A cosmic homecoming: Home, Before and After (Regina Spektor, 2022)

Come spesso mi capita con gli artisti più svariati, anche di Regina Spektor sapevo molto poco. L’ho incrociata casualmente guardando il suo recente Tiny Desk Concert, e credo si possa dire che sia stato un colpo di fulmine: approfondendo un po’ ho scoperto che in realtà qualcuna delle sue canzoni la conoscevo già, solo che non ero in grado di collegarla ad un nome; e pian piano ho finito per farmi l’idea che si trattasse di un’artista di livello altissimo, cantautrice originale e appassionata, dotata di una scrittura curiosa e zeppa d’inventiva e soprattutto di una voce che ha, francamente, pochi eguali. Recuperare il suo più recente album di studio, Home, Before and After, è stato quindi un passo praticamente obbligato: uscito lo scorso 24 giugno a 6 anni dal lavoro precedente, Remember Us to Life, la cantautrice americana di origini russe non esita a definire questo lavoro come her most “quintessentially New York” album yet. In effetti è così, nonostante (o forse proprio in virtù del fatto che, ma ci arriviamo tra un momento) la stesura del lavoro, condotta nell’infuriare della pandemia da covid-19, sia stata in realtà un affare in due tempi: una fase personale e solitaria, quella della scrittura dei brani, condotta dalla Spektor col suo solo pianoforte all’interno di una chiesa sconsacrata nei dintorni della Grande Mela; e la fase di realizzazione e completamento sonoro, la stesura degli arrangiamenti e l’aggiunta di tutti quei colori che rendono l’album così particolare, svolta dal producer John Congleton nei suoi studi californiani. Due mondi apparentemente distanti che però cooperano in maniera efficace lungo i solchi di questi dieci brani, rivestendo l’immaginazione febbrile della Spektor di sonorità e colori variegati, altrettanto fantastici e fantasiosi, e conferendo ai brani uno spessore e una ricchezza che generano sincero stupore in chi ascolta.
L’opening è affidata al primo singolo estratto,
Becoming All Alone, che decisamente non delude per la scelta dei temi: i protagonisti del racconto sono infatti la città, New York City, e Dio, che si avvicina alla Spektor e le propone di bersi una birra insieme, fornendole un’occasione imperdibile per parlare di solitudine, forse di depressione, sicuramente di una qualche forma acuta di Weltschmerz. Il tema principale di questo brano, fin dal titolo, è probabilmente quello della solitudine nella grande città: accompagnata prima dal solo pianoforte e poi da un pieno orchestrale quasi stordente, Becoming All Alone culmina in una fragilissima, delicata richiesta di aiuto (quello Stay che viene ripetuto nel finale, in un crescendo emotivo di rara potenza), che poi altro non è che la richiesta di una presenza, di una vicinanza, un “restare vicini” fisico e sentimentale. In qualche maniera il gusto per l’elemento divino-barra-mitologico resta intatto anche in Up The Mountain, che è invece un brano molto più difficile da decifrare, una sorta di estravaganza sperimentale che evoca qualche eco della Bjork di Post e un contesto da favole d’altri tempi. Per sottolineare l’esoticità anche all’interno di una tracklist già di per sé piuttosto eterogenea, Congleton sceglie di rivestire il brano con sonorità elettroniche e inquietanti coloriture orchestrali, creando un pastiche sonico sospeso tra kitsch e spericolate sperimentazioni. Se Becoming All Alone parlava di Dio e Up The Mountain aveva elementi divini, questo cerchio tematico sembra chiudersi con One Man’s Prayer, che è una canzone su un uomo che vorrebbe essere un Dio (‘Cause if I won’t get to meet God and I won’t get to be a god/ Then at least, God, let me get loved back by a girl) così da poter disporre liberamente di una donna: quello che inizialmente sembra il racconto di un dolore dovuto alla mancanza d’amore si rivela, nell’ultima strofa, come la storia di una specie di incel, di un uomo incapace di amare e le