Watch the world collapse: il nuovo millennio e vent’anni di Kid A (Radiohead, 2000)

La prima volta che ho ascoltato Kid A nella sua interezza, lo scrivo con un certo beneficio d’inventario, doveva essere il 3 maggio del 2003: in ritardo, come da consuetudine, giusto di un paio di annetti e mezzo. Mentre avevo tutta una serie di mirabili ricordi di primissima adolescenza legati a Ok Computer, nel senso che ricordavo perfettamente di aver visto infinite volte il video di Karma Police in TV durante l’estate del 1997, di Kid A non avevo alcun ricordo legato al tempo della sua uscita: allora non ero un consumatore di musica compulsivo come oggi, e nemmeno un musicista, e poi Kid A era tutta un’altra storia, a partire dai metodi promozionali scelti per accompagnarne l’uscita (niente video, solo i celeberrimi blips, piccoli frammenti di pochi secondi, che troverete in fondo a questo post). La prima cosa che ricordavo del periodo attorno ai 2000 di quella che sarebbe diventata presto la mia band preferita era il video di Pyramid Song, che in realtà veniva dall’album gemello di Kid A, Amnesiac (uscito una manciata di mesi dopo, attorno alla data del mio compleanno), ed è quindi un ricordo che risale al 2001: il ricordo di un video assurdo, metafisico (e metaforico), che accompagnava una musica alle mie orecchie ancora più assurda, anzi, quasi inintelligibile. Ricordo benissimo che, avendo fresco in mente il “rock del futuro” di Karma Police, quella “roba” mi sembrava inascoltabile, scarnificata, una specie di ologramma, impalpabile: ricordo distintamente di averlo pensato, un giorno, mentre cercavo di capire qualcosa di quel video e di quella musica e poi sceglievo, con la coda tra le gambe, di cambiare canale. Quando infine inserii il CD di Kid A dentro il mio piccolo stereo, nella camera che era il centro del mio mondo, le incomprensioni non erano ancora finite: passai i primi minuti a domandarmi se il CD funzionasse, perché quelle strane pulsazioni che scandivano i primi due brani avevano un suono talmente inconsueto, alle mie orecchie di ascoltatore poco ricercato, da sembrare un difetto di riproduzione. Forse il CD era danneggiato? In effetti, aprendone la custodia mentre uscivo dal mio negozio di dischi preferito, subito dopo l’acquisto, il dischetto mi scivolò di mano e andò a schiantarsi sull’asfalto. Il dubbio mi parve legittimo, sul momento. Però successe subito qualcosa di magico, che non mi era capitato quando, vedendo il video di Pyramid Song senza saper prestare la giusta attenzione, scelsi di cambiare canale: stavolta scelsi di andare avanti. C’era qualcosa, in quei suoni strani, qualcosa che non avevo mai ascoltato prima e che, in maniera magnetica, aveva cominciato ad attrarmi dal primo istante: ricordo bene di aver ascoltato il disco per almeno tre-quattro volte di fila solo nel primo pomeriggio, chiuso in camera e seduto sul letto, senza neppure riuscire a mettermi comodo. Lo ascoltavo, sfogliavo i libretti contenuti nel CD (compreso quello nascosto sotto il tray nero) e lo riascoltavo, e avevo già capito che stavo ascoltando qualcosa che, almeno per me in prima persona, come musicista in erba e come essere umano, avrebbe cambiato un po’ tutta la faccenda. Di Kid A, a vent’anni dalla sua uscita, sappiamo ormai più o meno tutto, che è come dire che non ne sappiamo niente: è un disco che ha davvero segnato uno spartiacque, una fuga in avanti mai più replicata, un sound che ha improvvisamente fatto apparire antico anche tutto ciò che, fino a soli tre anni prima, sembrava essere il futuro del rock (penso ancora a Ok Computer e alle sue miriadi di imitatori, più o meno consapevoli); ma anche una promessa non mantenuta, come in questi giorni qualcuno ha scritto, come tutte le cose belle una promessa di felicità alla quale non è mai stato dato un seguito degno, l’indicazione di una strada che nessuno, Radiohead a parte (e non sempre con la stessa convinzione), ha avuto la forza di percorrere fino in fondo; più probabilmente, l’attestazione che quanto fatto prima non poteva bastare, che non erano più sufficienti tre chitarre, un basso, una batteria, i muri di suono, il rock e le sue distorsioni, il riconoscimento che c’era molto d’altro e molto di più, strade meno battute, idee