato, anche un po’ insensato in alcuni punti, ma con belle canzoni ovunque. C’è anche qualcosa, nella piccolezza di certe canzoni che è più vicino al loro spirito originale.) Canzoni perdute, come questa splendida preghiera per voce e synth, con un testo che è più una poesia che il vero testo di una canzone, ancora incentrato sul dolore per la morte del figlio di Cave, al centro dell’album Ghosteen di cui Earthlings avrebbe dovuto fare parte:

Children halloweened in sheets
Go running up and down the streets
I thought these ghosts had gathered here for me
I thought these songs would one day set me free
Laughter fills the sky above
How can such a thing provoke our love?
I thought these ghosts were there to set me free
I thought these songs had traveled here for me
I think they’re singing to be free
As one star dies and the night collapses
A rise in love enraptured
I thought that love would one day set me free
I think my friends have gathered here for me

Se vi sentite già malinconici per l’estate che ormai volge al termine, Losing Lights, il primo singolo pubblicato dal cantautore australiano (di base a Berlino) Jackson Dyer dai tempi del primo LP, il bellissimo Inlet del 2019, è il brano che fa per voi: un ibrido indie-pop nobilitato dalle sfumature soul della voce di Dyer che gronda summer vibes, piccola malinconia e sensazione di un autunno incipiente a ogni nota. Vi risparmio il consueto racconto di come ho incontrato questo ragazzo australiano, il Mauerpark, bla bla bla bla: sappiate soltanto che Losing Lights è un altro luminoso esempio della musica che Jackson è in grado di scrivere, e di bella musica ce n’è sempre tanto bisogno.

(English Version) Summer is now coming to an end (well, in fact it’s over), and if you’re already feeling melancholy for it, Losing Lights, the first single released by the Australian singer-songwriter (based in Berlin) Jackson Dyer since his first LP, the beautiful Inlet (2019), will definitely help you overcome this sensation: an indie-pop song graced by the soulful nuances of Dyer‘s voice that melts together summer vibes, a little, fascinating melancholy and the feeling of an incipient autumn in every one of its notes. I won’t bore you with the same, old story of how I met this Australian guy that one day at the Mauerpark in Berlin etc. etc. etc.: you just have to know that Losing Lights is another shining example of the music that Jackson is capable to write, and good music is always so much needed.

Con il candombe di El tiempo lo dirà, Sebastián Tozzola anticipa l’uscita del suo terzo lavoro solista, Paseo del Bajo Vol.2, prevista per la fine dell’anno: Sebastián è (come forse saprete, se seguite queste pagine) uno dei miei bassisti preferiti, dotato di un tocco meraviglioso e di una musicalità rara, e devo ammettere che gli invidio molto l’espressività che riesce a tirar fuori dal suo meraviglioso fretless 5 corde MusicMan BFR (facciamo che ve lo guardate in tutta la sua meraviglia in questo video Instagram). El tiempo lo dirà è tutta costruita sulla linea melodica disegnata dal fretless di Sebastián (impegnato anche a gestire il cantato), che tratteggia curve sinuose memori del Rio de la Plata, corso d’acqua dal quale il brano trae la primigenia ispirazione: non poteva esserci miglior biglietto da visita per Paseo del Bajo Vol. 2!

(English Version) With the candombe of El tiempo lo dirà, Sebastián Tozzola anticipates the release of his third solo work, Paseo del Bajo Vol. 2, scheduled for the end of the year: Sebastián is one of my favorite bass players, gifted with a wonderful touch and a rare sense of musicality, and I must admit that I really envy him the expressiveness that he manages to bring out from his wonderful 5-string Music Man BFR fretless (let’s have a look to this wonder in this Instagram video). El tiempo lo dirà it is entirely built on the melodic line drawn by Sebastián‘s fretless (not the mention that he also sings, and as a bassist I’m always astonished by other bass players that can sing an play like Sebastián does at the same time!), which outlines sinuous curves reminiscent of the Rio de la Plata, the famous river from which this song draws its primal inspiration: El tiempo lo dirà is the best way to announce Paseo del Bajo Vol. 2, and I’m very curious to hear the whole work!

