July Round-Up: la fragilità e la notte

Dopo una pausa piuttosto lunga per gli standard recenti di questo blog (legata per lo più a pressanti impegni lavorativi), riprendiamo il discorso interrotto ripartendo dalle cose che ho ascoltato più volentieri nel mese appena trascorso!

L’ep di debutto di Antwaun Stanley (già voce di alcuni dei brani più iconici dei miei amati Vulfpeck) e Tyler Duncan (mente dei The Olllam), scritto a sei mani con il contributo determinante di Theo Katzman (ancora Vulfpeck, ma che ve lo dico a fare?), pesca a piene mani da un sound ’80-oriented che nell’ultimo periodo va piuttosto forte, ma lo fa con una personalità e una qualità di scrittura rare (e che però non sorprendono, dati i nomi in gioco). Oltre al trio già citato, questo Ascension (We call it “Ascension” because life, as Ms. Stanley puts it, is about “going up, growing up, and glowing up.”) si avvale di strumentisti di qualità assoluta, tra i quali spicca al solito l’ineffabile Joe Dart a governare una sezione ritmica impreziosita dal contributo alle percussioni dello stesso Katzman (che è anche, soprattutto, un formidabile batterista), e un’intera sezione di fiati (le trombe di Anthony Stanco, John Douglas e Kris Johnson e il sax tenore di Marcus Elliot) oltre agli archi di Jeremy Kittel. Ma, come già accennato, è la qualità della scrittura, oltre alla profondissima ricchezza del lavoro di produzione di Tyler Duncan, a lasciare letteralmente a bocca aperta.
L’iniziale
Start Sequence è un travolgente gospel riflessivo, che lascia spazio all’R’n’B groovy pieno di tentazioni dance di Speed of Night (con i bassi del buon Joe Dart in grande spolvero); il riff irresistibile di Lost in Translation sposa il pop dei ritornelli con un funk acido e danzereccio, sottolineato dal lavoro dei fiati di Johnson e Douglas. L’intermezzo di archi di What Lies Between prelude a Tightrope, un power-R’n’B notturno e cinematico e al tempo stesso una sinfonia profondamente strutturata di suoni quasi in odore di kosmiche-musik, con la voce magnetica di Stanley a intessere ricami meno wonderiani del solito su una scansione ritmica a dir poco accattivante. Chiude il lavoro la brevissima The Point of Return, un minuto e mezzo di elegante romanticismo tutto costruito sulle armonie vocali di Stanley, quasi un misuratissimo affresco ambient. Sono tante e mutevoli le ispirazioni che Duncan e Stanley hanno messo in pista lungo questi 17 minuti scarsi di musica, dal soul alla dance, da un’elettronica quasi minimale all’R’n’B: la qualità del lavoro è lampante, quasi accecante se si prende in considerazione la cura maniacale del suono, la sua ricchezza e il livello di stratificazione (su YouTube si trovano alcuni video che spiegano nei dettagli il procedimento attraverso il quale Duncan ha ottenuto questo sound, scomponendo i brani nelle loro parti costituenti: ve ne lascio uno qua sotto, ma sono tutti molto interessanti). Che Ascension preluda a un disco completo nel prossimo futuro? Di certo questi sei brani lasciano una gran voglia di ascoltarne ancora, riuscendo nella non facile impresa di restare accessibili senza rinunciare a una robusta dose di spericolate sperimentazioni. Mentre aspettiamo di capire cosa ci riserva il futuro di questo duo, direi che potreste rifarvi le orecchie con questi sei brani, ché male non vi farà.

Un pezzo dei Low che comincia con Somewhere out on the ocean, riecheggiando un po’ quella celebre Over the ocean di qualche anno fa, dà già i brividi solo per questo: e c’è anche affinità concettuale tra questi due brani, che restituiscono l’immagine di un’enormità fredda e distante, al di sopra e oltre la quale poter trovare la forza di affrontare le proprie fragilità e cercare il proprio posto nel mondo. E poi, certo, c’è la lotta tra la melodia, il canto delle voci intrecciate di Alan Sparhawk e Mimi Parker, e il rumorismo chitarristico che abrade la struttura del brano, ammantandola di un’affascinante, distorta violenza. Anche Disappearing, come capita spesso con gli ultimi pezzi dei Low, è nel suo sviluppo un po’ una mini-suite che racchiude in se stessa una potenza sonora piena di suggestioni e allusioni, un esempio lampante di quel minimalismo cui da sempre la band di Duluth è devota, ormai ben più di una semplice cifra stilistica, ma di fatto autentica grammatica, che attraverso la desertificazione del suono permette di suggerire, immaginare e attingere a un orizzonte traboccante di possibilità: That disappearing horizon/ It brings cold comfort to my soul/ An ever-present reminder/ The constant face of the unknown. E niente, lunga vita ai Low.

La notizia è che c’è un nuovo disco di James Blake in arrivo, che si intitolerà Friends That Break Your Heart e vedrà la luce il prossimo 10 settembre. A smorzare l’attesa, il buon James ci regala un singolo di lancio: Say What You Will è un gospel un po’ surreale che inizia con l’applauso scrosciante di una piccola folla, come fosse un’incisione live, snocciola un testo che parla di fragilità umane, tema sempre caro a Blake fin dai tempi di Overgrown (quando affrontare la fama era già diventato un bel problema), e si esaurisce in uno splendido intermezzo per sola voce prima del rientro dell’accompagnamento strumentale, arricchito da una piccola sezione d’archi. Gran voce, ma questa non è una notizia, e ovviamente gran classe (occhio, anzi, orecchio alle belle variazioni armoniche sul finale: la scrittura è, come sempre, di altissimo livello).

