"Alles Wieder Offen", Einstürzende Neubauten


Ich hab’ das mit dem draussen erst einmal gekippt/ sein und sein gelassen./ Ich setz mich aufrecht./ Ich räuspere den Schleim nach oben, bis ich ihn zu fassen kriege./ Mit zwei Fingern ziehe ich seinen Faden aus meiner Kehle, meinem Körper./ Daran hängen wie an einem Glückskettchen:/ ein Herz, meine Liebe, eine Flasche, ein Haus, eine Münze, ein Hufeisen,/ eine Sechs, eine Sieben, ein Kleeblatt, ein Fisch, ein Würfel, eine 13,/ eine Glocke, ein Schloss, ein Schlüssel, ein Hammer, ein Stern, der Mond, die Sonne/ und ganz zum Schluss dann eine Putzbürste deren Borsten noch/ die letzten Reste, ein paar Klümpchen, mit nach draussen holen./ Endlich sauber. Endlich leer.

trad. Per ora ho annullato l’idea di “là fuori”/ essere e lasciar essere./ Siedo in posizione verticale./ Raschio il muco verso l’alto finché non posso tenerlo stretto/ con due dita tiro via il filo fuori dalla mia gola, fuori dal mio corpo./ Appesi al filo come monili affascinanti ad un bracciale vedo/ un cuore, il mio amore, una bottiglia, una casa, una moneta, un ferro di cavallo,/ un sei, un sette, un trifoglio, un pesce, un dado, un tredici,/ una campana, un lucchetto, una chiave, un martello, una stella, la luna, il sole/ e alla fine un pennello dalle cui stole /estrarre i resti, l’ultimo paio di grumi./ Pulito infine. Infine vuoto.

(da Unvollständigkeit, in una mia traduzione un pò zoppicante da autodidatta)

