Soar the bridges that I burnt before: i 35 anni di The Colour of Spring (Talk Talk)

Here she comes
Silent in her sound
Here she comes
Fresh upon the ground
Come gentle spring
Come at winter’s end
Gone is the pallor from a promise that’s nature’s gift

Waiting for the colour of spring
Let me breathe
Let me breathe
The colour of spring

La cosa più difficile, per me, è parlare di qualcosa che mi piace. Non fraintendetemi, non mi è difficile dire cosa mi piaccia e perché: ciò che è complesso è riuscire davvero a trasmettere la portata delle emozioni che qualcosa provoca e risveglia, rendendogli al tempo stesso la giustizia che merita, al di là del bias portato dalle personali inclinazioni di chi scrive. Come ho già avuto modo di raccontare, ho incrociato Mark Hollis e i Talk Talk piuttosto tardi nel mio percorso: è accaduto solo pochi mesi prima che Hollis morisse, mentre stavo affrontando un lungo (e piuttosto noioso) viaggio in treno, accompagnato dall’ascolto oserei dire religioso di Spirit of Eden. Non capii immediatamente quel disco: non che non conoscessi i Talk Talk, per quanto superficialmente, ma quell’album proprio non lo avevo mai ascoltato e mi lasciò sospeso per un po’, incuriosendomi al punto da determinare di fatto il numero (molto alto) e la continuità (importante) degli ascolti che avrei dedicato alla band nei mesi (e negli anni) a seguire. Nella traiettoria di un gruppo che nasce nel gran marasma del synth pop anni ’80 ed emerge con un paio di singoli di potenza cristallina che ancora a distanza di quasi quarant’anni suonano come fossero stati composti ieri (parlo di It’s My Life e di Such a Shame, che pure, a ben ascoltare, contenevano già tutta quella profonda, notturna e minimalista inquietudine che avrebbe innervato i lavori della cosiddetta “maturità” della band), una meteora luminosa e affascinante come Spirit of Eden (e il successivo, non meno seminale, Laughing Stock, del 1991, quando ormai i giochi erano fatti per la band, che aveva già perso tutto, contratto, pubblico e status commerciale, a seguito del capitolo precedente) giunse un po’ come il classico fulmine a ciel sereno: non che questa svolta potesse dirsi così inattesa, a dire il vero, in fondo Hollis era da sempre un frontman atipico e un musicista inquieto, poco prono a piegarsi a logiche extra-artistiche, assai meno a quelle del pop da classifica e del mercato discografico in generale, eppure c’è un prima e un dopo nella carriera dei Talk Talk, e questo è innegabile. C’è un prima, un dopo e uno spartiacque irripetibile che è anche un album non meno eccezionale dei precedenti e dei successivi: si intitola The Colour of Spring, è forse l’album dei Talk Talk che ho ascoltato di più e di questo album ho deciso di parlarvi per festeggiarne i primi 35 anni (venne pubblicato infatti il 17 febbraio del 1986), e tanto per cominciare vi dirò che non è un caso che sia la primavera a dargli il titolo. L’immagine della primavera e dei suoi molteplici colori è quella di un risveglio, e nessuna immagine meglio di questa, un’immagine di vitalità, può rendere l’idea della profondità della mutazione alla quale i Talk Talk (e la loro musica) stavano andando incontro, ancora oggi una delle trasformazioni forse più clamorose e affascinanti dell’intero mondo della musica pop-rock, una transizione onirica, delicata e singolare verso i primi vagiti di qualcosa che di lì a qualche anno (una decina, ad esser generosi) verrà ribattezzato post-rock. La prima cosa che mi ha fatto adorare l’animo inquieto e bellissimo di Hollis è che trovo meravigliosamente incoerente e sorprendente che a giungere per primo alla “rivelazione” di questa musica sospesa, aperta, libera dal punto di vista compositivo e strutturale (come sarà appunto il post-rock e tutto il post- qualsiasi cosa a venire) sia stato non uno di quegli artificiosi gruppetti di intellettualoidi che fanno musica incomprensibile, ma una band proveniente da una grammatica precisa, definita, in qualche modo consueta e che capita di considerare anche pericolosamente limitante, ovvero il mondo della pop-music. Il cammino che condurrà Hollis e soci a Spirit of Eden e Laughing Stock, e Hollis stesso a chiudere la propria carriera nel silenzio rarefatto del suo album solista, allo stesso tempo emotivamente forte al punto da essere quasi insostenibile (un album che si intitola semplicemente Mark Hollis, perché è l’uomo per intero che ci si offre in quelle otto tracce, per come egli è, pubblicato nel 1998 e che costituisce l’ultima registrazione del suo autore, aperto da uno splendido brano che, guarda caso, si intitola proprio The Colour of Spring), comincia tutto in questo disco: un camaleonte che muta forma e colore, una rinascita della natura (come quella raffigurata nella meravigliosa copertina dal fido James Marsh), un bruco che emerge dalla propria crisalide per diventare una splendida farfalla.
