The Dark Knight Rises (C. Nolan, 2012): riflessioni in ordine sparso su potere, paura, simbolo

The Dark Knight Rises, il ritorno del Cavaliere Oscuro targato Christopher Nolan per il capitolo che conclude la serie di film avviata nel 2005 con Batman Begins e proseguita nel 2008 con il ben noto The Dark Knight: quattro anni di attesa per conoscere la conclusione di questa storia, e del cammino di maturazione che ne coinvolge il protagonista, dai suoi albori (immortalati per la prima volta al cinema proprio nel primo capitolo della trilogia) allo scontro epocale con il suo più noto (e amato) nemico, quel Joker che quattro anni fa fu portato sullo schermo da Heath Ledger in una delle sue ultime interpretazioni (come avevamo pronosticato al termine di quella recensione, peraltro, pochi mesi dopo l’Academy gli avrebbe conferito un ovvio e meritato premio Oscar) fino al momento dei saluti, l’ultimo capitolo. Come concludere la vicenda di questo Batman cinematografico del terzo millennio? Le riflessioni sul potere e il suo esercizio, sulla paura e il caos avviate da Nolan nei precedenti capitoli trovano definitivo scioglimento in quest’ultimo passaggio, che circolarmente torna a legarsi a Batman Begins per rielaborarne le tematiche alla luce del tempo trascorso e tirare le somme di tutta la storia. Sono trascorsi otto anni da quando Batman (sempre Christian Bale) è sparito nella notte prendendosi la responsabilità dell’assassinio di Harvey Dent, d’accordo con il commissario Gordon (Gary Oldman) per evitare che la città perdesse il suo eroe positivo, il procuratore senza macchia e senza paura, determinato a sconfiggere la criminalità organizzata ma reso folle dal dolore per la perdita dell’amata Rachel Dawes e manovrato astutamente da Joker stesso perché si rovinasse con le proprie mani lasciando la cittadinanza intera senza più un solo barlume di quella speranza che il suo operato e il suo pensiero come difensore della giustizia avevano acceso; Dent è soltanto un uomo, e come ogni uomo debole, fragile, incapace di resistere a tanta pressione. Per evitare le pesanti ricadute che avrebbe avuto sull’ordine pubblico la notizia della follia di Dent, disperdendone la preziosa eredità ideale, Batman e Gordon si accordano per inscenarne l’omicidio per mano del Cavaliere Oscuro, che si sarebbe poi dato alla macchia: se un tale carico di odio e dolore non è tollerabile per chi è solo un uomo, per quanto un grande uomo, può esserlo per chi è più di questo, un simbolo, una maschera. Otto anni sono trascorsi e la città è stata ripulita grazie all’applicazione del cosiddetto Dent Act, un insieme di norme volte a punire severamente la criminalità organizzata; otto anni sono trascorsi e Bruce Wayne è ormai l’ombra di se stesso, le cartilagini delle ginocchia polverizzate, tessuto cicatriziale sparso un po’ ovunque, vecchio e appoggiato ad un bastone. Tuttavia, come suggerisce lo spettacolare prologo aereo del film e come sussurra al suo orecchio Selina Kyle/ Catwoman (Anne Hathaway), “una tempesta sta per abbattersi su Gotham”: un mercenario noto come Bane (Tom Hardy), già membro della Setta delle Ombre di Ra’s al Ghul, si sta dirigendo a Gotham a capo di un singolare esercito, e la stessa Selina Kyle sembra coinvolta in una spirale di violenza che comincia con il furto di un vecchio collier a casa Wayne (pretesto o meglio inattesa ma gradevole conseguenza di un furto d’impronte) e finisce con un attacco alla borsa valori di Gotham volto a polverizzare le fortune del nostro notturno tycoon e a spingere l’intera città sull’orlo del baratro. Non è singolare che Nolan scelga di mostrare una guerra che, almeno inizialmente, viene combattuta con le armi della Finanza: Bane giunge a Gotham per realizzarne il destino di distruzione che era stato inizialmente previsto per la città dalla Setta delle Ombre guidata da Ra’s al Ghul, distruzione che, per essere totale e deflagrante, dovrà giungere inquinandone la disperazione con una falsa speranza. L’arma che distruggerà Gotham, una bomba a neutroni rubata da Bane e dal suo esercito, deriva dal progetto di un reattore per la produzione di energia nucleare pulita e sicura avviato dalle industrie Wayne e il cui sviluppo è stato arrestato per il timore di un suo uso “incongruo”, che ha portato sull’orlo del fallimento economico