Floating across the top of cities contemplating jazz: Aja (Steely Dan, 1977) e The Nightfly (Donald Fagen, 1982)

C’è una storia che ho ascoltato molte volte negli anni e con infinite variazioni, ma che mi venne raccontata per la prima volta da un compagno di studi all’università: narra di un uomo che era ossessionato dall’idea di stampare il primo libro assolutamente privo di qualsivoglia errore o refuso, così da potervi apporre in epigrafe la frase “pubblicato senza errori di stampa”. Manco a dirlo si trattò del lavoro di una vita, uno sforzo pluridecennale per realizzare queste pagine tutte assolutamente corrette, tutte prive di imperfezioni. Dopo aver inseguito il progetto fino alla vecchiaia l’uomo, ormai incanutito, conclude la stampa e rilega il libro. Al momento di aprirlo, però, rimane gelato: in prima pagina campeggia beffarda la scritta “pubblicato senza errori di stompa”. Lasciando da parte l’ironia di fondo, la storia racconta con ironia un’ossessione, quella della perfezione, che, se parliamo di musica pop, ha avuto nella storia due grandissimi profeti, Walter Becker e Donald Fagen, meglio noti con il nome di battaglia di Steely Dan. Se qualcuno nella storia della musica popolare si è davvero mai avvicinato (più volte, tra le altre cose) all’incisione del disco perfetto, quelli sono proprio Becker e Fagen: rissosi, egocentrici, fissatissimi, pignoli e perfezionisti oltre ogni limite consentito (dal buonsenso e dalla convivenza civile con gli altri musicisti), Walter buonanima (Becker si è spento nel 2017, dopo una breve malattia) e Donald non erano proprio quelli che si sarebbe detto “due simpaticoni”, eppure per oltre trent’anni (con qualche pausa), in duo o da soli, hanno scritto, prodotto e realizzato alcune tra le canzoni più raffinate, eleganti e semplicemente belle che la musica americana abbia saputo offrire dall’inizio degli anni settanta. Lo scorso 23 settembre ha marcato il 45esimo anniversario del loro magnum opus come duo, Aja, pubblicato appunto il 23 settembre del 1977; e caso vuole che esattamente quarant’anni fa, il 1 ottobre del 1982, Fagen desse alle stampe il suo primo album solista, il pluricelebrato The Nightfly, altra pietra miliare della musica pop. Due dischi diversi, molto diversi tra loro, che condividono soltanto uno dei due autori (Fagen), ma che sono entrambi diversamente perfetti: opere, queste sì, assolutamente prive della minima indecisione, del minimo calo di tensione, entrambe ancora luccicanti dopo quasi mezzo secolo dalla loro realizzazione, con un suono levigato, sì, ma mai anonimo, mai (assolutamente mai) freddo, animate dalla continua ricerca della perfezione sonora, espressa attraverso una sequenza di accorgimenti tecnici e tic pratici da far tremare le vene e i polsi. Si diceva del perfezionismo: Becker (chitarra e, occasionalmente, basso) e Fagen (voce e tastiere) hanno saputo dare al termine un significato tutto nuovo. Sono leggendari i racconti delle sedute di registrazioni di questi due album (come anche di Gaucho, ultima uscita della prima incarnazione degli Steely Dan, pubblicato nel 1980): decine di musicisti coinvolti, tendenzialmente i migliori turnisti e alcune tra le più luminose stelle del jazz e della musica popolare americana del periodo, e decine di ingegneri del suono, impegnati a manovrare le tecnologie d’incisione più avanzate così da offrire l’esperienza sonora più viva, perfetta e ad “alta fedeltà” che fosse mai stata impressa nei solchi di un disco. Basti pensare che gli audiofili di tutto il mondo nutrono tutt’oggi una giustificatissima adorazione per questi due album: Aja vinse un Grammy come Best Engineered Album, Non-Classical, dopo esser stato nominato anche nelle categorie Album of the Year e Best Pop Performance by a Duo or Group with Vocals; The Nightfly ottenne ben sette nomination ai Grammy senza vincerne alcuno, ma allo stesso tempo raccolse un successo commerciale e un’acclamazione critica senza precedenti, certificato disco di platino sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, ed è tutt’oggi considerato come una delle più grandi incisioni nella storia della musica popolare. Tanto furono mitiche le sessions di Aja da essersi meritate un episodio tematico della serie inglese Classic Albums per tentare di raccontarle; tanto cervellotiche quelle di The Nightfly che, probabilmente, neppure un documentario saprebbe rendere loro giustizia.