Per poter dare alla rinascita il respiro che gli spetta, e alle intenzioni la dimensione che gli si confà, Hollis e soci fanno ricorso agli interventi di numerosi strumentisti (da
Steve Winwood a David Rhodes, dagli Ambrosian Singers al coro di bambini della scuola di Miss Speake) e, coadiuvati dal fidatissimo e fondamentale Tim Friese-Greene, iniziano a comporre secondo una nuova grammatica nella quale la forma canzone si dilata, gli spazi cambiano dimensionalità, i silenzi e le attese diventano parte essenziale del flusso sonoro: fanno la loro comparsa strumenti elettronici vari, sintetizzatori, ma anche armoniche a bocca, fiati e contrabbassi, strumenti che si incontrano più comunemente nel jazz che nel rock, e più in generale cambia la tensione, l’intenzione e di conseguenza l’atmosfera di questi pezzi, che diventa onirica, sognante, una rarefazione di melodie romanticamente soavi, cantate da una voce che pian piano si fa a sua volta strumento, veicolo diretto e immediato di una gamma enorme di emozioni che vanno dalla gioia al dolore fino alla bellezza che atterrisce. The Colour of Spring tratteggia quella che altrove viene definita un’utopica comfort zone in cui sognare a “orecchie aperte”, un piccolo multiverso che si schiude, una promessa di felicità.
Happiness is Easy, che apre il lavoro, ne detta le coordinate ed è già di fatto l’anti pop-song, almeno da un punto di vista strutturale: il brano si erge su una batteria groovy, costante e continua, mentre chitarre, piano e bassi (l’elettrico di Alan Gorrie e il contrabbasso di Danny Thompson) si alternano in maniera apparentemente casuale a riempire gli spazi disegnati dalle bacchette di Lee Harris, il tutto a far da sfondo alle linee melodiche vocali di Mark Hollis e con un magnifico ritornello che, anziché alzare il tono in maniera trionfale, viene cantato come da una lunga distanza dal coro dei bambini della scuola di Miss Speake; in altre parole, come ti ammazzo il topos del ritornello-killer, uno dei mantra inattaccabili del pop radiofonico di ogni tempo. I Don’t Believe in You è una ballad forse più classica, cui risponderà (almeno nel titolo) quella I Believe in You che un paio di anni più tardi accompagnerà l’uscita di Spirit of Eden come primo (e unico) singolo, ovviamente falcidiato senza pietà dai radio edit imposti dalla EMI: ma anche qui l’incedere relativamente piano del brano non deve ingannare, perché I Don’t Believe in You viene letteralmente squassata verso il finale da un solo di chitarra riverberata e carica di effetti, qualcosa cui il pubblico del caro, vecchio synth pop anni ’80 non poteva proprio dirsi abituato (non con questa sfacciataggine, quantomeno). È ancora l’aspetto ritmico a farla da padrone sulla meravigliosa Life’s What You Make It, primo singolo estratto dall’album: una batteria che spacca le orecchie, il piano percosso con tutta la violenza del mondo da Hollis (prima di un breve e minimalissimo solo) e chitarre che ruggiscono a sottolineare i ritornelli; di sottofondo, un po’ di tappeti sintetici d’atmosfera, a confezionare una pop song dai toni cupi e ossessivi, martellanti, che definire banalmente atipica pare un autentico eufemismo, la testimonianza più chiara (se ancora ce ne fosse stato bisogno) di quanto ormai Hollis fosse andato già oltre la forma-canzone comunemente intesa, e la dimostrazione plastica di quanto poco potesse attrarlo continuare a gravitare nei suoi comodi dintorni. April 5th costituisce in questo senso un manifesto programmatico: un bozzolo di pochi suoni avvolgenti, una specie di mini-suite eterea che potrebbe esser stata presa di peso da uno dei due seminali album a seguire, non fosse che è ancora in qualche maniera troppo netta la successione dei vari momenti, il passaggio da una sezione all’altra; e pur tuttavia April 5th comincia a spingere apertamente il sound dei Talk Talk verso orizzonti che con il synth pop non hanno nulla a che vedere, fatti di echi e riverberi, spazi dilatati, singulti sintetici, transizioni che si fanno via via più sfumate e crescendo che sono emotivi (e sentimentali) prima ancora che autenticamente strumentali. È di stordente bellezza il passaggio attorno ai 2:20, sottolineato dai variophon suonati da