“Time won’t always heal”: It is what it is (Thundercat, 2020)


Unrequited love
Time won’t always heal
And it eats at my mind
Because you’re the one that got away

Questo It is what it is, uscito lo scorso 3 aprile per la Brainfeeder di Flying Lotus, è soprattutto un disco sul dolore e sulla perdita, quella di una persona amata. Nel caso di Stephen Bruner, in arte Thundercat, bassista virtuoso e songwriter stralunato (e, parere personale, assolutamente adorabile: io me ne sono innamorato vedendo questo), la perdita in questione è quella dell’amico rapper Mac Miller, morto poco più di un anno fa in giovanissima età (per chi non conoscesse le collaborazioni tra i due, qui un assaggio). It is what it is è quindi anche un lungo album che parla di amicizia maschile, un tema lontano un milione di anni luce dai radar della maggior parte della musica mainstream, che sembra sempre sorvolare spesso e molto volentieri sulla fragilità maschile, rimosso ideologico che poi, tristemente, produce la cultura dei rapporti interpersonali stereotipati in cui siamo immersi (tra i pochi casi contrari che mi vengono in mente ora c’è The Mariana degli Everything Everything, brano recente centrato sul tema del disagio sociale e del suicidio giovanile maschile o, per andare a scomodare i grandi capolavori del passato, la splendida Michael del buon Mark Kozelek ai tempi dei suoi Red House Painters). Ovviamente It is what it is è questo e molto altro: un caleidoscopio di musica di tutti i tipi e gli umori, un frullatore nel quale si trovano il jazz, la fusion, l’elettronica, massicce dosi di un funk decisamente ponderoso, derive psichedeliche, divertissement caustici e addirittura sfumature di bossa e jazz-samba, brani estremamente brevi (anche inferiori al minuto) e piccole suite spaziali che mescolano ogni influenza possibile e (qui si può gridare al miracolo) la rendono digeribile anche ad ascoltatori totalmente digiuni di certi tipi di musica, il tutto guidato dall’incedere delle linee di basso di Bruner, che non è un semplice istrione ma un autentico pifferaio magico capace di alternare solidità ritmica a divagazioni melodiche, infarcendo le proprie parti di arpeggi, soli vertiginosi e un senso del groove che, come tutte le migliori cose al mondo, non si insegna e non si può imparare, o c’è o non c’è. Ma, tanto per ripetersi, Bruner è questo e molto altro: è un virtuoso assoluto ma anche un songwriter delicato e un po’ stralunato, pieno di migliaia di deliziose ossessioni un po’ nerd (dai videogiochi a Dragonball, dagli anime alle musiche 8-bit), di insicurezze espresse con autoironia e consapevolezza di sé, e gravato oggi da un carico di autentico dolore col quale provare a fare i conti. E qui si torna all’inizio, al dolore e alla perdita che, pur nella varietà di toni e registri, riempie questo quarto LP del nostro (che segue il futuristico The Golden Age of Apocalypse, datato 2011, il meraviglioso Apocalypse, del 2013, nel quale si cominciava ad avere un assaggio del songwriting di Bruner, e infine lo splendido e torrenziale Drunk, del 2017): Lost in space/Great Scott/ 22-26 apre le danze con un’incursione nel vuoto assoluto degli spazi siderali, un lamento ispirato dalla solitudine e dal dolore della perdita (Is anybody there?/ Let me know if you can hear me/ It feels so cold and so alone), apripista per il trip cosmic-fusion di Innerstellar Love, squassato dal frastagliato e abbacinante sassofono tenore di un sempre monumentale Kamasi Washington; l’up-tempo di I love Louis Cole, sul quale Thundercat duetta con la voce e soprattutto con il drumming incalzante del multistrumentista (ma soprattutto batterista) americano citato nel titolo, introduce il poderoso funky di Black Qualls, impreziosito dalle parti vocali di Childish Gambino, Steve Lacy e soprattutto dell’icona funk anni ’80 Steve Arrington, un brano vibrante con delle parti di basso semplicemente stupefacenti (tra le quali spunta anche un po’ di slap, evento assai poco frequente nei lavori del bassista losangelino, che anzi dice di “odiare lo slap”: cliccate qui per un simpatico fun fact). Quattro episodi brevissimi incastonati in mezzo al lavoro riportano tutti sulle montagne russe, con una serie stordente di cambi di atmosfera: Miguel’s Happy Dance mette in primo piano il classico falsetto del nostro appoggiandolo stavolta su complicati zigzag strumentali che pure Bruner riesce a rendere umani, troppo umani col solo potere di liriche stravaganti ma mai meno che sincere; How Sway rappresenta un velocissimo divertissement, uno showcase di basso