“Just give the world love”: Songs in the Key of Life (Stevie Wonder, 1976)

Questo settembre ha compiuto 45 anni uno dei dischi cardine della carriera di Stevie Wonder, quel Songs in the Key of Life che è stato (pensate) il diciottesimo album di studio dell’artista americano, pubblicato il 28 settembre del 1976 per la Tamla (una divisione della classica Motown Records): album dell’anno alla diciannovesima edizione dei Grammy, realizzato (come di consueto) con una line-up di musicisti da far tremare le vene e i polsi (cito solo Nathan Watts al basso, Greg Phillinganes alle tastiere e nientepopodimeno che Herbie Hancock che fa una comparsata col suo Fender Rhodes in As), Songs in the Key of Life è probabilmente il maggior successo dell’intera carriera di Wonder, o se non altro uno dei suoi dischi più acclamati. Inutile tentare una recensione di un disco che, certamente, non ha bisogno di poche parole e confuse: 17 canzoni nella sua versione “semplice”, addirittura 21 in quella comprendente l’EP A Something’s Extra, e per dare la dimensione del valore di questo lavoro vi basti ricordare che dentro ci sono brani come I Wish, Sir Duke, Isn’t She Lovely, la già citata As, Love’s In Need of Love Today, Pastime Paradise e molti altri e che no, non è un greatest hits. Basterebbe il soul di Love’s In Need of Love Today, posta in apertura del disco, a far saltare da solo il banco: sette minuti di un tour de force vocale ed emozionale adagiato sui bassi di Nathan Watts, che fanno molto, molto, MOLTO Motown (un suono che è già un classico di per sé). Poi però ci sono l’R’n’B spigoloso ed elettronico di Have a Talk With God, il lussuoso valzer sintetico di Village Ghetto Land, un po’ Vienna e un po’ suburbs, il funk-soul ad alto voltaggio della strumentale Contusion, che flirta pericolosamente e magicamente col progressive e mostra una potenza di fuoco ritmica che in pochi eguagli(eran)a(va)no nel mondo, e soprattutto l’irresistibile Sir Duke, un autentico atto d’amore R’n’B per il jazz e per l’opera del grande Duke Ellington, una delle massime ispirazioni di Wonder, ampiamente citato nella struttura, nel tema e nel celebre (e bellissimo) ostinato del brano (per la serie “geni che parlano di altri geni”, cliccando qui trovate Jacob Collier che vi decostruisce il brano). Sarebbe già più che abbastanza, e però subito dopo c’è appunto I Wish (che valse a Wonder il Grammy per la Best R&B Vocal Performance, categoria maschile), con una linea di basso che è già leggendaria per i fatti suoi e che, in generale, toglie il fiato (come tutto il resto della tracklist, ci mancherebbe: non c’è sosta, si inanella una gemma dietro l’altra). Con I Wish si inaugura anche il festival del campionamento a venire (si è perso il conto di quante parti di questo brano siano state citate/rubate/campionate negli anni seguenti, vi ricordo solo il ritornello, incorporato in Wild Wild West del buon Will Smith; per non parlare della celebre Pastime Paradise, ripresa niente di meno che da Coolio e dai suoi Fugees una ventina di anni dopo). Il delicato intro di piano di Knocks me off my feet, in odore di jazz ballad, prelude a un lentone soul/avant-pop di gran classe, che sfocia infine nella già citata Pastime Paradise, un piccolo gioiello soul nel quale, per la prima volta, un synth Yamaha GX-1 venne usato per replicare un’intera sezione d’archi; seguono Summer Soft, una ballad pianistica presto cadenzata da un gran lavoro della sezione ritmica, e i 6 minuti di Ordinary Pain, un groove pachidermico che si muove come un tutt’uno ad accompagnare la voce irresistbile di Wonder prima, e un solo pazzesco di synth poco più avanti. E siamo solo alla fine del primo LP. Già, perché il secondo si apre sul lato A con un altro di quei classici senza tempo, Isn’t She Lovely, che si fa prima a chiedere chi non la conosca che a raccontarla: ispirata alla nascita della figlia di Wonder, Aisha Morris Wonder, Isn’t She Lovely è un capolavoro del soul di tutti i tempi e sotto tutte le latitudini, sostenuto da un basso sintetico ricalcato da Wonder stesso sulla linea di basso scritta originariamente da Watts. Joy Inside My Tears è un’altra ballad potentissima, un affresco pop con un ritornello che non si dimentica, e lascia spazio al funk impegnato di Black Man, incentrata sulla questione razziale. E se con Ngiculela- Es un Historia- I Am Singing Wonder sembra soprattutto non voler dimenticare il suo vasto pubblico latinoamericano, If It’s Magic vede l’artista duettare con l’arpa della jazzista Dorothy Ashby prima di tornare al soul Motown-oriented di As, che, come accennato, vede la presenza del grande Herbie Hancock a disegnare traiettorie inusitate sul suo Fender Rhodes, un brano con un ritornello che avete tutti quanti già nelle orecchie, anche se forse non ve ne siete mai accorti (provate a riascoltarlo). La chiusura del secondo LP è affidata ad Another Star, ibrido soul-disco in evidente e sconvolgente anticipo sui tempi, altra canzone che non ha proprio bisogno di presentazioni. Certo, senza contare che poi ci sarebbero le altre quattro tracce dell’EP A Something’s Extra: le trovate tutte e 21 nel player di Spotify che vi lascio qui sotto, perché non voglio farvela troppo lunga (proprio non serve) e penso che questo anniversario sia soprattutto un’ottima occasione per riascoltare tutto questo disco e farci un’idea di cosa davvero sia un capolavoro senza tempo, di sicuro uno dei più grandi album di sempre.