Tim Friese-Green e dallo stesso Hollis, e sono disarmanti e affascinanti i saliscendi emotivi che portano a creare quella tensione quasi insostenibile, sottolineata e sospinta dai bassi profondissimi di Paul Webb. Living in Another World (secondo singolo estratto) riprende il filo di un pop sinuoso e ricercato, sostenuto dalla consueta ritmica impeccabile di Harris, dai bassi irresistibili di Webb, dall’organo di Steve Winwood e dalla sorprendente armonica a bocca suonata da Mark Feltham (che si produce anche in un insolito assolo, insolito almeno per quel che riguarda la musica nominalmente pop-radiofonica). Indimenticabile anche il groove di Give It Up, dove si ascoltano il mellotron suonato da Hollis, l’organo di Tim Friese-Green e, associato alla batteria devastante di Harris, ancora il basso deciso di Webb (ma quanto è bravo Paul Webb, ne vogliamo parlare?), capace di svoltare il brano: le chitarre di David Rhodes fanno il resto, letteralmente scartavetrando il bridge che precede l’ultimo ritornello. Give It Up si spegne docilmente, quasi si abbandona in Chameleon Day, che è forse il miglior antipasto del futuro a venire: gli interventi elettronici minimalisti di Friese-Greene accompagnano il piano ora delicato ora impetuoso suonato da Hollis, e l’intero brano assomiglia a un’esplosione trattenuta, lo scheletro vibrante di una ballad sospesa, senza tempo. La voce di Hollis a tratti esplode in un grido, vorticando impetuosa sui tasti percossi con violenza, e a tratti sobbolle sullo sfondo, emergendo come da una cortina fumogena, una nebbia densa di suoni elettronici scomposti e ricomposti: siamo di fronte a poco più di tre minuti di un capolavoro, che contiene in nuce tutta un’idea di futuro. La grazia ottimistica che innerva la conclusiva Time It’s Time si palesa negli interventi degli Ambrosian Singers, uno dei cori vocali più noti di Londra, che prendono una pop song con tutti i suoi momenti ben codificati e la trasformano in un curioso accumulatore di energica tensione: mentre la voce di Hollis si gonfia di riverberi, come a voler rivaleggiare con le armonizzazioni del coro, il basso di Webb disegna curve voluttuose sulle quali il brano si arrampica e si dondola delicatamente, la melodica traccia estemporanee melodie e il lavoro di produzione di Friese-Greene crea un caleidoscopio sonoro screziato e composito, prezioso e ricco di dettagli come un’incisione sul cristallo. Il finale, quasi trionfale, scivola via e assomiglia a un’alba, il risveglio di qualcosa, un inizio: tanto per citare nuovamente Handke, come mi capita sempre più spesso di fare, si sperimenta anche qui quella curiosa sensazione di gioia che sappiamo essere tanto adatta agli inizi, al cominciare. In fondo, Mark Hollis, Tim Friese-Greene, Lee Harris e Paul Webb con questo The Colour of Spring stavano cominciando qualcosa: qualcosa di nuovo, di autentico, di mai ascoltato prima, qualcosa che sul momento in tanti non avrebbero capito ma che, retrospettivamente, sappiamo avrebbe cambiato tanto, tantissimo. C’è tanto di sorprendente nei 45 minuti di questo lavoro, una fioritura inesausta di idee e atmosfere che fanno di The Colour of Spring un lussuoso florilegio di piccole meraviglie, inanellate con grazia nella sua brevissima tracklist (solo otto brani, poca roba rispetto ai classici album pop, anche se c’è da riconoscere che, da questo punto di vista, i Talk Talk non sono mai stati inclini agli eccessi di magniloquenza): questo è un album che parla di cambiamento, di una vita che sta tutta nel presente, per quanto il futuro resti quella porzione di orizzonte nella quale trascorreremo la maggior parte del nostro tempo, una manciata di canzoni innervate d’introspezione, che parlano ad animi introversi, che non accettano e non scendono a compromessi (esattamente come accadrà con tutti i lavori successivi). Otto tracce che insegnano ad aprirsi, a mutare, a entrare in una dimensione nuova e immortalano con dolcezza il momento esatto in cui la crisalide si rompe in quella splendida farfalla che vivrà forse molto poco, ma cambierà il mondo e lo farà, semplicemente (anche se non è mai semplice), con la bellezza dei propri colori.

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