Chiudo con due righe che in realtà sono un piccolo, insufficiente ricordo: il 3 luglio del 1999 moriva a Palestrina, sul palco nel bel mezzo di un concerto, Mark Sandman, voce e basso dei Morphine, probabilmente uno dei gruppi più seminali degli anni ’90 del secolo scorso, capaci di condensare blues, rock, grunge, echi di jazz in brani dalle strutture semplici e al tempo stesso esatte, perfettamente bilanciate. Uno scarno trio jazzy-blues, come viene definito altrove: voce e basso (Sandman), sassofono (per lo più) baritono (Dana Colley), batteria (Jerome Deupree prima, Billy Conway dopo), una baritone experience, come amava scherzare proprio Sandman. Nel mese appena trascorso ho avuto modo di riascoltare molte volte The Night, l’ultimo album della band, completato pochi giorni prima della morte di Sandman, e pubblicato postumo da Dreamworks il 1 febbraio del 2000. The Night incornicia quella peculiare baritone experience che erano stati i Morphine lungo la loro intera discografia, e lo fa con la forza di undici brani letteralmente indimenticabili. C’è la poesia esistenzialista della titletrack, The Night, metà fiaba e metà incubo, con Sandman impeccabile crooner romantico e un meraviglioso solo del baritono di Dana Colley a rompere il brano, prima del finale dominato da uno spoken word quasi rap; ci sono gli arrangiamenti ricchissimi di So Many Ways, con la band impegnata ad ampliare la propria gamma sonora e un organo che fa capolino; c’è il sensuale romanticismo della splendida Souvenir (I remember meeting you, we were super low/ Surrounded by thesounds of saxophones/ And I remember being this close, but never alone/ You gave me alittle something to take home), ancora benedetta da uno splendido solo di Colley. Top Floor, Bottom Buzzer accelera il ritmo, flirtando col rock’n’roll nel cantato ma screziata negli interventi acidi dei fiati; c’è lo shuffle sotterraneo, notturno e sussurrato della splendida Like a Mirror, in odor di Tom Waits, e il groove di Good Woman is Hard to Find, in precario equilibrio tra blues e rock; le tentazioni orientali di Rope on Fire, un po’ tè nel deserto e un po’ affresco da gelida notte invernale, e l’inquietudine quasi rumorista di I’m Yours, You’re Mine; le lente e sinuose The Way We Met e Slow Numbers, malinconiche e oscure; e, a chiudere, il folk lieve di Take Me With You, una preghiera cadenzata dai fiati di Colley. I can’t live without you/ Take me with you, take me with you when you go, canta Sandman nell’ultimo ritornello della storia dei Morphine: e The Night è allo stesso tempo un canto del cigno e una promessa di un futuro che non si è mai potuto concretizzare. Il suono di questi 11 brani si allontana coraggiosamente dallo scarno minimalismo degli episodi precedenti, e senza mai fare facili concessioni al pop più innocuo costruisce una strada nuova attraverso un mood sempre oscuro e dolente, ispirato, nebbioso, raccolto in una feroce intimità. Il sound della band di Boston era sempre stato peculiare, proprio in virtù dell’interazione, inedita e avvincente, tra i suoi elementi strumentali costitutivi (basso-sax-batteria) e la splendida voce baritonale di Sandman: la batteria, impegnata a costruite un substrato nervoso, inquieto, spesso fatto di tempi molto veloci e sincopati; il basso fretless a due corde di Sandman, particolarmente dedito allo slide, dal suono caldissimo e profondo, che scava il corpo dei brani senza restare mai banalmente attaccato alla batteria, ma interagendo (come rincorrendosi) con il magmatico fraseggio jazz del sax di Colley, contribuendo a intessere un equilibrio miracoloso e innovativo, allo stesso tempo cupo e malinconicamente sognante. C’è il jazz, certo, e ci sono le radici del blues: ma laddove il jazz trae la cifra più caratteristica del proprio sound dal ricorso all’improvvisazione, qui accade l’esatto opposto. Colley e Sandman lavorano per sottrazione, dovendosi confrontare con l’assenza di un asse ritmico/armonico portante (non ci sono chitarre ritmiche, né tastiere a fare da ossatura principale di questi brani), e sacrificano sovente proprio improvvisazione e dinamismo per dare vita a un suono denso, coeso, un magma oscuro, intenso e doloroso… baritonale, appunto: il lamento etereo degli slide di Sandman che sposa il fraseggio nervoso di Colley e le batterie geometriche di Deupree e Conway per dar luogo a uno dei sound più originali dei disordinati anni ’90. Cala la notte con un doloroso elogio funebre che sa mescolare la tradizione africana, la ballad pianistica, il gospel, l’acidità del free jazz e il calore del blues in un suono che è al contempo antico, quasi ancestrale, e contemporaneo: una profondissima e affascinante liturgia della fragilità, ancora oggi senza eguali nel panorama stantio della cosiddetta musica alternativa.

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