Il funk al tempo della crisi del mercato immobiliare: The Joy of Music, the Job Of Real Estate (Vulfpeck, 2020)

Prima che il 2020 finisca, non si può non ricordare che, pur con tutti gli avvenimenti nefasti che hanno attraversato gli ultimi 12 mesi, quest’anno ci ha comunque regalato il nuovo album dei Vulfpeck. Meglio entrare subito a gamba tesa nella polemica: l’album ha scontentato molti (ebbene sì), e questo soprattutto perché, nella sua seconda parte, si compone principalmente di brani già noti (e spesso già condivisi sul canale YouTube della band) ma mai inseriti nei numerosi EP e LP dati alle stampe dal 2013 ad oggi. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, infine, è stata quella decima traccia “venduta all’asta” (non so se ricordate, ve ne parlammo qua): situazionismo? Critica alla mercificazione della musica? Crisi d’ispirazione e conseguente semplice mancanza di un decimo pezzo da inserire nel lotto? Partirei da qui, ricordando che con i soldi pagati dal management dei pressoché sconosciuti Earthquake Lights (bravini, come dire: si faranno) i Vulfpeck hanno scelto di finanziare una serie di progetti musicali di ambito scolastico, quindi di fare qualcosa per l’educazione, per gli studenti e gli insegnanti, per chi si avvicina alla musica: direi un segnale bello, specialmente in tempi bui come i nostri. Ora già lo so, qualcuno mi dirà: sono musicisti, io compro un disco e voglio ascoltare musica, me ne sbatto della beneficenza. Personalmente non mi è mai piaciuto chi fa discorsi di questo genere (la musica con la musica, il cinema con il cinema, la letteratura con la letteratura: non si fa musica solo con la musica, a tanti farebbe bene ricordarlo): sicuramente questa decisione è stata controversa, eppure ho avuto fin dall’inizio la sensazione che questa soluzione, la donazione dei profitti, fosse il modo perfetto di tenere insieme la critica alla mercificazione dell’oggetto musica e la volontà di tornare alle basi (l’educazione, lo studio, il trasferimento della conoscenza e dell’esperienza ai più giovani). Un cerchio che si chiude, in qualche modo, e Stratton con questa doppia mossa è riuscito 1) a criticare in modo molto situazionista la mercificazione cui il music business riduce il prodotto artistico e 2) a usare queste stesse armi volgendole per così dire “al bene”, andando a contribuire a progetti musicali che, altrimenti, avrebbero avuto molta difficoltà a vedere la luce, progetti che non hanno direttamente a che fare col mercato ma che hanno molto a che fare con la musica intesa come socialità, cultura, collante che tiene assieme le persone. Già questo basterebbe, senza doverci mettere di mezzo un problemino non di poco conto: il 2020 è stato funestato da una pandemia. Chiaramente, per una band, trovarsi in studio in tempi di lockdown, quarantene e distanziamento sociale non è una cosa semplice: immagino che i progetti iniziali per questo The Joy of Music, The Job of Real Estate (JoM/JoRE, da qui in poi) abbiano subito molte modificazioni nel corso di questi mesi, e che abbia infine prevalso la voglia/necessità di dare comunque un lavoro in pasto ai fan entro la fine dell’anno. La scelta è stata quindi quella di affiancare ai brani inediti, a volte chiusi “da remoto” con scambi via Skype, una scelta di brani già noti ma mai sistematizzati in una raccolta (e a volte, è il caso di Santa Baby, molto richiesti dagli stessi fan). Si potrà obiettare che bastava aspettare che il casino passasse, e riprendere da dove si era lasciato: però forse questo non sempre è possibile, una band ha spese, necessità, scadenze da rispettare, e i Vulfpeck (pur con tutta la bellissima anarchia che si respira nel loro modus operandi) non sono da meno. Ho sprecato un fiume di parole per parlare solo di polemiche e, che ci crediate o no, è un argomento che non mi interessa (senza considerare che non credo proprio che i Vulfpeck abbiano bisogno della mia difesa d’ufficio). Parliamo piuttosto di musica: cosa c’è dentro questo ultimo LP di Stratton & co.?
