The thunder in our hearts: i 35 anni di “Hounds of Love” (Kate Bush, 1985)

Il 16 settembre del 1985 viene pubblicato Hounds of Love, quinto album di studio della cantautrice britannica Kate Bush, e non è un album come tutti gli altri per la sua autrice: giunge infatti dopo il mezzo passo falso di The Dreaming, un lavoro pubblicato appena 3 anni prima (correva l’anno 1982, io per esempio non ero ancora nato) che riesce a malapena a portare i suoi singoli in classifica e che sembra risolversi in un poderoso fiasco commerciale, lontano dai fasti dei primi lavori. Per Kate Bush, che nel 1980, con Never for Ever, è stata (tra le mille altre cose) pioniera dell’introduzione nella musica pop del nuovissimo sintetizzatore Fairlight CMI (più o meno contemporaneamente all’adozione di questo strumento nell’elettronica, operata da Jean-Michel Jarre con il suo Magnetic Fields, del 1981, o nel jazz, ad opera principalmente di Herbie Hancock: cliccate qui per vedere come si divertiva), e per la quale la sperimentazione non è mai stata un semplice vezzo, ma un’autentica ragione di vita artistica, il parziale fallimento di The Dreaming, la sua opera fino a quel momento più ambiziosa e personale, diventa una valida, validissima ragione per isolarsi dal mondo. Attenzione però: non un isolamento sdegnoso, ma il principio di tre anni di intensa ricerca e sperimentazione sui suoni sintetici che possono essere spremuti fuori dal Fairlight, tre anni che conducono alla pubblicazione di Hounds of Love, il lavoro sul quale spenderemo due(mila) parole quest’oggi, a 35 anni dalla sua uscita: un disco che cambierà tutto. Gli anni ’80, come probabilmente molti ricorderanno, sono un periodo nel quale la musica pop si ibrida spesso e volentieri con le ritmiche elettroniche e il sound del dancefloor (gli esempi potrebbero spaziare dalla raffinata composizione per cui è tuttora universalmente nota Kim Carnes, Bette Davis Eyes, fino a fenomeni più smaccatamente pop, come Madonna, o i Culture Club; ma sono anche gli anni in cui mostri sacri del rock come i Queen subiscono inevitabilmente, e piuttosto fatalmente, l’influenza del nuovo elettropop, e pure David Bowie partorisce hit da primo posto in classifica, come Ashes to Ashes, che tanto influenzerà il movimento New Romantic e che non è estranea a certe sonorità tipicamente eighties): anche Kate Bush sceglie di vestire questi nuovi panni, calandosi nel proprio tempo pur senza rinunciare alle proprie peculiarità.
Ne risulta un incipit straordinariamente upbeat, dinamico e propulsivo: un’atmosfera nuova, intensa e trascinante, inaugurata da un brano che è ormai un pezzo di storia della musica pop,
Running Up That Hill (A Deal with God). Difficile che possa mai più venire impresso su disco un ingresso della voce su un brano dotato della stessa potenza magnetica che Kate Bush conferisce al primo verso di Running Up That Hill: la Bush scivola delicatamente, con voce graffiante, su uno strepitoso It doesn’t hurt me/ Do you want to feel how it feels?, che si incastra magicamente e malinconicamente sul tappeto di drum machine che scandisce la pulsazione trascinante che accompagnerà il brano per la sua intera durata, spazzato dalle folate del Fairlight. A completare l’opera c’è un video straniante, in cui la Bush torna a puntare sulle proprie doti di ballerina, che già avevano spiazzato nell’accompagnamento visuale di Wuthering Heights, qualche anno prima. Running Up That Hill non è soltanto una formidabile