l’intera compagnia e l’azionista che più di tutti ha creduto nel progetto, Miranda Tate (la sempre splendida Marion Cotillard): dalla speranza di un futuro verde, di green- economy, alla disperazione della distruzione totale, la promessa di un’infinita primavera energetica che nasconde l’abisso dell’inverno nucleare; ma anche, il Sacro Graal della società capitalistica che promette il meglio per tutti a prezzo di indicibile (e quindi opportunamente non detta) devastazione. La tempesta giunge sul serio, e sembra travolgere proprio chi dalla vita ha avuto tutto: speculatori, banchieri, broker, capitani d’industria. Bane si pone come un capopopolo che restituisce la città (metafora della società intera) ai propri cittadini, all’uomo, opponendosi alle regole e al sistema di norme che l’ha condotta fin dove si trova adesso, e cioè sul baratro dell’ingiustizia sociale, della crisi economica mondiale (significative in tal senso le battute scambiate dall’agente di polizia e dall’agente di borsa nella sequenza dell’attacco alla borsa valori, e significativo il valore simbolico dell’istituzione del nuovo tribunale popolare a seguito della conquista del potere da parte di Bane e del suo esercito), incarnando l’idea stessa della Tempesta, la rivoluzione che travolge la società come la conosciamo non per il solo gusto di incendiare il mondo, come accadeva con la nichilista anarchia predicata dal Joker di Heath Ledger in The Dark Knight, ma istituendo l’illusione che possa esistere giustizia al di fuori del diritto, al di fuori delle relazioni tra le persone, al di fuori di un più ampio concetto di umanità: perfino chi dalla vita non ha avuto niente, come Selina Kyle, e non prova certo simpatia per chi invece ha avuto ed abusato di tutto, riesce a sentire in qualche modo come le esecuzioni sommarie non possano riempire quel senso di vuoto (o meglio quel vuoto di senso). Bane è una pedina nelle mani di un gioco più grande (non soltanto metaforicamente, ma non vorrei svelare troppo della trama), che lo trascende, la stessa idea mistica paventata da Ra’s al Ghul nel primo capitolo: la Setta delle Ombre, guerriglieri che giungono per accompagnare le società decadenti (e decadute) verso la loro dolce morte, non rivoluzionari, ma corrieri dell’Ordine, pronti a ristabilire quello che non esitano a definire Equilibrio, Pace, Armonia. Ovviamente Batman non può tirarsi indietro, e anche se non è più lo stesso di otto anni prima, anche se le sue cartilagini assottigliate lo costringono ad usare un tutore, anche se Bane arriverà vicino a spezzarlo fisicamente in più di un’occasione (senza però riuscire mai a spezzarlo spiritualmente), anche se l’intera città, all’oscuro della verità su Harvey Dent, gli darà la caccia come fosse il peggiore dei criminali, nonostante questo ed altro il Cavaliere Oscuro torna in attività perché sente di non aver ancora dato tutto a queste persone, i suoi concittadini, anche se questa scelta gli costerà il rapporto con il maggiordomo Alfred (Michael Caine) e lo porterà al limite del proprio annullamento fisico. Il percorso di Batman si chiude con una riedizione di ciò che avevamo visto in Batman Begins, la risalita dalle tenebre metaforicamente rappresentata dalla risalita da un pozzo: nel primo capitolo era il pozzo nel quale un giovane Bruce Wayne cadde giocando nel cortile di Wayne Manor, e dal quale lo estrasse calandosi giù con una corda il padre (il primo esempio positivo dell’impegno per migliorare il mondo agli occhi del giovane Wayne), momento cardine di ascensione e presa di consapevolezza presentato nella genesi del personaggio; adesso è la terribile prigione sotterranea, che ha ospitato lo stesso Bane, scavata in una non meglio specificata area dell’Asia dalla quale solo un’innocente riuscì a fuggire, tanti anni prima, e che per Bruce Wayne rappresenta l’ultimo muro da scalare per tornare, paradossalmente, ad avere paura, e quindi  a ritrovare umanità e coscienza di sé e del proprio limite, coscienza perduta in anni passati a perfezionarsi di modo da non temere la morte ma l’inedia, l’abbandono, l’ignavia. Fondamentale in questo percorso sarà l’incontro con un giovane poliziotto, promosso a detective nel corso della storia, John Blake (Joseph Gordon- Levitt), tanto sensibile e intelligente da conoscere la vera identità del