ancora da esplorare, ispirazioni da seguire. Quando in meno di dieci anni di carriera tiri fuori un brano come Creep, suo malgrado inno generazionale, un disco come The Bends (che spinge il mondo a gridare ai nuovi U2) e un capolavoro assoluto come Ok Computer, ti viene da chiederti come trascorrerai il resto dei tuoi giorni: non è una sorpresa che Thom Yorke, Jonny Greenwood, Colin Greenwood, Ed O’Brien e Phil Selway siano rimasti al palo per un po’, incapaci di decidere come andare avanti. Crisi di rigetto: la tua casa discografica, il tuo pubblico, un potenziale pubblico ancora più enorme, forse perfino te stesso, il tuo spirito di autoconservazione, tutti sembrano chiederti di continuare a suonare la stessa musica per sempre, ancora e ancora, ma tu non vuoi cedere a questa prospettiva. Si sa che le sessioni di registrazione di Kid A furono un autentico parto, che ebbe come di consueto il suo maieuta nel sapiente Nigel Goldrich, e che le animosità tra i membri della band si appianarono solo quando una direzione di approdo divenne infine chiara: quel che resta oggi è un album che è davvero, letteralmente, senza tempo, nel quale ogni tassello va infine al suo posto, che si tratti delle nevrosi di Yorke, delle sue ossessioni e della sua ricerca musicale, del nuovo ruolo che Jonny Greenwood riesce a ritagliarsi, i primi barlumi di quella passione profonda per l’orchestrazione e la composizione che lo porteranno negli anni seguenti a divenire un acclamato compositore (ad esempio, di colonne sonore per il cinema), o anche delle posizioni non meno importanti degli altri musicisti (basti pensare alla parabola di Ed O’Brien, l’altro chitarrista, quello spesso accusato di essere il più conservatore del quintetto, quello additato come il più contrario alla “svolta”, e proprio quello che ancora oggi (parole sue) tende a gravitare pesantemente, spesso e volentieri, attorno al materiale che ha dato forma a questo album, e al ruolo “atmosferico” che in questo disco e nei successivi ha saputo rivestire). Alla fine, come Yorke non manca mai di ricordare, Kid A è figlio degli ascolti e delle letture che la band faceva al tempo della sua composizione: dall’elettronica al jazz, dalla musica contemporanea a No Logo di Naomi Klein. Non credo abbia molto senso dire di più, sicuramente in giro potrete trovare recensioni/analisi/post-scriptum molto più interessanti e documentati a riguardo di questo disco. Spendo due parole per sottolineare, benché sia immediatamente chiaro a tutti, che qui si parla di un’oggetto d’arte che va oltre il semplice album musicale: Kid A è un medium completo (e complesso) in cui l’arte grafica e visiva (il monumentale artwork realizzato da Stanley Donwood con il contributo di Tchock, pseudonimo dietro il quale si nasconde lo stesso Yorke: le immagini che accompagnano questo post provengono proprio dal sito di Donwood, visitabile qui) sposa la sperimentazione musicale più ardita, e contribuisce a definire l’atmosfera della musica (si pensi solo alla prima di copertina, quelle montagne gelide stagliate su sfondo nero, fuochi sputati fuori dalle cime, la parte bassa della tavola increspata di difetti e pixel). Racconta lo stesso Donwood che l’ispirazione principale per l’artwork di Kid A venne da alcune foto di un reportage della guerra del Kosovo, deflagrata l’anno precedente (1999): On the front is a photograph. It’s taken looking straight down at the ground, and the image is of perhaps a square meter of snow. The snow is spattered with blood, engine oil, marked with bootprints, studded with cigarette ends. Un’immagine di fine del mondo, esattamente quell’atmosfera apocalittica che si respira entrando dentro questo oggetto d’arte: in qualche modo, Kid A definisce e dà forma a un’idea di futuro, e lo fa sia da un punto di vista musicale che artistico in senso più ampio. Come si può leggere in questo interessante commento, the legacy of Kid A is as an act of art that didn’t just reflect its age, but helped to shape the future, which is something you can say for its visual elements as much as the music: il discorso sarebbe ampio e stimolante, faccio copia e incolla perché non saprei dirlo meglio in uno spazio ridotto ma vi rimando senza indugi a quel breve scritto.