cui parole sono intrise di odio e misoginia (I just want some girl beneath my feet/ To tell me I’m her king and then beg me for a ring/ And I want her to be afraid of me/ And think that I might leave her and that I will not believe her/ When she says that she loves and cares for me). Ci voleva la scrittura peculiare e affilata della Spektor per farti quasi parteggiare per un personaggio che, alla fine, si rivela essere il villain del racconto. Raindrops è un piccolo gioiello che splende di luce propria e probabilmente uno dei momenti migliori dell’intero album, una piano ballad che scivola elegantemente tra la canzone d’amore (In a town that’s cold and gray/ We will have a sunny day/ Don’t you know that I belong arm in arm with you, baby? ) e, nuovamente, la riflessione esistenziale (Round each corner there’s a chance/ People searching glance to glance/ Moving ‘bout real fast like insects and fish when they’re scared). Questo brano, come la successiva Loveology, non è completamente inedito, essendo stato eseguito dal vivo dalla Spektor per la prima volta nel lontano 2002, circolando da allora piuttosto estensivamente tra i fan in una versione demo ma senza mai trovare posto in un album, per poi essere incluso infine in Home, Before and After. Sugar Man sembra raccontare l’altro lato della storia contenuta in One Man’s Prayer: stavolta il punto di vista è femminile, quello di una donna avvinta ai modi di un uomo, incapace di districarsi (I’m not your doll, I’m not your pet/ But I’m not my own ever since we met), ma che cerca di mettersi in guardia su quello che le accade, consapevole del rischio che sta correndo (In a world of salt, of sweat and tears/ Sometimes you need a little sugar to get through the years […] When they serve the tea, watch the sugar dissolve/ Just don’t go confusing sugar with love). Il brano è strutturato come una pop song orecchiabile e trascinante, eppure conserva un quid misterioso, un’inquietudine che lo attraversa sotterranea e che emerge prepotente proprio dalle righe del testo. La splendida What Might Have Been racconta invece una serie di contrapposizioni su cui si fonda ogni storia e chiaramente anche tutta la nostra vita: inizia come una filastrocca, quasi un gioco condotto con un piglio e una serietà a dir poco teatrali, e culmina dentro un altro, stordente pieno di archi che suggella il verso Everyone loves a story/ About far, far away. E questo far, far away si palesa in Spacetime Fairytale, il brano più lungo (oltre 8 minuti) e ambizioso del lotto: occasione perfetta per una serie di formidabili ruminazioni cosmiche, Spacetime Fairytale tiene insieme digressioni (fanta)scientifiche sul tempo e lo spazio con un tono da favola, quasi in odore di Princess Bride, ed è allo stesso tempo una colossale storia d’amore che travalica lo spazio-tempo (I woke up with you in my head/ Like a melody to sing in bed), mitopoiesi e racconto delle origini (This world began outside of time/ Some days it’s yours, some days it’s mine/ Some days it’s cruel, some days it’s kind/ It just can’t stay the same) e infine addirittura racconto di formazione (Pages burn, but words return/ Just watch the flames and you will learn), Bildungsroman scandito dai continui Keep listening, my son disseminati lungo il testo che danno proprio l’idea del racconto familiare, delle bedtime stories, delle saghe e delle favole narrate prima di andare a dormire. Spacetime Fairytale è tutto questo ma è anche una folle, inattesa suite pop, un brano che tracima dagli argini e travolge l’ascoltatore, costringendolo a dedicargli un attenzione che scollina i canonici tre minuti cui la radiofonia ci ha ormai tristemente abituato. La successiva Coin riprende il tono confidenziale da racconto fantastico che percorre in lungo e in largo tutto il disco, ma riconduce il narrato piuttosto verso la riflessione esistenziale su solitudine umana e (perché no?) depressione: Love is enough/ Of a reason to