canzone radiofonica, ma un’autentica dichiarazione d’intenti: ritmo marziale sul quale si stagliano panorami onirici e fantastici, un dipinto in forma di musica. È un po’ come se questa musica non volesse dare tregua all’orecchio e al corpo dell’ascoltatore, incalzandolo col moto perpetuo di ritmiche granitiche, e accarezzandolo con melodie ora soavi, ora oscure: tengono botta su questi ritmi altissimi anche la titletrack, Hounds of Love, in cui la voce della Bush torna eterea, inquietantemente acuta e profonda al tempo stesso, appoggiandosi sui contrappunti degli archi, e la successiva The Big Sky, dove Kate Bush si lancia in una sequenza di stranianti tribalismi vocali, adagiati ancora su un dinamismo ritmico pulsante e trascinante. Solo la spettrale Mother Stands for Comfort, centrata dal punto di vista lirico sulla figura materna, rompe questa sequenza, spezzando il ritmo in favore di un incedere più riflessivo, quasi magmatico, sottolineato dalla splendida linea di contrabbasso elettrico incastrata da Eberhard Weber tra i rintocchi della drum machine, una linea melodica lussuosissima che “fa” letteralmente il pezzo, spazzato qua e là da poche note di piano e dalle consuete folate del Fairlight: un episodio quasi intimista, una specie di denso dialogo tra il contrabbasso e la voce della Bush. E poi c’è spazio per un brano letteralmente superbo, Cloudbusting, ispirato alla vita dello psichiatra e psicanalista americano William Reich, al suo celebre “acchiappanuvole” (cloud buster), descritto nel libro The Book of Love, un dispositivo in grado di incanalare l’energia orgonica accumulata direttamente nell’atmosfera e, in maniera speculare al pezzo che lo precede, al rapporto tra Reich e il di lui figlio Peter: Cloudbusting è una specie di film in musica, una marcia potente scandita dagli archi e dal Fairlight, sulla quale si adagia una melodia vocale per la quale non è esagerato spendere l’aggettivo di eterna. Cloudbusting è un brano luminoso, in qualche modo estivo, come il ventaglio di possibilità che sembra aprire di fronte all’ascoltatore (Cause every time it rains/ You’re here in my head/ Like the sun coming out/ Ooh, I just know that something good is going to happen/ And I don’t know when/ But just saying it could even make it happen), un brano che dipinge con delicatezza il rapporto tra un padre e un figlio, fatto di sogni condivisi, speranze, memorie che non si possono cancellare di un tempo in cui non esisteva ancora la sconfitta. Ad accompagnare questo autentico capolavoro, un video che se possibile è ancora più bello e affascinante, diretto da Julian Doyle ma ideato da Kate Bush a braccetto con un certo Terry Gilliam (mica uno qualunque), concepito come uno short movie che vede come protagonista Donald Sutherland nel ruolo di William Reich accanto alla stessa Bush in quello del figlio Peter.
Se pensate che già questo sia abbastanza (e lo sarebbe, se parlassimo di un disco qualunque di un artista o una band qualunque), sappiate che il meglio deve ancora venire. Sì, perché la storia qui è praticamente divisa a metà: c’è
