The sound of the world in the form of a hymn: Kontinent (Janne Mark with Arve Henriksen, 2020)

“I am fascinated by the borderlessness that melody represents. Melodies, when shared among people in communal singing especially, disregard borders and fringes, and have a way of finding a path of their own.”

Sono inciampato su questo disco per puro caso, ma mi ha folgorato istantaneamente. Kontinent, questo il titolo dell’album, è il secondo capitolo della collaborazione tra la cantante e compositrice danese Janne Mark e il trombettista jazz norvegese Arve Henriksen, qui anche nelle vesti di produttore: il lavoro è stato registrato nella primavera del 2020 e pubblicato lo scorso novembre dall’etichetta ACT music (per la precisione, la data di uscita sul mercato tedesco è il 13 novembre del 2020), ed è uno di quei dischi che merita il mio e il vostro tempo, senza se e senza ma. Di questo rapporto collaborativo tra Janne Mark e Arve Henriksen, artisti che per onestà nemmeno conoscevo, non avevo ovviamente alcuna cognizione prima di ascoltare queste undici tracce: eppure l’incontro tra la musica sacra e il jazz nord-europeo più sperimentale, che si respira in ognuno dei circa 45 minuti dell’esecuzione, crea un’atmosfera talmente insolita e potente da lasciare perfino storditi, e io me ne sono letteralmente innamorato. Kontinent è un bizzarro album contemporaneamente sinfonico, tradizionale, pop e orchestrale, elementi già di per sé molto connotanti, cui coniuga con leggerezza ed eleganza ispirazioni e feel chiaramente e apertamente jazzistici (basti pensare alla qualità del fraseggio, in particolare del piano suonato da Henrik Gunde, del contrabbasso di Esben Eyermann e della tromba di Henriksen), senza rinunciare all’uso di una strumentazione anche particolare (l’hardingfele suonato da Nils Økland, uno strumento tradizionale norvegese molto simile al violino ma caratterizzato, rispetto a questo, dalla presenza di alcune “sottocorde”, o “corde di simpatia”, in numero di 4 o 5 le quali, suonando le quattro corde principali, entrano in risonanza acustica creando un effetto straniante e del tutto particolare) per produrre un curioso ibrido di jazz sperimentale e canzone d’autore saldamente ancorata alla tradizione nordica, fatta di panorami musicali (oserei dire soundscapes) gelidi, sospesi, divaganti tra profondo sentimentalismo e un torpore etereo.
La prima parte del lavoro è la più “estesa”, per così dire:
Kontinent si apre con quattro brani che sono infatti i più lunghi del lotto, cantati ora in danese ora in inglese, altrettante piccole sinfonie che prendono tutte le ispirazioni cui ho brevemente accennato (musica sacra, inni, tradizione atlantica e nord-europea, il jazz d’avanguardia) e le frullano insieme a ricostruire un quadro di bellezza ipnotica, irresistibilmente affascinante: l’opening Altid allerede elsket è una composizione di Janne Mark, austera nel suo incedere, sottolineato dalle spazzolate furibonde di Bjørn Heebøll e dal fraseggio della tromba di Henriksen, e che lentamente vira quasi verso un pop orchestrale venato di jazz, scandito dalle splendide melodie della voce e dal solo dello stesso Henriksen (adagiato su un ottimo lavoro di supporto ritmico del contrabbasso di Eyermann); Har døden taget noget fra dig så giv det tilbage, composta ancora da Janne Mark insieme alla scrittrice e poetessa danese Naja Marie Aidt, è un jazz con echi di musica tradizionale islandese, caratterizzato da una pulsazione ritmica frammentaria e peculiare e dotato di una forza emotiva commovente. A rendere speciale il brano c’è un fantastico lavoro del contrabbasso dell’ottimo Eyermann, che accompagna come onde di marea un solo di piano frastagliato e romanticamente sospeso: ma l’intero episodio (che supera i sette minuti) è caratterizzato da una ricchezza strumentale sorprendente, pieno di divagazioni che lo portano a scivolare elegantemente in molte direzioni diverse, alternando in maniera suadente pieni maestosi a vuoti riflessivi. Lungo Kingsfold, inno cantato della tradizione folk inglese e irlandese, sembra a tratti di riascoltare orchestrazioni provenienti dai migliori album dei Sigur Rós, arricchite però dall’inquieto e doloroso jazz distillato dalla tromba di Henriksen; la seguente July riecheggia invece passaggi quasi celtici, che lasciano spazio al fraseggio di Henriksen, a metà tra il languore notturno e le poliritmie mediorientali. Siamo in odore di carovana notturna nel deserto, un complesso insieme di sensazioni impreziosito da un outro nel quale un piano frenetico e le melodie delicate della tromba si adagiano magicamente su