Dal punto di vista musicale, niente si può scrivere di Becker e Fagen e della loro produzione che non sia già stato abbondantemente detto, raccontato, sviscerato: i due si incontrarono alla fine degli anni ’60 al Bard College di Annandale-On-Hudson e iniziarono immediatamente a suonare insieme, tentando di affermarsi come songwriters dentro un mercato musicale in prepotente crescita (e quindi con una concorrenza professionale inimmaginabile). Fu l’incontro con Gary Katz, fresco presidente della leggendaria etichetta ABC Records, a cambiare le sorti del duo: Katz portò Becker e Fagen con sé a Los Angeles, assumendoli come autori, e di fatto permettendogli di lavorare alla loro propria musica. Divenne ben presto chiaro a Katz (e non solo a lui) come i due componessero tuttavia musica troppo complessa per i musicisti ai tempi in forza alla ABC: fu quindi proprio il produttore a suggerire a Becker e a Fagen di trovarsi dei propri musicisti e costruire un gruppo che rendesse giustizia alla musica, sofistica e complicatissima, che sapevano comporre: i due presero a prestito il nome della loro band dalle pagine di Naked Lunch di Burroughs, e vide così la luce Can’t Buy a Thrill, il debutto discografico datatp 1972 che conteneva, tra le altre cose, la meravigliosa Reelin’ in the Years; e come si suol dire il resto è storia, progressive defezioni dei musicisti dalla band e inizio dell’era delle decine di turnisti che condusse al capolavoro di Aja comprese. Al momento dell’introduzione della band nella Rock’n’Roll Hall of Fame, avvenuta nel 2001, Rolling Stone definì il duo “the perfect musical antiheroes for the seventies”: in un periodo nel quale la musica popolare tendeva già alla semplificazione (soprattutto ritmica), Fagen e Becker reintrodussero lo swing dentro i canoni del pop, producendo un’opera dai risvolti assolutamente inusitati per la sua epoca. “Wry. Crafty. Cerebral. Acerbic. The perfectionists of Steely Dan made deviously slick music” si legge sul sito della Rock’n’Roll Hall of Fame. Tutto nasceva, musicalmente parlando, dalla comune passione dei due per i grandi protagonisti del Jazz classico, da Duke Ellington a Charles Mingus a Thelonius Monk a Miles Davis, che un giovane Fagen correva spesso a vedere dal vivo negli anni ’60 a Manhattan, con qualche spruzzata del rock americano degli esordi e un prepotente amore per la letteratura beat americana (Ginsberg, Kerouac, Ferlinghetti, appunto Burroughs: anche per questo motivo il titolo di questo post deriva nientepopodimeno che dalla mia adorata Howl di Ginsberg). La musica di Fagen e Becker era fatta di complesse sequenze di accordi, milioni di sostituzioni armoniche, ritmiche non usuali, e composta con un gusto e una raffinatezza assolutamente non comuni nel panorama rock di quei tempi (e, per molti versi, nemmeno dei nostri tempi, sebbene le cose siano oggi molto diverse), insieme a un’inclinazione evidente per la scrittura di testi altrettanto ricchi, suggestivi, pieni di ispirazioni e riferimenti artistici, letterari e politici tali addirittura da confondere o stordire chi (spesso per lontananza culturale o meramente geografica) non sia in grado di coglierne tutti i risvolti: Aja prima, per gli Steely Dan, e The Nightfly dopo, a nome del solo Donald Fagen, rappresentano senza dubbio le punte di diamante di una produzione musicale di qualità altissima, due lavori come già detto assolutamente levigati, perfettamente confezionati e, per ragioni diverse ma in larga parte complementari, ricchi di una profondità assolutamente fuori dal comune.