stay, recita l’ultimo inciso. Una ricerca di senso che trova solo nell’incontro con l’Altro la propria più completa realizzazione. L’adorabile Loveology è il terzo singolo estratto dall’album, ed anche questa (al pari di Raindrops) è una canzone che i fan della Spektor conoscevano e attendevano in un’incisione da un bel po’ di tempo. La Spektor qui veste i panni di un’insegnante di scuola (Sit down, class, open up your textbooks to page 42: peraltro, palese referenza a Guida Galattica per Autostoppisti), e prende le parti dell’incurable humanist evocato nella prima strofa, una persona convinta che i problemi degli uomini possano essere risolti solo dagli uomini, solo dalla bontà degli uomini e non da un dio, da una religione o che altro. Il brano è uno splendido momento piano-voce, scandito nel finale da una lista di parole che terminano per –ology, una sorta di stream of consciousness di fantasie infantili espresse con gioia autentica e irrefrenabile, una collezione di parole che ruotano attorno all’idea dell’amore e del perdono (Love-ology, love-ology, I’m sorry-ology, forgive me-ology/ Love-ology, love-ology, I’m sorry-ology, forgive me-ology), cantate con la voce quasi rotta e un trasporto emotivo di un altro pianeta. La conclusione del viaggio è affidata a un’altra pop-piano-ballad, la bellissima Through a Door: intrisa di nuovo di quell’incurabile umanesimo che scandiva Loveology (If you let your heart go free/ It’ll always come back full home), Through a Door si chiude sulla consapevolezza che ci sarà sempre un posto che potremo chiamare casa come, in questo caso, New York City (Home is where the light’s on/ No matter how long you’ve been gone), dove questo viaggio fantastico finisce così com’era iniziato, camminando lungo le sue strade brulicanti di storie, di uomini e donne e mondi sconosciuti nascosti dentro e oltre ciascuno di noi.
In
Home, Before and After casa è New York, insieme luogo fisico, reale, e sua trasfigurazione; città brulicante di persone e spazio assolutamente intimo, megalopoli e perfetta epitome della solitudine. La città trascende il suo ruolo di puro spazio e diventa pian piano una tela sulla quale la Spektor può lasciare fiorire un racconto: è la prima cosa che riconosciamo nel disco (I went walking home alone/ Past all the bars and corner delis) e l’ultima alla quale torniamo (Home is where the light’s on). Lungo l’album si sviluppa, di fatto, una sorta di racconto fantastico sul tema della Città: che è casa, spazio che accoglie, luogo nel quale si cammina ogni giorno sentendosi sicuri (ancora, il già citato primo verso di Becoming All Alone), spazio di cui si conosce ogni minima variazione e ogni segreto e che pure può improvvisamente diventare il terreno sul quale si accendono la fantasia, l’immaginazione, la digressione; e allora può capitare di incontrare Dio e bersi una birra insieme, ché tanto a lui le offrono volentieri (And we didn’t/ Even have to pay/ ‘Cause God is God/ And he’s revered), o di finire in un giardino sulla cima di un monte in mezzo all’oceano alla ricerca di una risposta, e poi di un’altra e poi di un’altra, incessantemente (non è poi quello che tutti noi facciamo?); può succedere di raccontarsi filastrocche che cercano di dare un senso all’esistenza (Pirates and parrots go together/ Sticks and carrots go together/ Loving and leaving go together/ Lies and believing go together), di fare qualche incontro non proprio bello, magari diventare giustamente guardinghi, ma anche di mettersi in cerca della grande risposta alla grande domanda sulla solitudine, pronti a offrire una monetina a chiunque possa aiutarti (che si tratti di uno sciamano, uno scienziato, un presidente, un bambino e infine della persona che amiamo), proprio come nelle vecchie favole che ci raccontavamo quando eravamo meno cinici; e finanche di trovarsi a riavvolgere il nastro dello spazio-tempo cercando di tirare quei fili che ci tengono legati assieme, seguendone le