Cavaliere Oscuro e che con egli condivide un passato da orfano e una profonda fame di ideali e Giustizia, che dovrà ben presto scontrarsi con la realtà di una pace che a Gotham, per otto lunghi anni, è stata costruita su una bugia, per quanto proferita a fin di bene. E qui Nolan torna alla maschera, che è il primo concetto che abbiamo conosciuto in questa trilogia e che è di nuovo fondamentale: “Perché indossare una maschera?”, chiede più volte Blake a Batman/Wayne, perché non affrontare il crimine a viso aperto? Wayne risponde che la maschera non serve a proteggere chi la indossa, ma “coloro che ami”: la maschera ha condannato Batman/ Wayne a otto anni di esilio e solitudine ma ha protetto Gotham da una verità terribile che l’avrebbe condotta all’autodistruzione, la verità su Harvey Dent. E’ difficile da accettare, forse, ma la Verità (posto che ne esista una) è sempre terribile, violenta, e abbacina con la sua forza: emerge da questa suggestione tutto il pessimismo della visione di Nolan, tutt’altro che consolante, e per la quale sembra quasi non esistere Speranza se non intesa come “illusione” ultima che nasconde volontariamente la più cieca disperazione. La bomba a neutroni è destinata ad esplodere anche se non sarà Bane in prima persona a schiacciare il tasto dell’innesco, ma questo la cittadinanza non può saperlo: una falsa speranza di vita, concessa a patto di ricevere obbedienza, a patto che nessuno tenti la fuga da una Gotham militarizzata dall’esercito dei mercenari/ terroristi, al costo dell’isolamento totale dal resto dell’umanità, della rinuncia e della negazione del proprio stesso essere umani. La deflagrazione è inevitabile, e solo l’estremo sacrificio della maschera di Batman, quando ormai tutta la verità è venuta a galla, potrà renderla inoffensiva e portare la bomba, fuor di metafora, a esplodere a distanza di sicurezza, lontana dalla città: la potenza di un simbolo, cioè a dire, etimologicamente, di ciò che unisce (in questo caso, che unisce in una visione positiva). Il film si accompagna alla tragedia, come il precedente, per tutte le sue quasi tre ore di proiezione e chissà, forse tutti gli intenti di riflessione politica che si possono attribuire a quest’opera non saranno nemmeno passati per la mente del suo autore, che si è sempre detto poco interessato a queste chiavi di lettura e molto più interessato alla Storia; pur tuttavia, The Dark Knight Rises è un racconto di rinascita che chiude idealmente un ciclo di riflessione sul rapporto tra potere, paura e simbolo e lo fa nell’unica maniera possibile, attraverso una sceneggiatura serrata, che tiene egregiamente il ritmo e regala non poche sorprese (ad una delle quali, in questa recensione, si accenna attraverso un minimalissimo apostrofo, ma in fondo lo sappiamo già da un po’, la teatralità e l’inganno sono armi essenziali) pur con qualche piccolo passaggio a vuoto (niente che non stia all’interno del patto narrativo, per carità), una grande spettacolarità e l’apprezzabile coerenza che ha spinto Nolan, nella ricerca di un universo plausibile e realistico nel quale calare la sua storia, ad evitare lo scivolone sul 3D al quale ultimamente numerosi blockbuster non hanno saputo sottrarsi. Perché The Dark Knight Rises chiude una saga che ha avuto il pregio di strappare il personaggio all’estetica fumettistica per calarlo nel reale di una metropoli che è La Metropoli, il Mondo, specchio della nostra società tutta, con la sua enorme ricchezza (non solo economica, ovviamente) e le sue insanabili contraddizioni, avviando alla riflessione su tematiche di strettissima attualità (si pensi solo al controllo delle telecomunicazioni che permette le cattura del Joker nel finale di The Dark Knight: cosa siete disposti a fare per la vostra sicurezza?) e su concetti di grande portata generale, presentando un male e un bene che non sono banalmente contrapposizione manichea ma sui quali si staglia più di un’ombra, più di un dubbio. Il nostro mondo è un luogo complesso, e la rappresentazione delle sue sfaccettature fornita da Nolan costituisce uno dei grandi motivi di fascino di questa seducente tragedia del potere, ritratto nel suo rapporto con la paura, il caos, l’identità, il simbolo. Ce n’è di che discutere per mesi, e state certi che succederà, nel bene e nel male. E con molte sfumature.