Like most of the songs Walter [Becker] and I wrote for Steely Dan, “Peg” wasn’t planned out. It emerged from a blues riff I was working on and old movies Walter and I watched over the years. “Peg” began at home in Malibu in 1976. I was fooling around on my little upright piano, trying to figure out ways to arrange a blues like the ones I heard on Blue Note albums by jazz musicians like Horace Silver, that had lots of fascinating chord changes. Eventually, I came up with a riff that had a major-7 feel. Then Walter came over with his guitar. He suggested a chorus and a few other changes. Next, we turned to the lyrics. I had an All About Eve idea. Unlike in the movie, where Bette Davis’s young assistant, Eve, manipulates her way to stardom, the main character in our song is the one with starlet fever. On her way up, she ditched her boyfriend. Imagine that “Peg” takes place at a seedy photo shoot in L.A. in the 1950s. All of the lyrics are from the perspective of the jilted boyfriend, who was still hanging around. The scene is seedy because show business is seedy. Even what most people think are the heights of show business still has the seediness of a vaudeville dressing room. The name we came up with for the starlet was Peg. There’s no hidden meaning. We just wanted a dotted half note for that spot and Peg was short enough to fit with the music. (da un’intervista a Donald Fagen, Wall Street Journal)

Aja testimonia il definitivo raggiungimento dell’equilibrio pop per un duo di autori che erano sempre stati, sostanzialmente, musicisti jazz: un lavoro costato, come detto, mesi e mesi di martirio in studio di registrazione, spesi a lavorare sulla resa sonora perfetta per un accompagnamento di pianoforte, un solo di otto battute o addirittura un singolo suono di rullante o chitarra ritmica; martirio al quale, manco a dirlo, Fagen e Becker erano ben contenti di sottoporsi, nel tentativo di portare a compimento il proprio proposito di realizzare l’album pop perfetto, ma che ovviamente travolse a vario titolo anche le decine di strumentisti (oltre trenta) coinvolti nel progetto, ciascuno dei quali tentò a proprio modo di sopravvivere alla faccenda (chiedere a Chuck Rainey come riuscì ad aggirare l’assurdo divieto di Fagen e Becker di indulgere nello slap nel leggendario ritornello di Peg per credere). Il risultato è però un disco a dir poco perfetto, elegante fin dalla sua raffinatissima copertina, una fotografia dell’artista giapponese Hideki Fujii recante il suggestivo profilo della modella e attrice Sayoko Yamaguchi, avvolta in un kimono nero; un’immagine che si sposa perfettamente col titolo dell’album, Aja (pronunciato proprio come Asia, all’americana; leggenda vuole che il nome Aja sia stato suggerito a Fagen da quello di una donna coreana che aveva sposato il fratello di un suo vecchio compagno di scuola), e che soprattutto vuole esprimere un’esclusiva e idealizzata raffinatezza, fatta di pochi segni disposti in maniera perfettamente bilanciata: una copertina vagamente mistica, si potrebbe quasi dire, ieratica nelle sue linee e nei suoi colori. Ma è il contenuto di questo album a travolgere letteralmente l’ascoltatore: sette tracce che coprono circa quaranta minuti d’ascolto e racchiudono un intero universo di ispirazioni e di idee, esplicitando con portentosa chiarezza tutto un modo di intendere la musica.