Personalmente, mi limito a dire che considero
Kid A un capolavoro di rock futuristico, un disco che sembra composto e uscito l’altro ieri, non certo vent’anni fa: un contenitore di suggestioni che spaziano dal krautrock al jazz, dalla musica classica contemporanea alla musica elettronica, in cui il peso specifico una volta dovuto alle chitarre viene invece sostenuto da sintetizzatori, drum machine, onde martenot e sezioni orchestrali di fiati ed archi. Qualcosa di completamente diverso, allora come oggi: un percorso musicale e ideologico attraverso un mondo in fiamme, un futuro impedito, sogni in frantumi, solitudini e abbandoni esistenziali. Il bambino A forse è il primo bambino clonato, figlio di un mondo ostile, freddo e divorato da tensioni, odio, violenza, controllo: un mondo che corre a testa bassa verso la propria fine, l’autodistruzione, sospeso tra il riscaldamento globale e la crisi del sistema capitalistico. Se dovessi cercare un’analogia con qualche tentativo del passato, a livello di pop music mi viene da pensare che forse qualcosa di simile (se non altro nella noncuranza con cui si sceglie di perseguire una certa direzione artistica, di assecondare il proprio desiderio di sperimentare pur correndo il rischio della rovina artistica/commerciale) lo abbiano fatto davvero soltanto i Talk Talk con il seminale Spirit of Eden, dato alle stampe nel 1988: al pari di Kid A (e del suo seguito, Laughing Stock, ultimo album dei Talk Talk, datato 1991) un altro autentico capolavoro, ovvero qualcosa che non ha ancora finito di dire ciò che aveva da dire. Certo, a Mark Hollis & Co. andò parecchio peggio: a Spirit of Eden, come noto, seguì il fiasco commerciale e il divorzio dalla casa discografia (la EMI) con annessa citazione in giudizio della band per danni. I tempi non erano probabilmente maturi, specialmente se consideriamo come invece l’azzardo di Kid A, pur avendo fatto storcere il naso a molti fan della prima ora, e avendo disorientato e sconvolto anche tutti gli altri, finì alla fine per ripagare completamente la band (e la stessa EMI) con le vendite e il successo discografico: non male per qualcosa di così pesantemente anti-commerciale (almeno nelle premesse). Se vogliamo puntare più in alto, il coraggio con cui Yorke e soci fanno saltare il banco rimanda alla memoria quello di Miles Davis al momento di incidere Bitches Brew ibridando jazz, rock e funk e facendo incazzare praticamente tutti i puristi. Non la tiro per le lunghe, ma considero Kid A uno degli album più preziosi della mia intera vita, e nella lista di questi lavori preziosi non ci sono tantissimi altri dischi pop (perché sì, Kid A è un disco pop a tutti gli effetti): un album profondo, ricco, densissimo, pieno di chiavi di lettura, di elementi stranianti, di possibili interpretazioni, un caleidoscopio di significati che lo rendono ancora tremendamente attuale.