Intanto c’è una brillante rilettura del
Contrappunto n.9 di Johann Sebastian Bach, tratto dalla raccolta Die Kunst der Fuge BWV1080, avviata nel 1740 e rimasta incompiuta per la morte del suo autore, avvenuta nel 1750. Bach Vision Test esordisce con il tipico Vulf intro (ma declinato in minore), ed è accompagnata da un video che permette di visualizzare le varie voci di cui si compone la fuga bachiana, e il loro intrecciarsi: incredibile a dirsi, ma a volte pare che ci sia del funk anche nel contrappunto, e comunque (e non avrei saputo dirlo meglio) si può chiosare col solito geniale commento trovato su YouTube, “Put it in my Bach Pocket”. Se Bach Vision Test è un divertissement (didattico, se vogliamo, ma pur sempre un episodio vagamente camp, cui comunque i nostri non sono nuovi), 3 on E è un singolo che farebbe l’invidia di molti: c’è tutto il motore funk della band, c’è la voce senza limiti dell’impareggiabile Antwaun Stanley, c’è Joe Dart col collo fuori controllo curvo sul suo splendido Music Man Joe Dart Signature Bass (“I can’t believe Joe Dart invented the E note”, scrive qualcuno su YouTube; “the alphabet was so much worse before Joe Dart invented the letter E”, risponde un altro), c’è Woody Goss che suona l’ocarina e il video è un delirio meraviglioso nel quale alle immagini della band in studio si affiancano quelle di Antwaun Stanley e Jack Stratton/Genio delle Tartarughe in collegamento video da quello che sembra a tutti gli effetti il Pianeta Namecc. Manco a dirlo, 3 on E è un pezzo minimalista e al tempo stesso sofisticato, con un groove irresistibile e cantato da una voce di qualità superiore: il più classico e vincente esempio di low volume funky marca Vulfpeck. Test Drive è uno strumentale caratterizzato da un basso fuzzy, con Theo Katzman che suona la chitarra di Cory Wong e Cory Wong che suona la batteria (!!), Joey Dosik al piano e Woody Goss all’organo: un groove assassino, come nella miglior tradizione, cui segue lo strumentale surf-rock di Radio Shack, duetto irresistibile tra la chitarra di Katzman e le tastiere di Goss (anche compositore del brano), mentre Cory Wong si produce in uno dei suoi classici strumming, guidando una sezione ritmica coesa e densissima come sempre (completata da Stratton, Joey Dosik e the Mighty Joe Dart, e ovviamente ti resta il dubbio di come sia possibile che un ripostiglio tanto piccolo possa essere sufficiente a contenere i movimenti incontrollati del collo di quest’ultimo, ma per capire questa dovete guardare il video). Parlerei di Surf-Vulf, se proprio dovessi ascrivere Radio Shack a un genere musicale. LAX è invece una composizione del trio Dosik/Stratton/Ryan Lerman (già membro degli Scary Pocket) cantata da Joey Dosik e per la quale (tanto per cambiare) dovrebbe essere sufficiente un commento che si legge sotto il video di Youtube: “Can’t believe they named an airport after a Vulfpeck song”. Ovviamente, segue risposta a tono: “You’re going to freak out when you hear about Cory Wong”. Qui c’è il piano a quattro mani di Goss e Stratton, il drumming travolgente di Theo (che non è solo un cantante favoloso, ma anche un batterista da paura), l’interplay ad alta pressione di Cory Wong e Joe Dart (che si concede anche il lusso di un po’ di slap qua e là), e il sax alto e la voce del buon Joey Dosik, uno che di assi nella manica ne ha parecchi. Musicalmente, un altro singolone imperniato su un groove trascinante e che canta l’amore ai tempi dei terminal aeroportuali e dei voli transoceanici: qualcosa di incredibilmente contemporaneo e malinconicamente nostalgico al tempo stesso (provate voi a prendere un aereo in tempi di pandemia…). Dopo una prima metà del disco fatta di inediti, registrati e completati acrobaticamente durante il lockdown, i Vulfpeck recuperano una serie di brani che vengono dal passato e che sono uniti da un fil rouge piuttosto evidente: si tratta in ogni caso di canzoni che fanno i conti con ispirazioni e riferimenti del passato, dalla rilettura del classico tema jazz di Poinciana alla riproposizione di Something dei Beatles cantata da Theo Katzman (che non ha mai fatto mistero di amare la band di Sir Paul McCartney e soci). Si comincia proprio con il buon Theo