Si parte dritti con
Black Cow, che è un funk mid-tempo con ritornello che si appiccica alle orecchie e un lavoro di chitarra del grande Larry Carlton che scava subito un solco nel modo di intendere il sound della sei corde in una produzione pop: non è un caso infatti se proprio il suono di chitarra di Aja sia stato, fin dagli inizi, uno dei più venerati e imitati nell’intera storia della musica popolare, amato visceralmente da musicisti della più varia estrazione. Black Cow racconta di un uomo che mette in discussione la propria relazione con la fidanzata dopo averne passato in rassegna i comportamenti e le abitudini, fine a decidere di uscirne una volta per tutte (Just when it seems so clear/ That it’s over now/ Drink your big black cow/ And get out of here): il titolo trae ispirazione dal nome di un cocktail a base di root beer e gelato flottante, e Black Cow è il perfetto manifesto dell’estetica dell’intero lavoro, col suo sound perfettamente calibrato e la sezione ritmica composta da Chuck Rainey e Paul Humphrey a portare avanti il primo di una serie di groove irresistibili.
La titletrack
Aja è un gioiello che risplende di luce propria: una suite sospesa a metà strada tra la fusion e il progressive-rock, con un testo che è un po’ canzone d’amore e un po’ inno per la musica che ha accompagnato la vita di Fagen e Becker, il be-bop (la chinese music citata nel testo, che era il termine spregiativo con cui i critici stroncavano il be-bop ai tempi della sua esplosione, usando il termine termine “cinese” a indicare qualcosa di confusionario e inconcludente, pur non avendo il be-bop alcuna relazione con la Cina, allo stesso modo in cui il nome Aja non niente a che vedere con l’Asia; i riferimenti al be-bop sono chiari nel verso up on the hill, che si riferisce al Camarillo State Hospital dove venne ricoverato per mesi Charlie Parker, nel tentativo di disintossicarsi dalle sue dipendenze), nella quale si incontrano talmente tante cose bellissime che si farà sicuramente qualche torto nel tentativo di elencarle tutte, visto che è quasi certo che se ne dimenticherà qualcuna. C’è la splendida performance vocale di Fagen, accompagnato per l’occasione da Timothy Schmit degli Eagles; un assolo stratosferico della chitarra di Carlton, che ha tutti i colori della chitarra jazz che si possono riconoscere, faccio un solo nome, nell’opera di Pat Metheny (e nel sound ECM), ma allo stesso tempo è qualcosa di assolutamente diverso; l’intro sospesa suonata da Michael Omartian al pianoforte, il basso incalzante del solito Chuck Rainey, le note snocciolate dal Fender Rhodes di Joe Sample e poi soprattutto Steve Gadd, il cui drumming cambia completamente il brano, dalla rilassatezza iniziale alle devastanti rullate che accompagnano il leggendario solo del sax tenore di Wayne Shorter, una specie di solo nel solo, qualcosa di autenticamente mai sentito in un disco pop. Aja è tutto questo ma è anche una sequenza di atmosfere sempre diverse, concatenate con sapienza dentro una suite di assoluta eleganza, rarefatta nelle sue distensioni tanto quanto nervosa e complessa nelle sue parti strumentali, specialmente verso il già citato finale, dominato dai tamburi di un batterista, Gadd, che è assolutamente di un’altra categoria. Aja è un episodio di romantica infatuazione, evocata dal nome esotico che le presta il titolo: nelle parole dello stesso Fagen, un gioco di specchi dentro l’altro, una canzone “[about the] tranquility that can come of a quiet relationship with a beautiful woman.”