“Come seta il silenzio ti veste”: Laughing Stock (Talk Talk, 1991)

Settembre ha segnato anche il trentennale di alcuni dischi veramente notevoli (Blood Sugar Sex Magik dei RHCP, tanto per dirne uno), tra i quali per me spicca Laughing Stock, ultimo capitolo dell’avventura musicale dei Talk Talk di Mark Hollis. Pubblicato originariamente il 16 settembre del 1991, Laughing Stock seguiva di tre anni il meraviglioso (e seminale quanto incompreso, ai tempi) Spirit Of Eden (1988), che tra le altre cose costò alla band anni di contenziosi legali con la EMI, insoddisfatta dell’album perché poco commercialmente attraente, e che ingaggiò con Hollis e soci una lunga battaglia fatta di pubblicazioni di raccolte non autorizzate e altre amenità tardo-capitalistiche. Ai tempi delle registrazioni di Laughing Stock, inoltre, i Talk Talk erano già diventati un duo, con Hollis e il batterista Lee Harris unici due superstiti dopo l’uscita dal gruppo del bassista Paul Webb (avvenuta a inizio del 1990): fortunatamente la band venne messa sotto contratto dalla Verve, un’etichetta derivata della Polydor, principalmente dedita alla produzione e distribuzione di musica jazz. Questo permise a Hollis, Harris e a Tim Friese-Green (ormai sempre più membro aggiunto e permanente della band, oltre che produttore) di entrare in studio (i soliti Wessex Sound Studious di Londra, dove aveva visto la luce anche Spirit of Eden) tra il settembre del 1990 e l’aprile del 1991 per registrare il materiale che sarebbe in seguito confluito in Laughing Stock: come per il suo predecessore, anche questo album sarebbe stato registrato con il supporto di un ensemble molto ampio di musicisti, e, per dirla con le parole di uno degli ingegneri del suono che lavorarono al disco, “[it was] recorded by chance, accident, and hours of trying every possible overdub idea”. Questo procedimento, volto a dare grandissimo spazio all’improvvisazione dei musicisti e ad un profondo cut’n’paste in fase di post-produzione per “riassemblare” le varie parti in maniera armonica, aveva già permesso alla band di ottenere i risultati abbacinanti racchiusi nelle sei tracce di Spirit of Eden, momenti musicali che sarebbe riduttivo definire semplicemente “canzoni”: Spirit of Eden viene spesso considerato come il primissimo esempio di album post-rock, in anticipo di almeno una decina di anni sui primi capisaldi del genere, un lavoro fatto di atmosfere dilatate, divagazioni, pulsazioni minimali e ispirazione profondamente spirituale. Un lunghissimo discorso sul silenzio, a ben vedere: “amo il suono, ma preferisco il silenzio” era il mantra ripetuto da Hollis, in un percorso di ricerca che aveva trovato nel minimalismo una risposta profondissima al fragore sempre più nonsense dell’industria musicale. A volte, quando penso a Hollis, mi viene in mente un asceta, uno che era riuscito davvero a emanciparsi dall’incubo delle passioni, arrivando ad attingere a qualcosa di Altro, di affascinante e duraturo: se per il pensiero, e forse anche per la musica, il punto d’arrivo è il silenzio, Laughing Stock rappresenta di fatto l’ultimo mattoncino che connette Spirit of Eden (e alcuni momenti seminali del precedente The Colour Of Spring) allo splendido, minimalista ed omonimo Mark Hollis, unica testimonianza di Hollis solista, e ultimo album mai registrato dal musicista inglese, che avrebbe visto la luce pochi anni più tardi (correva il 1998). Poi, più niente: il silenzio, appunto.
Per quanto
Spirit of Eden e Laughing Stock si somiglino, se non altro nell’artwork (opera come sempre, fin dai tempi di It’s My Life, del fidato James March, un disegno raffigurante un albero carico di uccelli multicolore, come quelli che si potevano trovare nel giardino dell’Eden: non un caso, ovviamente) e nel substrato culturale che li innerva, non bisogna però fare l’errore di credere che si tratti di due album fotocopia: piuttosto, Laughing Stock compie dei sensibili passi avanti nella direzione del recupero di alcuni elementi ritmici, che erano stati decisamente più sacrificati nell’album precedente e, introducendo un contrabbasso per sostituire la musicalità del fretless di Paul Webb, apre la strada a una proficua contaminazione con sonorità che pescano scopertamente e principalmente