14 Risposte a “The Dark Knight Rises (C. Nolan, 2012): riflessioni in ordine sparso su potere, paura, simbolo”

  1. come sempre interessantissimo da leggere e denso di riflessioni. Comunque quella di Joker più ce “libertaria” mi sembrava un’anarchia parecchio nichilista e individualista

  2. Come sempre hai ragione, mi sono espresso (forse) malamente: però il senso è quello. Grazie della segnalazione, correggo il tiro…
    A presto vecchio mio,
    Demetrio

  3. Che dire? Non trovo che il film sia “fascista”, come espresso in questa recensione. Nolan mette in scena una storia complessa fatta di elementi presi a piene mani dalla realtà del nostro tempo (penso alla retorica della “difesa della sicurezza”, sottesa allo stratagemma sfruttato da Batman e Lucius Fox per catturare Joker nel secondo film della serie, e che ricordavo anche nella mia recensione; ma ci sarebbero molti altri esempi), ma il solo fatto di rappresentarli non può fare di questo film un film “fascista” o “portavoce di valori della destra americana” (a parte l’evidente confusione mentale che scaturisce da una classificazione e una visione, questa sì, manichea e dicotomica del mondo e della realtà): potrebbe semplicemente costituire un invito alla riflessione, come io credo. Mi tornano in mente le infinite polemiche che volevano “The Tree of Life” un film nazista, fondamentalista, iper-religioso, espresse anche su “quotidiani” come “Il Fatto” (le virgolette tra le quali è contenuta la parola quotidiani non sono casuali): e questo solo perché parlava di senso della vita, meraviglia, morte, famiglia, etc. Se “The Tree of Life” è un film nazista, “La sottile linea rossa”, col suo panismo e il rifiuto di ogni guerra, lo è altrettanto: ma chissà, forse qualcuno lo pensa davvero, in fondo son tutte giustificate le guerre contro i nostri nemici, e mai le altre. D’altro canto, non può che essere positivo notare come certi film riescano ancora a far discutere su tematiche importanti: sarebbe bello che chi ne discute, in rete ma non solo, fosse all’altezza dell’argomento che sceglie. Ma questa, spesso, è un’utopia bella e buona.
    Un’altra cosa che non mi sembra corretta sono i riferimenti al movimento “Occupy”. E’ vero, Nolan mette in scena un conflitto che vede al centro proprio l’economia, la grande finanza e i grandi capitali (almeno inizialmente): ma Bane non può in alcun modo rappresentare i manifestanti del movimento Occupy, e questo perché, apertamente, la posizione da lui sostenuta costituisce una menzogna, un tradimento delle stesse idee che sarebbero alla base di quel movimento. Non credo che i manifestanti di Occupy chiedano la pena di morte per ricconi, broker e esponenti dell’alta finanza: chiedono una redistribuzione della ricchezza, e sostengono che una società nuova possa fondarsi solo su un equo trattamento per tutte le persone, chiedono in definitiva un primato dell’uomo sull’economia. Non mi sembra sia questa la posizione incarnata da Bane, anzi: il suo è, come scrivevo, il colpo di coda dell’Ordine, che finge di destituire il Potere solo per sostituirlo con un establishment ancora più cupo, basato su paura e violenza, l’esatto contrario dell’obiettivo del movimento Occupy. La società deve perire ed essere purificata perché non è più in grado di mantenere l’Ordine, in questo senso essa è decadente. Mi sembra che siamo anni luce lontani. Che Nolan abbia scelto volontariamente di “stravolgere” questo aspetto per presentare i manifestanti come pericolosi terroristi? Non ne sono convinto, la visione del film non è così manichea e dicotomica come si scrive nella recensione che mi hai presentato, mentre è certamente manicheo e dicotomico definire il film fascista solo perché mette in scena aspetti controversi del mondo in cui viviamo. Secondo questa linea di pensiero, e ragionando per assurdo, “Schindler’s List” sarebbe un film nazista perché a un certo punto ci viene presentato un gerarca delle SS con un aspetto “umano”, cioè come fosse un essere umano, peccato mortale perché i “cattivi” non sono mai esseri umani, sono sempre mostri (mi riferisco alla figura di Amon Göth, portata sullo schermo da Ralph Fiennes; sono certo che in rete c’è chi discute del fatto che di Amon ce ne son stati pochi e di Eichmann molti, cosa che credo non sfugga nemmeno a Spielberg, in riferimento al fatto che Göth è presentato come un pazzo e questo porterebbe a credere che tutti i nazisti siano stati dei folli, e quindi in qualche maniera a giustificarli; ma Spielberg è troppo intelligente per cascare su una buccia di banana del genere, ed è evidente che non fosse quello l’interesse del regista a presentare la figura di Göth).
    Mi viene in mente un’altra cosa, che c’entra forse poco ma, come diceva il buon Nanni, “tutto c’entra e niente c’entra”. Per anni si è discusso se un film come “300” fosse fascista o meno, lo ricordo bene: se ne discusse tanto anche sul Forum. Certo è che Frank Miller, autore che peraltro ha rilanciato il personaggio di Batman negli anni ’80 e alle cui opere molto deve la trilogia di Nolan, proprio un compagno non è. Però mi ha fatto molto riflettere una cosa: alle persone che accusavano “300” di essere una graphic novel fascista (al di là del fatto che contiene una lunga serie di scemenze storiche e non solo, ma in fondo è solo un fumetto), Miller ha sempre risposto che non era questo aspetto ad interessarlo, ma semplicemente il fatto che società evolute come le nostre, che si vantano del proprio grado di civiltà, di conquiste come la democrazia o l’uguaglianza, non siano ancora in grado di affrontare razionalmente il rapporto con l’Altro, e per difendersi nelle contese internazionali siano ancora costrette ad affidarsi a soldati, mercenari, violenza, assassinio. Guerra, in altre parole. Lungi da me fare di Miller l’icona del pacifista, dalla quale sicuramente si smarcherebbe, però credo che una o due considerazioni questa posizione le meriterebbe.