Deacon Blues è un altro di quei momenti di potenza e fascino imperituri: nelle parole di Fagen, “Many people have assumed the song is about a guy in the suburbs who ditches his life to become a musician. In truth, I’m not sure the guy actually achieves his dream. He might not even play the horn.” Di fatto, Deacon Blues è un inno ai perdenti: racconta la storia di un uomo che, romanticamente, vorrebbe poter diventare un grande sassofonista ma finisce per non aver alcun controllo sulla propria vita. Basta il testo della canzone per chiarire quando questo brano sia una celebrazione dedicata a tutti gli underdog, la perfetta parabola del perdente, Learn to work the saxophone/ I, I’ll play just what I feel/ Drink Scotch whisky all night long/ And die behind the wheel/ They got a name for the winners in the world/ I, I want a name when I lose/ They call Alabama the Crimson Tide/ Call me Deacon Blues (sorvolo su quanto sia bella la melodia di questo inciso: correte ad ascoltare la canzone!). In cabina di regia ci sono stavolta l’immortale shuffle di Bernard Purdie e i bassi gestiti in proprio da Walter Becker, con le atmosfere liquide proiettate dal Fender Rhodes di Victor Feldman e dai synth dello stesso Fagen (altra performance vocale di livello assoluto); per il resto, le chitarre di Carlton e Lee Ritenour incorniciano di grappoli di note jazzy la distesa di accordi sulla quale Pete Christlieb disegna un altro indimenticabile solo di sax tenore. Per chiosare con le parole di Becker, “The protagonist in “Deacon Blues” is a triple-L loser—an L-L-L Loser. It’s not so much about a guy who achieves his dream but about a broken dream of a broken man living a broken life.” Insomma, è pop ma è lontano anni luce dallo sterile ottimismo al quale spesso si associa la musica popolare (d’altronde il riferimento al blues nel titolo non è da considerarsi casuale, ma niente lo è in questo disco).
Diciamo che per una band normale basterebbe anche così, e invece qui dopo questo trittico di meraviglie arriva
Peg. Dietro questo inestimabile capolavoro funk, cui si riferisce la citazione posta all’inizio, ci sono il groove inestimabile di Rick Marotta e soprattutto quella che (per chi scrive) è una delle più grandi linee di basso della storia, suonata ancora da Chuck Rainey: la canzone racconta la storia di Peg, un’aspirante attrice, raccontata attraverso lo sguardo ancora innamorato e dolente del ragazzo che Peg ha abbandonato per inseguire i propri sogni di gloria; di nuovo, Fagen e Becker sposano il punto di vista di uno sconfitto. Dentro Peg c’è tutto il meglio del songwriting dei nostri, una distesa di accordi sconfinata, tutti di nona o undicesima con alterazioni di ogni genere, sui quali Chuck Rainey crea quella che, più che una semplice linea di basso, è un’autentica orchestrazione: dal salto di registro memorabile dell’intro all’ingresso nel groove, gestito usando un milione di ghost note e una brillante scelta di note fatta soltanto di terze, quinte e settime, fino all’apoteosi del ritornello, che per gli eventi della sua registrazione è già di per sé leggendario. Qui il buon Chuck, contravvenendo all’esplicita richiesta di Fagen e Becker, decide di slappare: per riuscire nel proprio intento si gira di spalle rispetto alla sala di ripresa, e di nascosto dai due piccatissimi e rissosi band-leader produce un capolavoro di ritmica e inventiva, che conferisce all’inciso il suo sapore irresistibilmente funky. Il resto lo fanno il solo di chitarra di Jay Graydon, che concentra in trenta secondi un capolavoro sospeso tra le distorsioni del rock, le venature del blues e un incredibile fraseggio dal gusto e dalle ispirazioni be-bop (best guitar solo ever? Di sicuro, protagonista di un’altra leggenda: per giorni e giorni, sette musicisti si alternarono su questo assolo senza riuscire mai a convincere gli autori, prima che i due esigentissimi maniaci optassero per Graydon) e il vocione di Michael McDonald, star di prima grandezza all’epoca e oggi completamente dimenticato, a ridoppiare la melodia negli incisi. Un gioiello di gran classe, e una delle cose più belle che potrete mai ascoltare.
Home At Last, forse un riferimento al mito dell’Odissea trapiantato nello sconfinato continente americano (I know this super highway/ This bright familiar sun), si nutre di una raffinata nostalgia nascosta sotto un incedere quasi reggae, prodotto dalla premiata ditta Bernard Purdie- Chuck Rainey, con un sognante solo di chitarra affidato stavolta a Walter Becker sotto le fanfare dei synth di Fagen, e con l’accompagnamento impagabile di Larry Carlton. Home At Last è definitivamente un altro di quegli episodi chitarristici che hanno fatto di Aja un disco di riferimento in termini di suono della chitarra elettrica nell’ambito pop.