peripezie, l’intera lunghezza, i nodi in cui si avvolgono tra loro nel tentativo di dipingere un affresco insieme intimo e collettivo, un disegno che possa dare la dimensione del nostro vagare dentro e attraverso la vita, specialmente quando esso appare, come spesso succede, privo di uno scopo, e riuscire così a rendergli giustizia; e infine tornare a casa, dopo aver imparato che la risposta alle tue domande sta a pagina 42 e si chiama per lo più Amore e Perdono, tornare nella tua grande città (In a town that’s cold and gray/ We will have a sunny day: in fondo, Home, Before and After è fin dal titolo un disco di viaggio, nel quale si separano nettamente un prima e un dopo) che è ancora lì che ti aspetta e quelle laggiù sono le luci di casa tua, e ti ricordi bene che Home is where the light’s on. Dentro tutto il realismo magico che riempie queste canzoni l’unica cosa davvero reale siamo noi e gli altri: questo in ultima analisi è quando sembra dirci Regina Spektor con Home, Before and After, che è prima di tutto un formidabile canto della vicinanza umana, dedicato cioè a tutto ciò che ancora ci rende esseri umani. Nell’insieme di queste dieci tracce c’è una Storia, e in questa Storia c’è un profondo, affascinante senso di completezza: essa emerge naturalmente dall’immagine della Città, New York, l’immagine d’apertura, e finisce per avvolgere le orecchie e il cuore dell’ascoltatore in un crescendo di delicate meraviglie, di piccoli e gioiosi misteri buffi, di versi delicati e assurdi, teneri e sopra le righe. Regina Spektor ha una fantasia febbrile, per molti versi davvero bambinesca (in tutte le accezioni positive che riesco a dare a questo termine); ovvero potente, profonda, piena di invenzioni, immaginifica. I suoi versi creano mondi il cui splendore è compito della musica restituire in una forma che sia più che semplice parola, autentica manifestazione fisica, tattile. In Home, Before and After va in scena un colossale collasso del tempo (proprio quella cosa di cui parla Spacetime Fairytale, a ben vedere), nel quale a musica nuova e sperimentale (Up the Mountain) si mescolano naturalmente vecchi brani cui viene data una nuova vita (Raindrops, Loveology), e tutto il disco non è che un inno alla potenza della parola e dell’immaginazione: si tratta di un disco pop, eppure la qualità della scrittura della cantautrice americana è proprio di un’altra categoria, per la forza con cui veicola i propri messaggi e la grazia con la quale riesce a cucire insieme un romanticismo profondo e un gusto tutto personale per la scorribanda infantile, l’invenzione irriverente, il gioco di parole. Un disco di questo tipo poteva esser scritto e suonato soltanto da un grumo vivente di contraddizioni: esule russa in America fin dalla più tenera età, formazione da pianista classica ma in tour come spalla per gli Strokes, magicamente in grado di trasformare una curiosa scansione sillabica di una parola in un’improbabile hit planetaria, la Spektor non è proprio quella che definiresti “una qualunque”, e pur trovandosi a nuotare entro il vasto panorama del pop rock contemporaneo può a buon diritto occupare uno spazio tutto suo, definito e riconoscibile; che, se ci pensate, non è cosa che riesca a tutti. Se a questo aggiungete che, dopo oltre vent’anni di carriera, qualcun altro si sarebbe legittimamente messo l’anima in pace, capirete dove risieda il vero valore di questi dieci brani: che la loro sottile inquietudine, il loro senso di ricerca (e la loro ricerca di senso, mi si perdoni il bisticcio), non si sono mai esauriti, e così è per la loro autrice, che continua coraggiosamente e incessantemente a interrogare la musica e la parola nel tentativo di gettare un ponte tra sé e il mondo, gli Altri, nell’intima convinzione che la meta del viaggio non sia altro che un nuovo punto di partenza, una nuova tela bianca sulla quale continuare a dipingere mondi.

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