che cerca di inseguire l’estetica delle soundtrack 8-bit dei tanto adorati videogiochi, cui segue il disco-funk di Funny Thing e la peculiare Overseas, brano fortemente autoironico su un corteggiamento ad alta quota, chiuso da un intervento del comico Zach Fox nei panni di un improbabile pilota di linea, un episodio decisamente nello stile di Drunk. Concluso l’intervallo è l’ora di Dragonball Durag, geniale brano sul desiderio di essere accettati per come si è, funk afro-futurista solido e sfuggente al tempo stesso, nel quale il nostro può cantare un verso come I may be covered in cat hair, but I still smell good senza che sembri assurdo (ascoltare per credere) e che si spegne ancora sul sax di Kamasi Washington, cui seguono gli arpeggi e i vibrafoni di How I Feel, episodio meditativo e quasi interamente strumentale tranne per i pochi versi conclusivi (How I feel/ Is it real?) che introduce alla splendida King of the hill, ballad electro-jazz nella quale la vena soul di Thundercat si incontra con i BADBADNOTGOOD (gruppo strumentale noto per le riletture in chiave jazz di celebri brani hip-hop) e con i beat di Flying Lotus. King of the hill lascia spazio al malinconico tema di Unrequited Love, canzone composta originariamente per la serie anime Carole & Tuesday e incentrata su un amore finito dal quale non si è ancora riusciti a staccarsi, un down-tempo affascinante e cinematico che introduce al vero nocciolo emotivo del disco, quella Fair Chance sulla quale Thundercat e i rapper Ty Dolla $ign e Lil B si dividono strofe e ritornelli per ricordare l’amico scomparso, Mac Miller, in un brano delicato e doloroso sull’accettazione del lutto.
“This song is about Mac [Miller]. When he passed it shook the ground for the artist community. Ty Dolla $ign’s a strong dude and when he heard the song he knew exactly what it should be. I was there when he recorded it. We talked about what it was, and he did what he felt was right to it, and I love what he did” dice Bruner introducendo il brano, che musicalmente si avvale del suo falsetto doloroso sullo splendido inciso, e su cui spicca soprattutto la strofa di Ty Dolla $ign, che con una voce inaspettatamente gonfia di venature soul arricchisce un brano che è soprattutto un’ode sincera dell’amicizia maschile, una manifestazione di fragilità capace di rendere dolorosamente prezioso sia questo episodio che tutto il percorso che ad esso conduce e che culmina nelle due ultime tracce.
E se, come
Bruner canta in Existential Dreads, “I know I’ll be alright”, a chiudere il lavoro è la title-track It is what it is, dove questa bizzarra soul-fusion sposa la chitarra lieve e ricca di sfumature bossa nova del giovanissimo Pedro Martins in un brano che a tratti ricorda alcuni passaggi del Pat Metheny più lieve, una minisuite in cui la voce si spegne in un doloroso Hey, Mac urlato contro e dentro il vuoto, ultima eco umana su cui si avvolgono chitarra e basso nel finale interamente strumentale.
Alla quarta prova solista sulla lunga distanza la maturità del
Thundercat songwriter sembra giunta al suo apice, e si sposa con un’espressività strumentale che già sapevamo essere di un altro pianeta: frullando la consueta ricchezza di collaborazioni, che arricchiscono di colore e qualità queste 15 tracce, e la produzione frenetica e maniacale di Flying Lotus, con la potenza di fuoco della rodatissima macchina soul-jazz-fusion messa in pista da Thundercat coi collaboratori di lunga data (in studio e soprattutto dal vivo) Dennis Hamm (bravissimo a scivolare sopra e attraverso le variazioni armoniche e ritmiche che caratterizzano questi brani) e Justin Brown (dotato di un senso del tempo e di un drumming serrati e affascinanti e che si alterna alla batteria con Ronald Bruner Jr, fratello di Thundercat e già batterista di fiducia di Kamasi Washington), quello che si ottiene è, prevedibilmente, uno degli album più importanti dell’anno, nel quale a sorprendere è soprattutto la capacità di tessere insieme strutture complicatissime e magniloquenti con apparente semplicità, in un unico flusso naturale e irresistibile. E anche se forse, come Bruner stesso canta, il dolore resta Too hard to get over it, quello che si può imparare alla fine di questi 37 minuti di bizzarra musica intimista proveniente da un altro pianeta è che non tutto è fatto per essere compreso, che a volte bisogna riconoscere di non poter cambiare alcune cose, ma che non per questo ha meno senso continuare a lottare, anche fosse soltanto per imparare ad accettarle.


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