I Got The News è un funk up-tempo che inanella una pioggia di delicati accordi di piano dal sapore jazz incastonandoli dentro una serratissima sezione ritmica tenuta insieme ancora da Chuck Rainey e, dietro le pelli, da Ed Greene: un elaboratissimo divertissement che, nelle liner notes redatte da Becker e Fagen, viene descritto come “[…] a Manhattan-jukebox thump-along, serves as a vehicle for the coy pianistics of Victor Feldman whose labors are capriciously undermined by Walter Becker’s odd, Djangoesque guitar and a pointlessly obscene lyric” , una specie di affascinante e divertito terreno di scontro tra il pianismo rilassato di Feldman e i soli di chitarra di Becker e Larry Carlton.
A chiudere l’album c’è l’ultimo gioiello, il funk metropolitano di
Josie: dietro le pelli troviamo una leggenda tra i session drummers americani, Jim Keltner, e poi c’è Chuck Rainey che confeziona un’altra linea di basso epocale, a metà la tra solidità ritmica e lo svolazzo armonico rappresentato dagli slide di bicordi che chiudono ogni giro. Si vola altissimi perché il brano mantiene un tiro pazzesco dall’inizio alla fine, con un groove e un feel dell’altro mondo da parte di tutti i musicisti: c’è un testo, cantato da Fagen, che fa di Josie una canzone d’amore ma a dir poco sardonica (un certo cinismo un po’ intellettuale e il frequente ricorso al sarcasmo sono due delle più tipiche caratteristiche dei versi scritti dai nostri, che ritornano qui come in I Got The News e in un lungo e in largo nella loro produzione); ci sono le chitarre scampanellanti e acidule di Carlton e Dean Parks, e il solo infuocato di Walter Becker, incernierato su un background scomposto e composito delle chitarre e del basso; e le preziose armonie del Fender Rhodes, suonato ancora da un ineffabile Feldman. Josie è un altro di quei brani (ma quale di questi non lo è?) per i quali un musicisti medio sarebbe disposto a pagare, pur di poterli infilare in un album: figuarsi, appunto, inanellarne sette. A metà tra luminoso funk della West Coast e febbrili asprezze rockeggianti e notturne newyorkesi, Josie è un melting pot di ispirazioni racchiuso in quattro minuti e mezzo di Musica con la emme maiuscola, uno di quei brani che non si smetterebbero mai di ascoltare.

Aja è stato un apice difficile da replicare: sarebbe stato difficile per chiunque, eppure anche il successivo Gaucho, pur funestato da una serie di problemi anche personali vissuti dai due artisti (in particolare le dipendenze di Becker, che lo avrebbero spinto di lì a poco a lasciare la band, sciogliendo di fatto il sodalizio con Fagen), si colloca a un livello qualitativo comunque altissimo. Al pari di Aja, Gaucho coinvolse una nutrita schiera di session musicians; e lo stesso modus operandi sarebbe stato sfruttato da Fagen quando, nel 1982, entrò in studio per realizzare il proprio primo album solista, The Nightfly, il primo disco in assoluto ad esser stato concepito senza il contributo del sodale Becker. Le peripezie produttive di The Nightfly, al pari dell’epopea della composizione e registrazione di Aja, meriterebbero un post a parte: determinato a realizzare un album dal suono ancora più spettacolare e definito di quanto ottenuto con le due precedenti fatiche realizzate con gli Steely Dan, Fagen spinse per realizzare The Nightfly con tecniche di registrazione completamente digitali, all’epoca assolutamente all’avanguardia, usando in particolare due registratori digitali 3M l’uno a 32 e l’altro a 4 tracce (e quando stava per stufarsi egli stesso della propria idea, date le miriadi di complicazioni legate alla tecnologia, fu la sua squadriglia di ingegneri del suono a tenere la barra a dritta per portare a casa il risultato). L’uso di questa strumentazione, che era stato fatto in parte anche per Gaucho prima che Fagen e Becker decidessero