"Third", Soft Machine

Curioso come un album nato in un momento di crisi e difficoltà per una band le cui individualità stanno prendendo sempre più il sopravvento sul senso di comune appartenenza ad un unicum possa configurarsi come un insuperato momento della loro discografia ma, volendo azzardare, dell’intera storia della musica rock. I Soft Machine registrano nel 1970 un album doppio nel quale ciascuna delle quattro facciate andrà ad essere occupata da altrettante suite, ognuna a firma di uno solo dei tre componenti, per così dire fissi o principali, della band (escludendo il fresco ingresso nell’organico di Dean e dei suoi fiati). L’album prenderà, come di consueto per i Soft Machine, il minimale titolo di Third, venendo a costituire il terzo episodio della discografia del gruppo e decreterà in un colpo solo il superamento di quello stesso genere appena nato e al quale spesso forzatamente (a mio avviso) si vuole far appartenere l’esperienza di questi artisti inglesi, il progressive, presentando una musica che va a porsi in territori prima inesplorati dove si incrociano jazz, melodia più tipicamente rock, avanguardia, piglio dadaista, minimalismo sperimentale, qualcosa di indefinibile ed indefinito. Come detto, una facciata per ogni membro della band: due ne avrà Mike Ratledge, pianista innamorato del minimalismo, una ciascuno Hugh Hopper, bassista pericolosamente attratto dal free- jazz, e il grandissimo Robert Wyatt, batterista e voce, che si ritaglia lo spazio per quello che a tutt’oggi è forse il più grande brano rock mai scritto, territorio libero per i suoi sperimentalismi vocali e per il suo personalissimo gusto per la melodia e la decostruzione giocosa e dadaista della stessa.
Third non lascia fiato, non lascia spazio, è qualcosa di totale e contemporaneamente indefinito, qualcosa che sembra di riuscire a stringere con mano solo per sentirlo sfuggire in continuazione un passetto più avanti, e queste non sono solo parole vuote: inserire il cd nel lettore per credere. Non è musica semplice, è l’esatto contrario, e forse, anche per la prevalenza strumentale (tre brani su quattro sono infatti “solo” strumentali), un oggetto criptico e intriso di difficoltà interpretative.
Il primo movimento di questa enorme sinfonia prende il nome di Facelift (prima parte e seconda parte), e porta la firma di Hugh Hopper: a dominare fin dall’inizio sono i droni del suo fuzz-bass, arricchiti da un ensemble di fiati dichiaratamente di stampo free- jazz ed una sezione ritmica che si giova del timbro jazzy dato da Wyatt in particolare con un curatissimo lavoro sui piatti. Facelift si presenta come un unico tumultuoso sviluppo jazzistico di un tema, che stempera in un eccezionale solo finale, il tutto dilatato magicamente a riempire quasi venti minuti di musica, di mutazione in mutazione, con una fluidità davvero impressionante. Quando si ascolta questo disco è difficile non pensare al sound appena lanciato dal Miles Davis di Bitches Brew, padre di tutta la fusion dei settanta: ma i Soft Machine vanno oltre, divertendosi a sovrapporre e sporcare tutto con rumori, registrazioni velocizzate o rallentate sovrapposte ad altre mandate al contrario ed un gusto tutto proprio per l’avanguardia musicale, che è poi il modo in cui si conclude questa Facelift. Il secondo movimento prende il titolo di Slightly All The Time (prima parte e seconda parte), ed è firmato Mark Ratledge, configurandosi come fusione personalissima di elementi jazz (a partire dalle ritmiche di basso e batteria e dai fiati) con un’impostazione di base minimalista: in sostanza, l’intero brano è costituito della sola cellula ritmica e melodica iniziale, ora accelerata ora rallentata, variata talvolta ritmicamente e talvolta melodicamente, comunque ripetuta per l’intera durata del brano. L’aspetto complessivo di questa suite è quello schizofrenico di un continuo andirivieni su e giù per la stessa figura, e questo è un processo che appartiene in toto alla miglior tradizione dei compositori minimalisti, da Steve Reich a Philip Glass. Un’accelerazione intorno ai sei minuti introduce ad un solo di flauto che coglie di sorpresa l’ascoltatore, e che si staglia per la sua armonica lentezza contro l’infuriare della ritmica imbastita dalla band, un soffio dolce che taglia in due il brano di contro ad una digressione ritmica veramente d’altri tempi che si richiude di nuovo sulla cellula tematica iniziale, ritornando a proporla con le consuete variazioni di velocità, ritmica e melodia. Un tour de force sensazionale, e questo non sarebbe ancora niente se subito dopo il passaggio affidato al flauto di Dobson non si tornasse sui fiati che imbastiscono un fraseggio semplicemente memorabile, a metà tra asprezze solistiche e raffinati rilassamenti melodici, su cui si staglia poi un violino graffiante e psichedelico (per non dire vagamente psicopatico). Resta una pulsazione costante sullo sfondo del brano, che si interrompe bruscamente per attaccare un nuovo nucleo tematico per basso e sax, spazializzato da sonorità elettroniche ed atmosferiche delle tastiere, un notturno del tutto distonico giustapposto all’interno del pezzo, accarezzato dai fiati, come un orizzonte che si chiuda su se stesso in modo dolcemente avvolgente. Da qui il ritorno al tema principale verso la chiusura. E se fin qui quello che leggete vi sembra incredibile, sappiate che la parte migliore deve ancora arrivare, ed è la terza facciata di questo lavoro eccezionale, composizione di Robert Wyatt intitolata Moon in June (prima parte e seconda parte), ancora più incredibile pensando che Dean si rifiutò coi