  4. di Paolo1984) ho tentato di rispondere direttamente sul blog di Recchioni e lui ha chiarito che quando diceva che il film è fascista intendeva proprio il fascismo europeo (cito testualmente: “è un film fascista, mortuario e wagneriano, nel senso più europeo possibile.Tanto è vero, che il regista è un europeo.”)..mah! Io sono incline a concordare con te, e credo che posterò parti della tua risposta sul suo blog (senza mettere link o fare il tuo nome, è che mi sembrano davvero interessanti).
    Comunque Goth sì è un cattivo “con l’anima” (più che un pazzo, viene dipinto come un uomo crudele ma al tempo stesso tormentato da emozioniche non può accettare, come l’attrazione per la prigioniera ebrea così come Schindler è un “eroe” non privo di macchie e con tutti i limiti degli esseri umani però Spielberg non ci permette mai di scordarci qual è la parte “giusta” quindi le accise di nazismo direi che sarebbero evitate

  5. Sì, ovviamente il paragone con il personaggio di Amon Göth voleva essere provocatorio e paradossale, ma lo trovavo funzionale al discorso.
    Avevo letto anche il tuo commento alla recensione, e la risposta del tipo, però è pur sempre vero che nel suo scritto si legge, e cito testualmente,

    “[…] Insomma, è un film fatto da repubblicani americani per repubblicani americani e questo è decisamente evidente.
    Anzi, a voler essere onesti, definirlo semplicemente come un film schierato dalla parte della destra americana, mi sembra addirittura una minimizzazione.[…]”

    Poi però diventa fascismo europeo, anzi, wagneriano, e perchè no, aggiungo io, già che ci siamo e data la grana grossa del discorso, nietzscheano. A me convince poco: mi interessano molto di più le riflessioni (niente affatto banali) sul potere, il suo esercizio e il suo abuso che sottendono l’intera storia.
    Però, come sempre, grazie per la segnalazione e per aver restituito un po’ di vita a questo blog sul quale, ahimé, gira sempre meno gente.
    Demetrio

  6. per quanto riguarda l’ultima parte però si potrebbe dire a Miller che in Iraq non ci siamo difesi proprio da nessuno, abbiamo attaccato per primi chi non ci aveva neanche minacciato, certo dubito che sarebbe d’accordo,
    comunque le tue osservazioni sul personaggio di Bane sono direi, degne di considerazione se non illuminanti

  7. Ovviamente concordo con te, anche se francamente non ricordo a quale episodio nello specifico Miller si riferisse, o, più probabimente, se stesse parlando in senso generale. Tuttavia non scommetterei troppi soldi sull’eventualità che l’intera l’opinione pubblica americana concordi con te in merito alla guerra in Iraq: per molti, complice la disinformazione, si è trattato comunque di “guerra al terrore”, e in fondo la si è condotta proprio tentando di convincere la gente che fosse necessaria, peraltro condizionando per sempre la credibilità di numerosi soggetti in campo (la CIA, per esempio; non che ce ne fosse bisogno…). Lasciamo stare che poi i nodi son venuti al pettine e, oggi, il consenso attorno alla missione non sia più così ampio.
    Posso invece scommettere tranquillamente sul fatto che Miller non concorderebbe con quest’ultima parte del nostro discorso!