di lavorare comunque in analogico, era come già detto abbastanza pionieristico per l’epoca: il primo album di musica pop integralmente registrato su un registratore digitale 3M a 32 tracce, Bop ‘Til You Drop di Ry Cooder, risaliva al 1980, appena due anni prima. Per prepararsi all’uso di strumentazione all’epoca assolutamente avanguardistica, i numerosi ingegneri del suono coinvolti sul progetto dovettero seguire una serie di corsi di formazione proposti dalla stessa 3M. Le registrazioni del disco presero otto mesi e coinvolsero oltre trenta musicisti; il mix occupò invece una decina di giorni. Un altro elemento che creò un’infinita serie di difficoltà fu la decisione di Fagen di registrare The Nightfly facendo un uso esclusivo delle sovraincisioni per ogni singola parte (quello che in gergo si chiama overdubbing): mentre Aja e Gaucho, per restare al recente passato, erano frutto di esecuzioni in presa diretta sulle quali si potevano occasionalmente sovraincidere alcuni strumenti o passaggi, per il proprio lavoro solista Fagen decise di lavorare esclusivamente tramite sovraincisione, aggiungendo un’ulteriore scarica di problemi alle difficoltà sorte dall’adozione esclusiva della tecnologia digitale. Tuttavia, il gioco è decisamente valso la candela e il risultato è nelle orecchie di tutti: The Nightfly, anche in forza delle circostanze folli in cui è stato concepito e registrato, ha ancora oggi un suono che stordisce per la sua perfetta risoluzione, per la chiarezza e la ricchezza, per un calore, questo è un vero paradosso, assolutamente analogico e che ne fa fin dalla sua uscita uno degli album preferiti dagli audiofili di tutto il mondo.
Musicalmente parlando,
The Nightfly prosegue sulla scia indicata da Aja e Gaucho ma introduce un elemento autobiografico decisamente assente nell’opera degli Steely Dan, coniugando magistralmente all’esperienza hi-fi dell’ascolto di questa musica, perfetta in ogni suo aspetto “tecnico”, la nostalgica bassa risoluzione offerta dalla memoria e dal ricordo. Come scrive Fagen nelle liner notes dell’album, “Note: The songs on this album represent certain fantasies that might have been entertained by a young man growing up in the remote suburbs of a northeastern city during the late fifties and early sixties, i.e., one of my general height, weight and build.” Nel complesso, The Nightfly ha un suono più tendente al jazz di quello dei lavori con gli Steely Dan, capace però di scivolare rapidamente ed elegantemente verso il funk, il soul, addirittura la samba o comunque le ritmiche latinoamericane, senza mai perdere quel piacevole senso di “malinconia d’autore” che lo pervade: il tono nostalgico e più caldo dei versi si deve probabilmente anche all’assenza del contributo di Becker, portatore, come paroliere, di uno stile più caustico e ironico. Qui è la memoria il fulcro centrale del lavoro, fin dall’immagine di copertina, raffigurante Fagen nelle vesti di un DJ musicale di una stazione radio Jazz, appunto l’incarnazione di The Nightfly:

In his memoir, Eminent Hipsters, Fagen notes that the cover figure “wasn’t supposed to be a stand-in for any particular jazz DJ,” but noted a few personalities from the period that factored into the creation: Ed Beach, Dan Morgenstern, Martin Williams, R.D. Harlan, “Symphony Sid” Torin, and what Fagen regarded as his “main man”, WEVD’s Mort Fega. “He was laid-back, knowledgeable, and forthright, the cool uncle you wished you’d had.” At the time of the album’s release, he remembered that jazz music offered him an escape from the adults in his life: “When I saw ‘E.T.,’ I realized that the E.T. in my bedroom was my Thelonious Monk records. Everything that he represented was totally unworldly in a way, although at the same time, jazz to me seemed more real than the environment in which I was living.”

