The Greatest Variety Show Ever: Cory and the Wongnotes (Cory Wong, 2021)

Mi rendo conto che tutte le recensioni che ho scritto negli ultimi mesi sui lavori di Cory Wong cominciano lodando quella che ormai si potrebbe a buon titolo definire “proverbiale (e invidiabile) prolificità” del loro autore, e però che vuoi scrivere su uno che dà alle stampe così tanta musica, e di così elevata qualità, in un intervallo di tempo tanto breve (prendendo a riferimento, a titolo di esempio, solo il 2020 e questi primi due mesi del 2021)? Cory and The Wongnotes è solo l’ultimo capitolo in ordine di tempo di una storia musicale costruita su ritmi serrati quasi come quelli che scandiscono le composizioni del chitarrista di Minneapolis, ed è ancora un’incursione nel funk: pubblicato ufficialmente lo scorso 5 febbraio, e preceduto da alcuni episodi della web series che lo accompagna (che è un’idea geniale già di per sé, e dagli esiti esilaranti, seguire su YouTube per credere), Cory and the Wongnotes si pone in maniera oserei dire quasi “antitetica” rispetto al funk del futuro predicato dal precedente The Striped Album, andando piuttosto a costruire, fin dall’estetica che lo accompagna, una specie di manifesto delle ispirazioni e dei riferimenti che informano la musica di Wong. Non fraintendetemi, il buon Cory non rinuncia alla sua personale ricerca musicale e compositiva e non si limita a ripetere il passato nella convinzione che non si possa fare di meglio: semplicemente, fin dalla grafica di copertina che richiama certi show televisivi in odore di anni ’50-’60 (atmosfera che si respira in parte nelle scenografie della stessa web series), Cory and the Wongnotes (ovviamente anche il nome scelto per questa super-band ha un che di vintage) sembra recuperare certe atmosfere funk un po’ retrò, in odore di Motown, dominate dagli intrecci dei fiati, aggiornandole al nostro 2021 con quel gusto e quell’eleganza che ormai sappiamo essere di casa nei lavori di Wong. Dal passato al presente, quindi, e infatti Cory and the Wongnotes non si nega mai alla contemporaneità, proponendosi anzi immediatamente come spazio multimediale, un gran varietà musicale che comincia dalle canzoni e si sviluppa nella web series, fatta di interviste ai musicisti che lo accompagnano nel disco (interviste che richiamano da vicino il format del podcast di Wong, intitolato semplicemente Wong Notes), sketch, momenti un po’ sitcom e un po’ live show. Ma per parlare della musica contenuta in questo album occorre partire dalla band messa insieme da Wong, un collettivo di 11 elementi nel quale spiccano vecchie conoscenze dei precedenti lavori (come Kevin Gastonguay alle tastiere o Petar Janjic alla batteria), un’intera sezione di fiati composta da 6 strumentisti (tra i quali 3 membri degli Hornheads, corresponsabili delle magnifiche tessiture sonore di The Striped Album, ovvero Michael Nelson, Steve Strand e Kenni Holmen, quest’ultimo già membro della Delta Force che aveva nobilitato anche il primo LP dei The Fearless Flyers, altro progetto coinvolgente Wong, oltre a Eddie Barbash, già coinvolto in diversi lavori dei Vulfpeck e parte del progettino Jon Batiste & Stay Human, house band del Late Show di Steve Colbert fino al 2016) e soprattutto il signor Sonny T., al secolo Sonny Thompson, bassista e chitarrista di lungo corso più noto per aver fatto parte dei The New Power Generation, band live e di studio dal 1991 al 1996 per un altro genietto della musica proveniente da Minneapolis, Prince (credenziali di tutto rispetto, direi, e al tempo stesso averlo nella line-up è una chiara dichiarazione d’intenti); a questo straordinario quadro, cui si aggiungono Sam Greenfield e John Lampley a completare la sezione di fiati e la percussionista brasiliana Nêgah Santos, non può mancare il contributo dei sodali di lungo corso Cody Fry e Antwaun Stanley alle voci. Il funk che si respira in queste 11 tracce è gonfio di suoni deliranti, sincopati e che spingono a ballare, e trasuda un groove trascinante: Cory and the Wongnotes, come già suggerisce la sua estetica, è soprattutto un disco che diverte, che spinge a muoversi, caratterizzato da una netta predominanza degli strumentali (solo due i brani cantati), pieno di energia, di positività e di pura gioia della musica.