una linea di basso tanto semplice quanto efficace. Psalm for a tree, Pt. I spezza questo flusso sonoro introducendo alla seconda parte del lavoro, fatta di brani più brevi, con un salmo recitato dallo stesso Henriksen, adagiato su un sottofondo musicale di fiati in odore di Jon Hassell (penso alle mini-suite strumentali che costellano, ad esempio, la colonna sonora di The Million Dollar Hotel di Wim Wenders), ideale preludio a Taladh Chriosta, altro brano tradizionale che diviene occasione per un dialogo tra il piano di Henrik Gunde e la tromba dello stesso Henriksen, cui si associa la voce di Janne Mark. O du min Immanuel è un altro inno tradizionale, riletto quasi con tentazioni ambientali, cui segue Ny begyndelse, che torna ad avere un minutaggio più alto e, partendo dalle risonanze dell’hardingfele di Nils Økland, finisce per riecheggiare su un jazz notturno puntellato da fraseggi melodici splendidamente eseguiti da Henriksen, il tutto benedetto dalla voce affascinante di Janne Mark. Psalm for a Tree, Pt. II riprende il salmo della parte I, con il sottofondo musicale che si fa più preminente, mentre l’affascinante Both In The World And Yet Outside It è un’altra composizione della Mark, un maelstrom oscuro squassato da profondi rintocchi di percussioni sotterranee suonate da Bjørn Heebøll: un’elegante melodia vocale, la cui chiarezza e brillantezza sfiora il miglior pop, accarezza questo gorgogliante substrato armonico-ritmico producendo un risultato di inattesa e abbacinante bellezza. Længselsvise chiude il cerchio con un romantico adagio del piano, la voce della Mark doppiata dalla tromba di Henriksen e il finale interamente strumentale impreziosito ancora dall’hardingfele di Økland.
Se questo viaggio di ricerca musicale compiuto da Janne Mark con Arve Henriksen si era avviato attraverso un pellegrinaggio (
Pilgrim si intitolava infatti il primo lavoro collaborativo del duo, datato 2018), Kontinent ne rappresenta l’ideale approdo, il raggiungimento di una qualche terraferma: ma è un terreno misterioso e affascinante, un continente inesplorato di suoni e timbri e reminiscenze di musiche dai quattro angoli del globo. Un terreno misterioso, e quindi fecondo, che viene abbracciato in tutta la sua ricchezza: che si tratti del solo quasi jarrettiano di Henrik Gunde, che si rincorre con il contrabbasso di Eyermann in
Har døden taget noget fra dig så giv det tilbage, o della profondità oceanica dei rintocchi percussivi di Bjørn Heebøll che accompagnano il brillante minimalismo di Both In The World And Yet Outside It; del fraseggio etereo e sentimentale di Henriksen, onnipresente e veramente indimenticabile, o delle insolite risonanze prodotte dall’hardingfele, che tanto spazio creano all’interno di queste composizioni; dell’esplosività delle linee ritmiche suonate dal contrabbasso di Eyermann o della potenza della voce di Janne Mark, capace di esplosioni luminose quanto di dolorose contorsioni, sono in ogni innumerevoli le diramazioni che Kontinent riesce a prendere, percorrere e suggerire. Queste undici tracce sembrano prendere il volo, sorvolare un terreno straniero, abbracciarlo con lo stupore dello sguardo, godendo dei silenzi e del brulichio dei suoni (e della vita): come le stesse copertine sembrano suggerire, laddove Pilgrim creava una rete, un reticolo di connessioni, Kontinent sparge un’inesausta ricchezza di colori, ampliando a dismisura il proprio orizzonte, e gonfiando di una profonda nostalgia il cuore di chi ascolta. Janne Mark lavora da sempre alla reinvenzione della tradizione degli inni religiosi danesi, ma non dovete lasciarvi ingannare, perché questo Kontinent non ha minimamente il suono di una musica “da chiesa” (al pari di Pilgrim): come la stessa Mark recita, “The church is the house of slowness. I am interested in slowness, silence, the sounds of slowness and silence. The sound of the world in the form of a hymn”. La musica di Kontinent è musica potente, piena di mondo, di tradizioni, di suggestioni, di idee: musica ricca e al tempo stesso contemplativa, dalla quale è piacevole lasciarsi sedurre, alla quale abbandonarsi senza timore, e in questo un’autentica esperienza religiosa, almeno laddove si intenda la religione come abbandono (che altro non è che l’etimologia meravigliosa della parola “islam”, “abbandono di sé”). Il nocciolo di questa esperienza musicale risiede forse tutto qui: nella capacità di abbandonarsi, lasciarsi cullare, entrare punta di piedi in questa chiesa che omaggia il silenzio e la lentezza, il suono del mondo come fosse un inno sacro.

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