Hounds of Love, che si chiude su Cloudbusting, e poi ci sono le sette tracce che compongono la magnificente suite intitolata The Ninth Wave. In pratica è un po’ come se Kate Bush avesse deciso che mettere un solo disco dentro a un disco è una cosa che possono fare tutti, mentre mettercene due, ecco, quella sì che è una bella pensata: The Ninth Wave è un costrutto lungo, ambizioso e pieno di asperità, tutta un’altra storia rispetto agli scintillanti singoli che coronano la prima parte di Hounds of Love: questi ultimi conquisteranno il mondo e le classifiche, ma le sette tracce di The Ninth Wave proietteranno la ricerca musicale di Kate Bush su un piano totalmente diverso, spingendola a ricongiungersi con la propria anima progressive, con la propria vena più sperimentale, in un percorso che riparte dallo sfortunato The Dreaming per arrivare stavolta molto, molto più lontano. L’immagine è quella di un naufragio: una naufraga dispersa in mare, indecisa se resistere in attesa dei soccorsi o soccombere, lasciandosi andare. Comincia così And Dream of Sheep, una ballad pianistica in cui torna il celebre falsetto della Bush, in odore di Wuthering Heights. Il movimento successivo, Under Ice, ha l’incedere cupo e angosciante di un sogno oscuro, un incubo: la naufraga sembra soccombere ai propri fantasmi, scivolando lentamente in un mondo gelido e alieno. Mentre la protagonista, sprofondata nel sogno, pattina su questo ghiaccio sottile, in una crepa del manto gelido intuisce il riflesso di se stessa, e si vede intrappolata nelle profondità: è la voce degli amici, la loro memoria, a risvegliarla e tentare di salvarla nella traccia seguente, Waking the Witch. Questa è la prima di una serie di tre canzoni che sembrano voler rappresentare le allucinazioni vissute dalla naufraga mentre il suo corpo scivola verso il congelamento e l’ossigeno inizia a scarseggiare: qui la musica è una pozza oscura e stagnante, “sembra che ti culli ma poi ti vuole ingoiare”; e, quando infine ti ingoia, lo fa con il crepitio allucinatorio delle drum machine, in un break ritmico e ossessivo abitato dai fantasmi del passato della donna. Waking the Witch sta al fantasma dei natali passati come Watching You Without Me sta a quello del natale presente: l’anima della naufraga sembra uscire dal proprio corpo per tornare alla propria casa, dove scopre di poter vedere i propri cari ma di non essere in grado di interagire con loro (You can’t hear me/ You can’t hear me/ You can’t hear me/ Here in the room with you now, e poi ancora Can’t let you know what’s been happening/ There’s a ghost in our home just watching you without me/ But I’m not here), un’esperienza premorte resa da una sorta di ninna nanna minimale, dal sapore vagamente orientale, cullata ancora dai bassi profondi e melodici di Eberhard Weber. Infine c’è il futuro, Jig of Life, una visione allucinatoria in cui la donna incontra la propria sé del futuro che le chiede di non lasciarsi andare, di salvarsi (e salvarle) la vita: dalle sonorità esotiche e orientaleggianti di Watching You Without Me, Kate Bush torna qui alle radici celtiche della musica del nord europa, e Jig of Life è una sorta di orgia di violini irlandesi e festanti e vocalizzi che si accalcano (“Never, never say goodbye/ To my part of your life/ Oh no, no, no, no, no!/ Never, never, never, never, never let me go!”/ She said, “C’mon and let me live, girl!’/ “C’mon and let me live!”/ She said, “C’mon and let me live, girl!”/ “C’mon and let me live!”). Sul finale si ascolta anche la voce di John Carder Bush, fratello di Kate, poeta e visual artist, coautore delle liriche del brano, in una potentissima invocazione allo spirito della donna perché resista, non si lasci cadere, non si perda nel buio dell’oceano, pochi versi che vale la pena di riportare qui per intero:

Can’t you see where memories are kept bright?