  8. Finalmente l’ho visto. Devo dire che non tutto mi è chiaro a livello di sceneggiatura (SPOILER come diavolo ha fatto Blake a capire che Bruce e Batman? E Bruce muore o no? E’ solo un allucinazione di Alfred che lo “vede” a Firenze?SPOILER) però è comunque un film di ottimo livello, come sempre Nolan coniuga spettacolarità e riflessione..però il secondo mi sembrava più “compiuto”.
    (ovviamente su Bane avevi ragione, lui dice chiaramente che per torturare a dovere Gotham vuole darle una falsa speranza, e la “rivoluzione” che inscena è da intendersi in questo senso, un’illusione, una menzogna,a Bane interessa solo portare a termine la missione distruttiva di Ra’as al Gul non certo la giustizia sociale)

  9. Te l’ho detto, a livello di sceneggiatura qualche “salto di catena” c’è, ma niente che pregiudichi eccessivamente la fruizione dell’opera (per la faccenda di Blake, in effetti sa tanto di “affinità elettiva” con Bruce Wayne/ Batman). Per quanto concerne lo SPOILER, personalmente ho capito che Wayne/ Batman sia sopravvissuto: poco prima della sequenza di Firenze (dove lo avranno trovato poi un bar del genere a Firenze…) c’è, se ricordi bene, una breve scena in cui Lucius Fox, tentando di far luce sulla sorte di Bruce Wayne, scopre che recentemente l’aereo che egli aveva usato aveva subito modifiche volte a garantire la possibilità dell’eiezione in volo per il pilota. Credo che in questo caso l’effetto “la trottola smetterà di girare oppure no?” sia scongiurato, anche se a Nolan i finali aperti e volutamente un po’ confusi devono piacere parecchio perché in effetti, dopo l’oscurità che regna per tutta la trilogia, il finale è talmente luminoso da apparire irreale. Tuttavia credo che Wayne l’abbia scampata, a differenza di Batman (ritorna la questione della maschera e del simbolo): in fondo, non è mai stato l’eroe di cui Gotham aveva bisogno, ma solo quello che Gotham si meritava. Anzi, magari le nostre società non hanno affatto bisogno di eroi, ma di giustizia: quella stessa in nome della quale, nel primo film della trilogia e come tu stesso mi ricordavi tempo addietro via sms, Wayne si rifiuta di ergersi a giudice della vita di chicchessia, anche del peggior criminale, stabilendone la condanna alla morte.
    Hai comunque ragione, anche secondo me “The Dark Knight” era più compiuto, sensazione che avevo avuto fin dalla prima visione e confermata dalle successive: però questa secondo me è l’unica chiusura possibile per la serie, quindi va bene così.
    Ciao vecchio mio!
    Demetrio

  10. A me, invece, piaceva più la prima definizione data da Hias all’anarchia di Joker; anzi, le avrei lasciate tutt’e due: libertaria se intesa come aspirazione alla rottura di qualunque regola sociale, e giustificata dalla consapevolezza (nichilista) che tutte le regole sono già in partenza violate, che in realtà ogni regola è fin dal principio intrinsecamente invalida, irrimediabilmente condannata alla contraddittorietà (“nient’altro che uno stupido scherzo”), e che quindi la società altro non è che una folle presa in giro che si regge sull’inganno, capace di perpetuarsi soltanto grazie alla viltà, alla ipocrisia e a tutte le più meschine paure degli esseri umani, impulsi celati e potenti che sono le vere leve con cui si governa il mondo (al posto dei celebrati e ostentati principi), e con cui coloro che lo dirigono (o si illudono di poterlo dirigere) mirano a conservare i vantaggi e le utilità sotratte alla moltitudine formata da singoli, isolati, oppressi da quelle folli regole delle quali il nostro clown ha capacità e forza (individualista, certo, ma forse sarebbe il caso di dire “sovrumana”) per dimostrare e svelare la loro falsità ed intima incoerenza. Quindi, anarchia libertaria, individualista, nichilista, … ma soprattutto irriducibile e disperata (tanto da incarnarsi in un perenne ghigno di scherno inciso con la lama). Che personaggio il Joker di Ledger! Unico e irripetibile. Il vero, autentico, puro Eroe del Male, … “fatto della stessa sostanza dei sogni” (cit.).

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