dal jazz (sebbene Hollis avesse indicato tra le principali ispirazioni del lavoro non soltanto il Coltrane di In A Sentimental Mood ma anche i Can di Tago Mago, di cui parlavo giusto un paio di settimane fa, e Bob Dylan). L’opening Myrrhman, introdotta dopo mezzo minuto di silenzio da una chitarra tremolante e riverberata e gonfiata dai fiati come un fragile palloncino, assomiglia molto a una ballad jazz suonata al rallentatore, scandita dai rintocchi profondi del contrabbasso (due i contrabbassisti scritturati per le parti di Laughing Stock, Simon Edwards e Ernest Mothle), ed ha il sapore sulfureo di un’alba remota, piena di clangori e rumori sghembi, su cui si innesta un finale disteso, un’inattesa apertura di fiati e archi che germoglia delicatamente quasi fosse una promessa di felicità per farsi infine drone, suono prolungato su cui il piano lascia cadere poche note sparse. Ascension Day, come promesso, torna a portare la ritmica in primo piano, con la batteria jazzy di Harris ad accompagnare un ostinato del contrabbasso, e poi un’esplosione chitarristica come preludio all’ingresso della voce di Hollis: c’è perfino un’apertura che somiglia a un ritornello, anche se sarebbe più corretto dire che la composizione di Ascension Day rimanda a un sonetto con schema di rima incatenata, con sezioni A e B che si rincorrono senza sosta lungo i primi tre minuti del brano, per lasciare spazio a un interludio di improvvisazione selvaggia e dissonante (dio benedica sempre chi porta la dissonanza nella musica) che riconduce infine ancora alle concatenazioni A-B che fanno da sfondo al cantato di Hollis. È su un altro furibondo crescendo che Ascension Day si spegne di colpo dentro il piano lieve di After the flood, preludio al crescendo di una sinfonia per organo, pulsazioni decise del contrabbasso e batteria in bella evidenza, graziata da una linea melodica tanto impalpabile quanto affascinante: la costruzione e l’esposizione di quello che potremmo definire il tema del brano è talmente spiazzante e coinvolgente che, prima che l’ascoltatore se ne accorga, sono già trascorsi due minuti del brano. L’ingresso della voce di Hollis marca l’autentico scarto per il pezzo, questo sì dotato di un ritornello, sebbene allo stesso tempo autentico e impalpabile (come già detto): feedback chitarristici spezzano il flusso sonoro a circa metà, rincorrendosi sulla ripetizione minimale e inesausta della cellula armonica e ritmica sulla quale l’intero brano è edificato, preludio a un solo acido dell’organo Hammond. A questa fase improvvisata centrale fa seguito un ritorno alla melodia della voce: la cosa davvero pazzesca è che un brano di oltre nove minuti possa essere allo stesso tempo un formidabile esempio di sperimentazione sonora, una suite prog-rock che flirta col jazz e pure un luminoso esempio di pop di livello stellare, e qui con pop si intende “musica melodica”, perché è chiaro che After the flood è a tutti gli effetti una canzone, anche se in forma “espansa”, un’esperienza che non si esaurisce nelle forme e geometrie consuete ma, piuttosto, flirta con una musica che potremmo definire non-euclidea, fatta di rette parallele che si incontrano in un luogo magico, dal quale sgorgano proprio questi suoni, allo stesso tempo alieni e maledettamente umani. After the flood sfocia nella chitarra blueseggiante di Taphead, ma è un blues ovviamente decostruito, del quale non restano che pochi, laconici fraseggi chitarristici e la voce gonfia di pathos di Hollis: ben presto il brano evolve in una specie di piccola sinfonia per fiati desolati e armonica dolorante, sotto la quale si gonfia il maelstrom di archi e synth, segnato dai lampi della chitarra distorta di Hollis. Più di tanti altri brani in questo lavoro, Taphead flirta con tentazioni classiche: la chitarra pesantemente distorta di Hollis, che accompagna il finale del brano, stabilisce un clima da esplosione imminente, l’apparente promessa di un diluvio dopo il diluvio che, ironicamente (ma non troppo), segue proprio After the flood. L’attesa della tempesta non trova però soluzione catartica, e la voce di Hollis accompagna delicatamente la tensione che cresce e cresce per tornare infine ad adagiarsi sulle note di una semplice chitarra. Cala un profondissimo