che suona il basso elettrico e guida il coro di voci che intona il tema della popular song Poinciana (scritta da Nat Simon e Buddy Bernier) e rielaborata dal pianista Ahmad Jamal, per arrivare a Eddie Buzzsaw, nella quale il sax alto di Eddie Barbash (già collaboratore di Jon Batiste e della Stay Human band) dà nuova vita allo strumentale (rivisto e rimiscelato a colpi di riverbero) già noto come Vulf Pack; segue la già citata Something, deliziosa rilettura del classicone dei Beatles con la voce splendida di Katzman a duettare coi bassi morbidi di Dart e, soprattutto, con lo shuffle di Sua Maestà Bernard Purdie, probabilmente il “batterista più registrato al mondo” (anche se la statistica è difficile da verificare), più noto per esser stato l’inventore dell’half time shuffle che porta anche il suo nome (Purdie Shuffle), non so se abbiate presente, roba che ha fatto la fortuna di legioni di batteristi (da John Bonham a Jeff Porcaro). Insomma, una leggenda vivente. L’ultimo brano di casa Vulfpeck incluso nel disco è infine Santa Baby, una delle composizioni più amate di Woody Goss, qui al Fender Rhodes, a sua volta rilettura del classico natalizio jazzy portato al (relativo e non scevro da polemiche) successo da Eartha Kitt: un’irresistibile tour de force ritmico/armonico che testimonia per l’ennesima volta il genio quieto e gentile di Goss, un pianista impeccabile e di gran gusto, dimostrando chiaramente la sua importanza per dare una soluzione nel campo dei reali all’equazione complessa rappresentata dai Vulfpeck (mi si passi questo pastiche matematico). Tra l’altro, non va trascurato quanto segnalato nel solito commento trovato su YouTube: “Vulfpeck tends to make Christmas songs that are acceptable to play when its not Christmas”. Scusate se è poco. A chiudere, come già detto, la pietra dello scandalo: Off and Away degli Earthquake Lights. In realtà si tratta di un buon pezzo, con atmosfere da noir (alla James Bond) e una bella sezione di archi che in qualche modo rimanda alla mente qualcosa degli arrangiamenti dei Radiohead (da Life in A Glasshouse alle atmosfere rarefatte di Pyramid Song, fino a una certa Faust Arp). Come dicevo prima, i ragazzi sono in gamba e Off and Away è un bel pezzo, certo ancora molto imbottito di riferimenti ben evidenti, ma nel quale pur tuttavia si respira un bell’equilibrio: il brano ha probabilmente poco a che fare con l’universo Vulfpeck, ma in fondo tutto c’entra e niente c’entra, e non ci sono poi molte band al mondo che farebbero una cosa del genere, quindi tanto di cappello a Stratton per l’idea. Certo, se alla fine quella degli Earthquake Lights risultasse essere la colonna sonora di una pubblicità di un’agenzia immobiliare si potrebbe ben dire che il situazionismo dei Vulfpeck abbia fatto centro per l’ennesima volta!
La cosa veramente sostanziale in merito a questo
JoM/JoRE ha a che fare con la sua consistenza: è un album perfettamente congruente, perfettamente calibrato, in cui la successione dei brani è assolutamente calzante e lascia una forte sensazione di completezza quando si giunge al termine. Tradotto: non sembra affatto un album funestato da un anno di pandemia globale, che ha sicuramente rivoluzionato i piani dei suoi autori, e questo significa che la scelta dei brani da includere non è stata fatta tanto per riempire, ma nel tentativo di dare un senso all’intera storia. In quest’ottica anche il brano degli Earthquake Lights, per quanto distante dal mondo dei Vulfpeck, ha un suo senso posto a chiusura del lavoro, come una specie di camera di decompressione. Ho i miei dubbi che JoM/JoRE possa avere agli occhi della band l’aspetto che tutti loro avrebbero immaginato che avesse: ma d’altronde solo undici mesi fa chi pensava che ci saremmo trovati dentro una situazione come quella che stiamo vivendo? Da parte mia, fatico a non riconoscere in questi brani la colonna sonora di una larga, larghissima fetta di quest’assurdo 2020, e quindi lunga vita a JoM/JoRE e soprattutto lunga vita ai Vulfpeck, in attesa che ci suonino una cover di Off and Away in versione funk (ipotesi il verificarsi della quale mi pare tutt’altro che improbabile).

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