Il synth fluido di
Everything in its right place disegna gli spazi diseguali e affascinanti di quello che è uno dei migliori opening di sempre, scandito da una percussione elettronica costante a marcare gli ottavi e su cui si incastra uno testi più surreali e azzeccati mai scritti da Yorke (Yesterday I woke up sucking on a lemon, ma anche There are two colors in my head/ What is that you tried to say), prodotto più evidente del cut-up adottato come tecnica primaria di scrittura proprio durante la lavorazione di questo disco: il synth allarga lo spazio stereofonico, lo rende fluido, e Everything in its right place sembra penetrare in ogni anfratto dell’anima, una lenta e magnetica percolazione di suoni. La titletrack, Kid A, è una ninnananna che scende sulla Terra dagli spazi siderali, un frammento alieno fatto di voci spettrali filtrate dall’ondes martenot e drum machine geometriche presto sovrapposte alla batteria acustica: qui Yorke è un po’ come un pifferaio magico che ti porta con sé, lontano lontano. Ogni pausa, ogni accelerazione e ogni ripartenza fanno parte di un unico flusso, oscuro e magmatico, che inizia con l’opening e ingoia tutto in questo maelstrom densissimo e, al tempo stesso, magicamente delicato, fuori dal tempo, a tratti quasi tenero, che si spegne in un pianto sintetico e raggelante. Il tono è drasticamente diverso in The National Anthem, una cavalcata di evidente discendenza kraut-rock dominata dal basso distorto e da una batteria tagliata, secca e ossessiva, e accarezzata dall’ondes martenot di Greenwood: il tema è la paura, l’unico inno nazionale, l’unica bandiera sotto la quale l’umanità tramortita di inizio millennio (ma è vero ancora oggi, nella nostra contemporaneità) sembra potersi riunire. A sconquassare ancora di più il tutto giunge un’inquietante sezione di fiati che scandisce una marcia di un jazz oscuro, il cui incedere violento e fragoroso sembra travolgere tutto il resto. How to disappear completely resuscita poche (spettrali) chitarre e le avvolge dentro un gomitolo di linee sospese annodate ancora al sinuoso ondes martenot di Greenwood, il tutto tenuto insieme da una salmodia sulla solitudine, l’incomprensione e l’incomunicabilità che ancora oggi vale poeticamente assai più di mille testi specialistici sull’argomento (Strobe lights and blown speakers/ Fireworks and hurricanes/ I’m not here/ I’m not here/ This isn’t happening): un’onda di marea innalzata dalla sezione d’archi, diretta dallo stesso Jonny Greenwood, domina la parte conclusiva del brano, un esempio di orchestrazione post-rock capace di precipitare il disco in una sospensione magica, che segue il gorgo fragoroso e rumorista di The National Anthem e prelude allo strumentale Treefingers. Qui la chitarra filtrata di Ed O’Brien dipinge un quadro astratto di puro ambient, lontano anni luce dalla forma canzone (finora mai davvero lambita, se non in parte nel saliscendi emotivo di How to disappear completely): una scena naturalistica che sembra baciata da aperture di luminosità abbacinante quasi turneriane, nella quale tutto è fluido, liquido, e sembra scivolare via dalle mani, una musica potente, immanente eppure, allo stesso tempo, eterea, come destinata a dissolversi. La cesura nella tracklist, praticata da Treefingers, si ricompone in Optimistic, che volendo parlare di forma canzone è probabilmente il brano che ci va più vicino lungo l’intero Kid A (assai più della già citata How to disappear completely, maggiormente legata a una dimensione orchestrale, quasi più una composizione classica di stampo contemporaneo che non un “semplice” brano pop): di sicuro, tuttavia, anche le ritmiche serrate e le liriche di Optimistic hanno poco di radiofonico e amichevole, un po’ come il mondo che descrivono (Dinosaurs are roaming the Earth), nel quale nient’altro si può sperare se non accontentarsi di aver fatto del proprio meglio (You can try the best you can/ You can try the best you can/ The best you can is good enough). Optimistic si chiude su una breve coda strumentale che flirta con il jazz-rock, quasi il positivo rispetto al negativo su cui è impresso il brano, e lascia spazio a un altro inconsueto e