silenzio prima dell’ingresso sulla scena della batteria jazzy che introduce la splendida New Grass, con il suo meraviglioso ostinato di chitarra: la voce di Hollis canta ancora di temi biblici, e il testo racconta di un paradiso che sta per arrivare, mostrando finalmente una nota di speranza. New Grass è l’autentico fulcro emotivo dell’intero Laughing Stock e, per me, tra le tante canzoni splendide scritte dai Talk Talk, quella che preferisco: il minimalismo che caratterizza la struttura portante del brano, fatta di un ostinato di chitarra adagiato mollemente su un up-tempo della batteria di Harris, si apre in più punti, come un fiore che sboccia in delicate divagazioni; quattro accordi di piano sottolineano la seconda strofa di Hollis, che canta Lifted up/ Reflected in returning love you sing/ Heaven waits, Heaven waits/ Someday Christendom may come/ Westward evening/ Sun recedent/ Set my resting vow/ Hold in open heart/ Open heart; e quegli stessi accordi aprono al finale, sul quale gli archi allentano la tensione con una figurazione che, superando il minimalismo del brano, piuttosto che ripetersi si propaga, costruendo il proprio incedere su piccole impercettibili variazioni, come increspature sull’onda lunga del brano. New Grass si spegne così come un’onda che bagna la sabbia, con un lento fade out. Runeii (un gioco di parole che forse richiama il brano Renee, tratto da It’s My Life, il grande successo commericale della band, pubblicato nel 1984) chiude il cerchio: un brano per chitarra sola, sul quale la voce di Hollis salmodia gli ultimi versi della carriera dei Talk Talk, Slow to bleed, fair son, un po’ una Myrrhman spogliata di tutto il suo costrutto slow-jazz, una specie di grezzo rock da camera per inquietudini sussurrate e notturne.
Difficile dire che strada avrebbero potuto prendere i
Talk Talk se, dopo la pubblicazione di Laughing Stock, la band non si fosse sciolta: di sicuro, la perfezione formale e sostanziale raggiunta dalla band di Hollis, Harris e Friese-Greene con queste sei tracce sarebbe stata ben difficile da superare. La profondità oceanica e la rarefazione sonora che già avevano caratterizzato Spirit of Eden sono qui condotte fino alle estreme conseguenze: c’è il prolungato, quasi insostenibile silenzio che introduce al suono umbratile e crepuscolare di Myrrhman; il jazz psichedelico irrorato di chitarre acide del 7/4 di Ascension Day; la delicatezza della forma canzone esplosa di After the flood, coi suoi ritornelli impalpabili eppure così affascinanti; il limbo sinistro e dai toni vagamente rumoristi di Taphead; il fragile origami di New Grass, un 3/8 di raid e rullanti appena sfiorati e note di chitarra sparpagliate che racchiude nei suoi quasi dieci minuti tutto il desiderio di lasciarsi andare e lo stupore che nasce dall’impossibilità di arrendersi veramente; e, infine, il tramonto definitivo di Runeii, una traccia onirica che accompagna di nuovo al sonno, stavolta delicatamente, come una rosa si chiude su se stessa al calar della notte. Cade la notte, e forse hanno un senso i versi che Rainer Maria Rilke volle porre come epitaffio sulla propria tomba: Rosa, contraddizione pura, piacere d’essere/ il sonno di nessuno sotto tante/ palpebre. La musica dei Talk Talk si spegne infine in quel silenzio al quale, fin dai tempi di The Colour of Spring (ne parlavamo qui), sembrava aver aspirato: anzi, vi fa di fatto ritorno, perché le sei tracce di Laughing Stock, questi quasi cinquanta minuti di musica di un altro mondo, sono proprio brandelli di suono e di grazia strappati al silenzio e regalati alle nostre orecchie quasi per una magia. L’esperienza dell’ascolto di Laughing Stock è, ancora oggi, un’esperienza di autentica pienezza: pienezza spirituale, una profondità emotiva che fa da lucido contraltare alla rarefazione sonora e alla decomposizione minimale di strutture, cellule ritmiche, resti di melodie. Sparire completamente dietro (e sotto, dentro, sopra) la propria musica: mai nessuno l’ha fatto con la profondità, la delicatezza e l’incisività con cui ha saputo farlo Mark Hollis. Mi guardo attorno, e penso che a questi nostri giorni manchino davvero persone (prima ancora che artisti: persone) come lui.

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