Il collettivo berlinese degli Einstürzende Neubauten, guidato dal genio di Blixa Bargeld, continua a macinare musica ed avanguardia dai lontani anni ’80: tanto tempo è passato dai capolavori degli esordi, eppure sembra che gli Einstürzende Neubauten siano rimasti sempre gli stessi, pur nell’inevitabile ed auspicabile processo di crescita che ci accomuna tutti, processo cui i nostri non si sono certo sottratti, mantenendo però, a differenza di tanti altri gruppi andati “ammosciandosi”, un invidiabile forza espressiva, a tratti sconfinante ancora oggi nella violenza sonora inaudita dei primi lavori. Questo Alles Wieder Offen è solo l’ultimo passo, l’ultima pietra con la quale Blixa e soci lastricano il proprio cammino: un album raffinato (ma in senso positivo) ed elegante, in costante equilibrio tra forma canzone sempre più stravolta e rumore, echi del vecchio sound industrial e dadaismo ed avanguardia, il tutto mixato e ricomposto con una classe ed un gusto che al giorno d’oggi non si trovano in giro tanto facilmente, nel quale ogni elemento, dal basso solido e al contempo “immaginifico” di Hacke alle particolari sonorità della chitarra di Jochen Arbeit alle percussioni metalliche ed insolite proposte da N.U. Unruh e Rudolf Moser, concorre a creare un’atmosfera seducente nella propria bizzarria ed eccentricità, come nei momenti più rarefatti e minimalisti, per la voce splendida e declamatoria di un Blixa Bargeld in stato di grazia. Alles Wieder Offen è qualcosa di simile ad un viaggio, che però paradossalmente inizi dalla propria conclusione: Die Wellen (il video non è granchè…) è il pezzo col quale qualunque gruppo normale (leggasi: noioso) chiuderebbe un bel disco, e che invece gli Einstürzende Neubauten usano in apertura, un crescendo demoniaco dove tutto ciò che varia, dall’inizio a basso volume, è in sostanza la “pressione delle dita sui tasti del pianoforte”, che rende percussivo persino il piano, così come la voce e gli altri strumenti, in una deflagrazione finale di potenza inaudita, che sfocia dritta nel sound compassato e minimalista di Nagorny Karabach, uno dei gioielli di questo lavoro, costruito su percussioni “insolite”, suoni simili a soffi sputati fuori da un vecchio motore d’aereo che forniscono il supporto armonico su cui si avvolge un basso che pulsa costantemente con una linea melodica davvero bella, il tutto colorato da pochi azzeccati interventi delle chitarre e delle tastiere, in un intreccio emozionante e di raffinatezza difficile da eguagliare, il canto della solitudine di un uomo che si trova in enclave nel proprio cuore (“in der Enklave meines Herzens”), un’enclave che finisce per somigliare più ad un’exclave, cioè allo sguardo di chi si trovi nell’atto di avvertirsi circondato da un mondo che non sa più riconoscere come proprio, una strana situazione di isolamento sotto chiave fuori dalla prigione, sentirsi intrappolati mentre si è in qualche modo liberi di muoversi e dominare con lo sguardo ampie regioni attorno a sé, almeno apparentemente (chiaramente il riferimento all’enclave, oltreché nel testo, emerge nella scelta del titolo, quel Nagorno-Karabakh che è enclave armena in territorio azero). Con Weil Weil Weil il cammino prosegue nel ritorno alle sonorità industriali, in una danza macabra con una società nella quale “le catene dell’appagamento non sono ancora state rotte, né mai lo saranno” (“Die Kette der Beschwichtigungen ist lückenlos reisst niemals ab”) e che ha saputo sprecare e bruciare tutte le proprie opportunità (“Lass dir nicht von denen raten die ihren Winterspeck der Möglichkeiten längst verbraten haben”), nel quale non resta che lo spazio per l’evidenza di come tutto ciò che sembra di imparare ormai sia soltanto “il parcheggio parallelo” (“Alles was du lernst ist doch nur rückwärts parken”), tutti perfetti automi al volante delle nostre macchine, che appunto nient’altro che macchine sono. “Perché” è la domanda, ma nel contempo sembra dover essere anche il principio della risposta. Ich Hatte Ein Wort è uno splendido ritorno a sonorità meno spigolose di quelle del pezzo precedente, ma la discesa continua nell’attestazione di aver solamente avuto una parola della quale oggi si continua ad ignorare il significato, obliato, perduto, sommerso (“Irgendwer hat die Bedeutung mir verdeckt in einem Winkel ganz weit weg auch noch versteckt Ich hab’ keinen Beweis”), e non ci vuole molto a riconoscere nella “parola” uno dei fulcri di questo lavoro, la ricerca della parola che rivesta di significato il mondo che ci ostiniamo a definire reale e nel quale tutti noi viviamo, senza saperlo afferrare nella sua pienezza: sembra quasi che per Blixa e gli altri le risposte risiedano di nuovo nel linguaggio, e Von Wegen ci vuole raccontare, nel suo inizio gorgogliante che presto esplode in un basso distorto e potente sullo sfondo di rintocchi metallici, le mille strade tortuose nella riconquista della convinzione che “sehnsucht ist die einzige energie”, e cioè che senza un desiderio (anche malato, doloroso) non vi è alcuna possibilità di sollevarsi dalla propria condizione. Interessanti e stranianti i contrappunti pizzicati che si stagliano sul rumorismo complessivo del brano, accompagnando la voce ora suadente, ora oscura, ora aggraziatamente sgraziata di Blixa, guida e menestrello di questa discesa verso il recupero del significato. Let’s do it a Dada, nonostante il titolo inglese, continua ad essere cantata in tedesco: sonorità industriali e dadaismo che piove a fiotti nelle orecchie dell’ascoltatore, anzi, vera e propria esaltazione dello “spostamento del significato” prodotto dall’arte dada, che nel creare nuove e imprevedibili associazioni restituisce potere alla parola riappropriandosi del senso. In fondo il senso dell’arte contemporanea e moderna è quello di essere la bomba che fa esplodere il significato: o no? Splendida la linea di basso che, su un oscuro sfondo percussivo, apre la titletrack Alles Wieder Offen, una canzone che con incedere ipnotico ci dice come tutto sia ancora “aperto”, mentre la conoscenza scorre fuori e ciascuno diviene guscio capace di accogliere l’Altro da sé al proprio interno per nominarlo nuovamente, nella prospettiva di un cambiamento reale, pur con tutti i rischi del caso: ovviamente, il tutto condito musicalmente dal ricorso a sonorità troppo avanguardistiche perché possiate averle sentite altrove, nella ricchezza di un arrangiamento a dir poco sui generis, basato su stratificazioni di suoni percussivi di ogni genere. Unvollständigkeit si stende lenta e minacciosa, carica di quegli echi ambient che già possedeva la vecchia Redukt, a sottolineare un senso di incompletezza che ciascuno essere umano può sperimentare; a poco a poco sentiamo entrare elementi percussivi a sostenere il cantato- parlato di Blixa, dilaniante nella domanda ossessiva sulla natura del rapporto che debba essere intrattenuto con “ciò che sta là fuori” (“Draussen/ es gibt ein draussen/ Aber bin ich noch vollständig genug?”), nella sensazione di mancanza che stringe alla bocca dello stomaco. A poco a poco il rumore cresce a saturare le casse dello stereo, per spegnersi improvvisamente mentre il titolo del brano viene ripetuto intrecciandolo come un mantra, sostenuto da nuovi intrecci ritmici che condurranno ad un nuovo crescendo sul quale la voce enumererà la parte più epifanica dell’intera partitura concettuale dell’album (che trovate tradotta all’inizio di questo post), facendosi di nuovo ritmica a sua volta, per lasciare spazio al rumore e volgendo alla conclusione nella quale Blixa e ciascuno di noi ritorna ad essere solo il proprio guscio (“Ich: meine Hülle”), pronto semplicemente ad accogliere. La successiva Susej (scrittura al contrario di “Jesus”, e rinnovo le mie scuse per i video sempre più strambi…) sembra aprirsi con un sound più compassato salvo lasciar spazio subito a percussioni metalliche e vagamente minacciose e ad una linea di basso ancora una volta azzeccata, con il sottofondo di violini sui quali si arrampica la voce di Blixa; ma, come da viaggio iniziato dalla fine, e quindi svolto al contrario, dal pieno al vuoto, il testo non può che invitarci ad affrontare il percorso al contrario, “fare tutto il lavoro in senso inverso, salire verso il basso da una collina calva come un cranio, attraverso vie e viuzze, e la folla e le masse che possono ritirarsi e tornare nelle case, […] e ciascuno nella propria casa”, un percorso al contrario che almeno a me, fresco di lettura de La Scopa del Sistema di Wallace, non ha potuto non ricordare le numerose antinomie di Wittgenstein citate nel testo dello scrittore americano, e il paradosso che spesso si nasconde nell’aspetto banale che le cose sembrano avere all’osservazione. Il cammino sta giungendo alla conclusione, ovvero al proprio inizio: un suono pulito di arpeggio mentre si resta in attesa, Ich Warte, e mentre squarci improvvisi ci strappano alla magia di un brano d’apertura collocato in chiusura, l’ultima inversione, l’ultimo percorso affrontato al contrario, e mentre suoni ribollono sotto la superficie del lento arpeggio, mentre si attende di non dover attendere più e il volume sale, il rumore si impadronisce del brano, la voce deve alzarsi, ergersi imperiosa e sovrastare questo squarcio aperto “sul bordo del mondo dove anche gli atomi hanno le vertigini”, e dove Ich Warte si spegne in un suono che sembra quello di un’interferenza telefonica, inizio eppure contemporaneamente fine, come lo era Die Wellen, solo, ovviamente, al contrario.
Alles Wieder Offen è un disco circolare, un percorso chiuso (paradossalmente, ma a questo punto non ci stupiamo più di tanto) che racconta di un mondo nel quale tutto è completamente aperto, come un recinto dal quale son fuggiti i buoi: la ricerca del senso e della parola da parte di chi, guardandosi attorno, in un mondo che non insegna altro che la meccanicità alienante della tecnica, non sa trovare pace né riposo in alcun luogo che possa ragionevolmente chiamare casa, è il cammino che tutti gli uomini in qualche modo sono chiamati a compiere, per riappropriarsi, attraverso il potere delle Parole, del mondo che li circonda e, troppo spesso, li sottintende. Questo ultimo (in ordine di tempo) lavoro degli Einstürzende Neubauten si propone, in netta alternativa al mondo musicale odierno, fatto più che altro di singoli e compact disc che somigliano a compilation senza capo né coda, come un unico viaggio con le sue stazioni, da percorrere tutto d’un fiato senza fermarsi, in quanto estrapolare qui equivarrebbe a smarrire la direzione: come ebbe a dire Nietzsche, “Formula della mia felicità: un sì, un no, una linea retta, una meta…”, solo con l’accortezza di sostituire alla linea retta una spirale, laddove la retta può essere solo la freccia del tempo che sa scorrere in un solo verso per tutti noi. Nell’attesa che l’entropia ci soffochi, potrebbe non essere una cattiva idea fare qualcosa per trovare un significato umano alla nostra vita.