avvolgente pezzo elettronico, In Limbo. Qui si compie la definitiva trasformazione: le chitarre diventano strani singulti sintetici, gli arpeggi gorghi che inghiottono ogni cosa, e il suono fluido e stratificato, su cui si stampano echi di una batteria che fu, fa di questo brano un’assurda ambient-pop song. Qui le melodie sembrano cercare di trascinarsi a galla nei ritornelli, come a riprender fiato, prima di precipitare ancora sotto le onde e venire inghiottite nel mare aperto (d’altronde, come canta Yorke, I’m lost at sea/ Don’t bother me/ I’ve lost my way). Una volta compiuto il suo destino, della pop song non resta che lo scheletro: ed ecco comparire la canzone nuova, che assume le sembianze e l’ossatura ritmica definitivamente elettronica di Idioteque. Qui tutto è desertico: la strumentazione tradizionale è svanita, inghiottita dal gorgo sonoro che avvolge il finale di In Limbo, e quel che resta è una batteria elettronica sconquassante e una pioggia di sintetizzatori modulari e campioni, manipolati da Jonny Greenwood, sui quali la voce di Yorke si inerpica in un grido di disperazione per la fine del mondo imminente (Who’s in a bunker?/ Women and children first […] Ice age coming/ Ice age coming/ Throw it in the fire). La lucida follia del testo incarna alla perfezione la lucida follia in cui, lentamente, stava precipitando (ed ha continuato a precipitare per tutti questi anni) il nostro mondo: ho sempre pensato a Idioteque come alla colonna sonora della fine del mondo, con quel suono liquido che la riavvolge su se stessa e la taglia a metà attorno ai 3:10 che è ancora (probabilmente) il singolo suono più bello che abbia mai sentito. Alla fine del mondo segue la decomposizione del quadro familiare e di tutti i rapporti e le relazioni personali messa in scena con Morning Bell (Cut the kids in half/ A glass, a gun, a bullet for us will make/ Everybody wants to be a friend and nobody wants to be a slave), basso, batteria elettronica, synth e un oceano di dolore che travolge con la potenza di un nuovo maelstrom: ormai non c’è più niente della canzone classicamente intesa, solo lo spettro di un brano, il suo scheletro (com’era per Idioteque), e l’oscura matassa che si dipana nel finale di Morning Bell suona ancora più angosciante e oscura alla luce di tutto il percorso fatto per arrivarci. Eppure a chiudere i giochi arriva un lampo di luce: lo regala l’organo melodrammatico di Motion Picture Soundtrack, impreziosito dal corollario della straniante cascata di note pizzicate da un’arpa. L’immagine è quella di un coma indotto dall’abuso di farmaci (Red wine and sleeping pills/ Help me get back to your arms/ Cheap sex and sad films/ Help me get where I belong): in un quadro di solitudine e depressione desolanti e disarmanti, Yorke tiene le fila di uno dei suoi testi più dolci, centrato su un amore perduto (Stop sending letters/ Letters always get burned/ It’s not like the movies/ They fed us on little white lies). Mentre guidi su viale XI Agosto dritto dentro la notte con questo brano nell’autoradio ti viene da pensare che, come scriveva Nietzsche, ci sia sempre un po’ di follia nell’amore, ma che ci sia anche sempre un po’ di ragione nella follia: e se è vero che I think you’re crazy, maybe (e chi non lo è?) alla fine resta la speranza di potersi incontrare ancora, dopo la tempesta e la fine del mondo, al di là dell’orizzonte. Il brano si chiude così su un ultimo verso intriso di speranza (I will see you in the next life), e Motion Picture Soundtrack si spegne come si spegne un sogno, delicatamente, avvolto dal buio, e dopo un po’ c’è un’ultima esplosione di puro suono, quella che mi è sempre piaciuto pensare rappresentasse una sorta di alba del mondo: gli occhi che si riaprono, la luce accecante, un risveglio. Un suono puro che mi fa spesso tornare alla mente un verso meraviglioso di Peter Handke, che recità più o meno “il verbo adatto alla gioia: cominciare”, e se pensate che sia paradossale che un verbo del genere, “cominciare”, si possa usare per il momento conclusivo di un’opera, questo significa che Kid A non lo avete mai davvero compreso.

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