L’opening,
Cory and the Wongnotes Theme Music, è un brevissimo episodio che funziona da jingle introduttivo eseguito dalla band in apertura degli episodi della web series: trenta secondi di funk horn-oriented, pieni di strappi, articolazioni e colori, che stabiliscono la falsariga lungo la quale le restanti tracce si muoveranno. La seguente Merci è una summa delle intenzioni di questo lavoro: pescare da un sound vintage e renderlo elegantemente contemporaneo. Merci è puro groove, guidato dal certosino lavoro ritmico della chitarra del suo autore, uno dei rarissimi esempi di virtuosi maggiormente interessati alla composizione di un quadro d’insieme che alla mera esecuzione di soli e performance a velocità vertiginose: sembra di ascoltare un brano che esce diretto dagli anni ’70 e che pure ha quel quid di assolutamente, innegabilmente contemporaneo (a tratti persino futuristico), un’orgia gioiosa e irrefrenabile di suoni e ritmi irresistibili. Heist ha qualcosa dei tratti urban che ammantavano di metallica contemporaneità molti episodi di The Striped Album: sorretto da un basso groovy assolutamente ipnotico, un motore ritmico inesauribile cui si sposano trionfalmente i fiati e che conduce a un inatteso e fantastico solo di flauto (suonato da Kenni Holmen), il brano sfocia in uno special che lo tronca a metà per riportarlo sul giro iniziale. Uno strumentale, uno dei tanti di questo lavoro, nel quale però gli interventi della band vanno ben oltre la banale successione di soli: il collettivo sembra suonare come un’unica entità, niente è fuori posto, ogni transizione è assolutamente naturale e al tempo stesso, nonostante la completa fluidità (o in conseguenza della?), sinceramente sorprendente. Tiki Hut Strut ripesca invece da atmosfere vagamente caraibiche, che già avevano ispirato Wong nella splendida Kauai, sua composizione contenuta in Tailwinds dei The Fearless Flyers, e crea un feel da “in fondo al mar”, ma decisamente in versione dancefloor: notevole la coda finale, col trombone di Michael Nelson a dipingere un solo melodioso e torrenziale su un tiratissimo groove di basso (Sonny T.), chitarra (Wong e batteria (Janijc). Coming Back Around è il primo dei due brani cantati, con Cory Wong che lascia le chitarre a Cody Fry e a Sonny T. e si cimenta al basso: le vibrazioni sono quelle del soul più vintage, alimentato dalla consueta energia della band, modernissima e old school al tempo stesso, e impreziosito dai falsetti di Fry, dalle digressioni dei fiati e da un fulminante solo di chitarra. La seguente Starfire sembra l’ideale colonna sonora di una serata tra le strade tentacolari della città: un gioco di incastri ritmici accesi dalle fiammate improvvise dei fiati, il tutto a confezionare un groove metropolitano scandito da un magico, melodico e quasi romantico strumming notturno di Wong. United vede il contributo vocale dell’insuperabile Antwaun Stanley, un altro che trasforma in oro tutto ciò che tocca: poco più di tre minuti pieni di trascinante energia, benedetti dalla vocalità e dai fraseggi gustosissimi di Stanley, che ad ogni sua sortita sembra aggiornare sempre più ai giorni nostri un certo stile wonderiano. Il gran varietà funky prosegue inarrestabile col groove old school di Headin’ Down To Bunkers, mastodonte ritmico teleguidato dalle svisate e dal suono pulitissimo della chitarra di Wong e colorato dagli arabeschi dei fiati, e con la lunghissima Lee, un divertissement elaboratissimo con i fiati a condurre i giochi: batteria e basso scavano i solchi sui quali Gastonguay conduce un solo di synth dapprima quasi atmosferico, inizio di un botta e risposta straniante e ipnotico, che lascia spazio a un solo di sax stravolto dagli effetti per arrivare infine a un solo di sax pulito, sui solchi tracciati stavolta dagli altri fiati dell’ensemble. Lee è un bizzarro esempio di funk sperimentale, dove alla forza travolgente del motore ritmico si associa una ricerca timbrica tutt’altro che banale, ed ha persino un sound duro, quasi heavy nel suo tiratissimo finale. Bluebird riprende il primo singolo estratto da Trail Song (Dawn), dove però al mandolino di Chris Thile si sostituisce il sax di Eddie Barbash, e dal bucolico folk immerso nei prati si passa a un funk sincopato e orgogliosamente vintage; la chiosa è affidata a un medley citazionista, Stevie Wonder Medley, un omaggio più che dovuto a un intero mondo musicale di riferimento, due minuti in cui gli Hornheads frullano insieme Isn’t She Lovely e Sir Duke, due super-classici pescati dallo sconfinato repertorio di Wonder.
Quello che risulta evidente da un ascolto anche solo distratto di questo lavoro è che non c’è un solo momento o passaggio di
Cory and the Wongnotes che non sia strepitosamente musicale: tutto ciò che dovete tenere in mente, approcciando queste 11 tracce, è la musica e la musica soltanto. Wong, come ho già detto più e più volte negli ultimi 12 mesi, è uno straordinario chitarrista ritmico, un virtuoso dello strumento ma prima di ogni altra cosa un compositore sopra la media, attento ed elegante, capace e sensibile al punto da saper prestare la dovuta attenzione non soltanto al particolare (quanta gente si è smarrita dietro i particolari?), ma alla consistenza del quadro d’insieme: le sue composizioni, in questo album come nei precedenti, sono dei micro-ambienti curatissimi, pieni zeppi di tutti quei particolari e colori e personalità diverse che ti aspetteresti, il famoso “portato” dei vari musicisti coinvolti, e che pure respirano e vivono come se la band che li suona, tutti gli strumentisti, fossero un tutt’uno, tesi in un unico flusso coeso e debordante. Non c’è una ricetta per ottenere un sound del genere: sicuramente Wong ha un dono, non è possibile negarlo, e allo stesso tempo, altrettanto sicuramente, è il duro lavoro che gli permette di ottenere risultati così alti e con la prolificità che abbiamo imparato a riconoscergli. Cory and the Wongnotes non fa eccezione: un po’ varietà luminoso e sgangherato, tutto groove e funk, un po’ terreno libero nel quale gli strumentisti possono cavalcare a briglie sciolte, a tratti tiratissima declinazione di un pop dalla grazia ultraterrena e subito dopo ibrido di funk, r’n’b e soul old school aggiornati alle moderne tentazioni del dancefloor, ma mai meno che adorabile in ciascuno dei suoi episodi, è un disco di musica viva, vibrante, pulsante, che viene dal passato per farti capire meglio il presente e lanciarsi di testa nel futuro. Cory did it again e, tanto per non cambiare, l’ha fatto meglio di tutti gli altri.

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