Tripping on the water like a laughing girl
Time in her eyes is spawning past life
One with the ocean and the woman unfurled
Holding all the love that waits for you here
Catch us now for I am your future
A kiss on the wind and we’ll make the land
Come over here to where When lingers
Waiting in this empty world
Waiting for Then, when the life spray cools
For Now does ride in on the curl of the wave
And you will dance with me in the sunlit pools
We are of the going water and the gone
We are of water in the holy land of water
And all that’s to come runs in
With the thrust on the strand

Le ultime forze abbandonano la naufraga, le voci dei soccorritori e la sua stessa voce interiore appaiono come echi fiochi, sussulti provenienti come da una distanza: ed è con una voce che in qualche modo, extradiegeticamente, sembra sovrapporsi a e provenire da questa abissale distanza che si apre la lunga Hello Earth. Si tratta di un mix di comunicazioni via radio trasmesse dall’astronauta Dan Brandenstein al Mission Control della NASA durante la prima missione shuttle (STS-1), che apre il brano prima dell’ingresso della voce di Kate Bush: la naufraga sta ormai cedendo, ciò che le accade attorno appare sempre più lontano, la coscienza della propria connessione col mondo circostante sta venendo meno, e la donna vede soltanto la Terra, e desidera solo potersi addormentare. Il cantato è troncato da una sezione corale che esegue il brano popolare tradizionale georgiano intitolato Tsintskaro (tradotto approssimativamente come “At the spring water”), che la Bush aveva deciso di introdurre a mo’ di ritornello dopo averlo ascoltato casualmente nella colonna sonora del magnifico Nosferatu- Phantom der Nacht di Werner Herzog (tanto per fare un altro salto nel passato, ne parlavo qui), eseguito in tal caso dal Vokal Ensemble Gordela. La scelta di questo peculiare coro, con tutta la sua affascinante atmosfera, permise alla Bush di superare le difficoltà con la scrittura di questo brano, che aveva dei grandi buchi al suo interno, causati dalla mancanza di un inciso plausibile: l’introduzione del coro trasforma il brano, nel quale solo l’ultima luce, distante e nelle profondità, sembra resistere, sempre più fioca (Tiefer, tiefer/ Irgendwo in der tiefe/ Gibt es ein licht recita il testo sul finale, ovvero Deeper, deeper, somewhere in the depth there is a light), in una specie di accorata ninna nanna per il pianeta Terra. Per usare le parole della stessa Kate Bush, pronunciate in radio da Richard Skinner (Radio 1, UK, 1992), “In some ways I thought of it as a lullaby for the Earth. And it was the idea of turning the whole thing upside down and looking at it from completely above. You know, that image of if you were lying in water at night and you were looking up at the sky all the time, I wonder if you wouldn’t get the sense of as the stars were reflected in the water, you know, a sense of like, you could be looking up at water that’s reflecting the stars from the sky that you’re in. And the idea of them looking down at the earth and seeing these storms forming over America and moving around the globe, and they have this like huge fantasticly overseeing view of everything, everything is in total perspective. And way, way down there somewhere there’s this little dot in the ocean that is them”. Ma infine, la protagonista di questo The Ninth Wave si salva oppure no? Kate Bush giura che sì, la donna si è salvata, e la conclusiva The Morning Fog dovrebbe raccontare il suo risveglio, il suo ritorno alla vita; l’accompagnamento musicale sembra sostanziare questa positività, con un uptempo che è probabilmente la cosa più beat ascoltata in questa seconda metà dell’album, con il basso (stavolta suonato da Del Palmer) che dipinge delicate melodie. Tuttavia molti ritengono che le cose non siano così semplici come sembrano, che la donna sia invece morta, e che questa The Morning Fog, con la sua nebbia che si solleva a disvelare i contorni delle cose, sia in realtà un brano che parla di reincarnazione, di una nuova nascita, di un nuovo percorso che inizia, nel quale la donna potrà portare con sé l’esperienza terribile con la quale la propria vita precedente si è conclusa, e tutti i ricordi meravigliosi che da questa gli sono rimasti.
Spesso i dischi che provengono dalla decade degli anni ’80, riascoltati dopo tanto tempo, non superano la prova del tempo.
Hounds of Love, però, è un Capolavoro con la C maiuscola (e forse non solo quella), ed è soprattutto davvero un lavoro senza tempo: se non l’avete mai ascoltato prima, fate una prova. L’urgenza della scrittura, la profondità delle intuizioni armoniche, melodiche e ritmiche, la grazia delle composizioni fanno ancora oggi sì che questo disco sembri uscito pochi giorni fa, insieme alla capacità di mescolare in modo sapiente e oculato le varie trame sonore (quella cantautorale, le tensioni elettroniche e i voli pindarici più vicini al progressive). Anche a 35 anni di distanza, Hounds of Love continua a parlare ai suoi ascoltatori nella lingua che è propria dei grandi classici, della grande musica, delle grandi artiste e dei grandi artisti.

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