Ich warte am Rand der Welt
an dem es selbst Atomen schwindelt
Ich warte direkt am schwarzen Loch
Ich warte warte immernoch
Ich warte unverdrossen
Ich warte auf meiner Eisbergspitze
am Ende der Physik
auf Novemberhitze
und auf Dinge dies nicht gibt
Ich warte warte immer weiter
letztendlich auf Musik

(Attendo sul bordo del mondo
Dove anche gli atomi hanno le vertigini
Attendo alla destra del buco nero
Attendo e attendo ancora
Attendo instancabilmente

Attendo la punta del mio iceberg
Alla fine della Fisica
(Attendo) il calore di novembre
E tutte le cose che non esistono
Attendo, attendo e ancora attendo
(Attendo) infine la musica)

 

Approfondimenti e Riferimenti: i testi dei brani sono tutti quanti reperibili sulla pagina internet ufficiale che la band ha scelto di dedicare al lavoro, con tanto di traduzione in inglese. Qui, qui e qui trovate tre interessanti recensioni, e qui una bella intervista a Blixa Bargeld proprio riguardo ad Alles Wieder Offen. L’unico video ufficiale, tra quelli che vi ho proposto nel post, è quello di Nagorny Karabach: gli altri son tutti “amatoriali”, e a volte non sono granchè. Perdonate, non ho potuto fare di meglio. Buon ascolto, e buona lettura!

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