suoi fiati di partecipare alla registrazione e Ratledge e Hopper contribuirono in minima parte: Moon in June si apre come brano per soli organo e batteria, ma quello che subito colpisce è la stratificazione e la geniale costruzione melodica di Wyatt, che da buon menestrello accosta tutta una serie di nuclei melodici assemblando un pezzo talmente folle da apparire, ad un ascolto distratto, del tutto privo di capo e coda. Si resta ancora oggi a bocca aperta di fronte al numero incalcolabile di variazioni melodiche e tematiche che si presentano lungo l’arco brano, il tutto sullo sfondo della fantastica voce di Wyatt. È fin troppo facile chiamare a raduno tutte le pulsioni dell’anima di fronte ad un brano dolente ma contemporaneamente folle, che sembra fatto apposta per parlare a quel nocciolo oscuro che affonda dentro ciascuno di noi. D’altro canto, la destrutturazione melodico/ritmico/armonica di cui questo movimento si nutre è figlia legittima della passione di Wyatt per il dadaismo e lo sperimentalismo più irriverente e, oserei dire, schizofrenico, e la verità è che credo di aver esaurito le parole per questo brano… che è davvero una continua sorpresa, se chi lo ascolta accetta di lasciarsi trasportare altrove. Il potenziale di rottura di Moon in June, che contemporaneamente è il pezzo più melodico in senso tradizionale dell’intero Third, è praticamente sconfinato, laddove disinnesca la musica melodica pop- rock con la sua gravida schizofrenia mescolando, sbattendo, aggiungendo, tagliando, in un ciclo fluido e continuo deprivato del centro. Una lunga, malinconica, dolcissima e violenta discesa, un discorso che per Wyatt è appena cominciato e conduce dritto a Rock Bottom e a quel capolavoro che è Sea Song. Provare per credere. E non siamo nemmeno a metà brano, mentre le invenzioni si succedono tra momenti veloci ed improvvise pause, rumoreggiare, sonorità impossibili, fughe distorte ed aperture melodiche di una bellezza francamente sconvolgente (almeno per chi scrive, per darvi un’idea, provate ad ascoltare intorno al minuto 9.40). Forse l’aggettivo che sto cercando, l’unico possibile per un brano tanto bello, è inarrivabile: di certo Moon in June è un brano struggente e dolce pur nelle sue spigolosità, che stempera presto nel rumore e nel puro suono per chiudersi in un lento e morbido eco di una nuova (un’altra!), e poi di un’altra ancora, linea melodica. Stiamo cadendo in fondo a quello stesso oceano di cui si nutre Sea Song, e nemmeno ce ne rendiamo conto. E dopo alcuni minuti di questo poderoso “feedback” ante-litteram, per così dire radiazione di fondo a testimonianza di un avvenuto big bang musicale, eccoci a Out-Bloody-Rageous (prima parte e seconda parte), una vera e propria odissea compositiva ancora firmata Ratledge, nella quale emerge tutto il minimalismo che il pianista tanto amava unito ad una vena altrove definità cervellotica ma a dir poco geniale: l’intro del brano, nello stile appunto del miglior minimalismo, consta di una serie di linee melodiche tra loro sovrapposte in maniera apparentemente casuale, che prendono a compenetrarsi e mescolarsi sospendendo l’atmosfera in uno spazio senza gravità per lasciar deflagrare di lì a poco, sul tappeto costruito da un serrato crescendo ritmico della band, i fiati di Dean. Imponente l’accompagnamento imbastito da basso e piano sulle spigolose linee disegnate dai fiati, accentato da un lavoro eccelso di Wyatt dietro i tamburi. La verità è che la struttura del brano è talmente ordinata da ingenerare la sensazione, espressa altrove, “come (di) pretendere di far entrare un piolo quadrato in un foro rotondo”: si sente tutto un magma strumentale che spinge per entrare dentro una struttura rigida, che spinge fino quasi a farla saltare, a tagliarla a metà in una sospensione in cui torna l’intro, a tagliarla a metà venendone a sua volta decapitato, mozzato sul più bello, per rientrare in punta di piedi sul piano di Ratledge, a cui si affiancano presto i fiati, decisamente atmosferici, e un basso “visivo” suonato da Hopper sotto un accompagnamento minimale di Wyatt, affidato quasi per intero ai piatti. L’incedere è magico, avvolgente, e finisce per sedurre, tutti gli strumenti vanno a salire in una tensione che, ancora una volta, non riuscirà a forzare la struttura rigida di un brano che è come un’eruzione, effusivo, lento e implacabile, in costante ebollizione e crescendo, mai dominato eppure nell’insieme magicamente racchiuso. Appunto, “un piolo quadrato in un foro rotondo”: l’impressionante ritmica finale chiude ancora nell’eco e nei riverberi che spengono letteralmente il brano nella stessa sovrapposizione minimalista iniziale, rimandando ancora l’esplosione violenta che ci si attende da un momento all’altro, e che non arriverà. Sempre per citare le parole di altri, “un teorema matematico più che un brano di musica, in una sorta di Big Crunch opposto al Big Bang di Moon in June”.
Third è un album complesso, quattro perle lontane anni luce da tutto quello che possiate aver mai ascoltato, e pertanto assolutamente da ascoltare, un album che lascia con l’anima in piena, e non sono solo parole. Provare per credere.

Approfondimenti: qui e qui potete leggere un paio di recensioni autorevoli ed interessanti, che sono servite da riferimento anche per le citazioni contenute in questo mio post. Buona lettura e soprattutto buon ascolto!

Una risposta a “"Third", Soft Machine”

  1. Ciao Hias, ottimo post, come sempre:-) I soft machine rappresentano un punto fermo nell’evoluzione musicale…

    Buona domenica

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