Un ritorno alle origini, alle passioni che hanno formato il proprio gusto personale e la propria persona. L’estrema levigatezza sonora dell’album, come già accennato, non deve ingannare: c’è un afflato nostalgico, e quindi per sua stessa natura “a bassa risoluzione”, dietro la ritmica simil-reggae che scandisce I.G.Y. e la sua melodia irresistibile, che rimane attaccata all’orecchio dell’ascoltatore; e se il piglio da consumato affabulatore e da chansonnier di Fagen pesca a piene mani dalla tradizione della musica leggera americana degli anni ’50, ibridandola con le sonorità jazz tanto care all’autore, è soprattutto la leggerezza pop a emergere ancora oggi intatta dai solchi, fresca e piacevole proprio come quarant’anni fa. È musica che non si consuma, semplicemente, con una sezione di fiati capitanata da Michael e Randy Brecker, Jeff Porcaro e Anthony Jackson a gestire la ritmica e i pedali bassi e Greg Phillinganes alle tastiere. Il titolo del brano si riferisce all’International Geophysical Year, un evento di promozione scientifica e tecnologica tenutosi dal luglio del 1957 al dicembre del 1958 allo scopo di promuovere la collaborazione internazionale tra gli scienziati: in una sorta di distorsione spazio-temporale (un po’ del tipo “Fagen does the time warp” ), i versi sposano il punto di vista ottimistico degli anni ‘50 relativamente al futuro dell’uomo, immaginato come fatto di città alimentate dall’energia solare, tunnel transatlantici, avveniristiche stazioni spaziali, giacchetti di spandex disponibili per tutti. Insomma, se mi si concede il paragone, lo stesso effetto che fa confrontare oggi il futuro immaginato in 2001 Odissea nello Spazio (realizzato nel 1968) e quello di 2010- L’Anno del Contatto (uscito nel 1984), riconoscendo nelle differenze tra i due film la differente visione dell’avvenire che si era prodotta nella società tra l’ottimismo degli anni ’60 e della crescita economica apparentemente inarrestabile, il periodo d’oro del benessere, e il pessimismo serpeggiante degli anni ’80, che poi erano gli anni plumbei della guerra fredda e gli ultimi rantoli della cortina di ferro (poi vabbè, nel mezzo c’erano stati il cyberpunk e Blade Runner che, in termini di estetica, senza limitarsi soltanto al cinema, avevano cambiato per sempre le carte in tavola): la distorsione spazio-temporale risiede proprio nel fatto che Fagen decide di guardare al passato con gli occhi del passato, rinunciando al cinismo del proprio presente di adulto e privilegiando piuttosto la meraviglia provata da ragazzo (anche se non manca una certa dolente ironia nell’inciso del brano, What a beautiful world this will be/ What a glorious time to be free).
Green Flower Street strizza l’occhio al celebre standard jazz On Green Dolphin Street, proiettato a fama mondiale dal sestetto di Miles Davis nel 1958 (probabilmente dopo che Miles aveva ascoltato la versione del suo adorato Ahmad Jamal, inclusa in Count ‘Em 88 del 1956): la “Green Street” di Fagen, però, trabocca funk e un sound East Coast benedetto dal lavoro di Porcaro dietro le pelli, dalle chitarre del solito, ineffabile Larry Carlton e soprattutto dal basso della vecchia conoscenza Chuck Rainey.
Ruby Baby è rimodellata accuratamente sulla versione originale dei Drifters, pubblicata come singolo nel 1956: nel tentativo di assorbire e riprodurre l’atmosfera musicale degli anni ’50, Fagen si dedicò ad un approfondito ascolto di materiale pubblicato nella decade. Particolarmente complesso fu ricreare in studio l’effetto che Fagen desiderava ascoltare nelle linee di piano suonate da Phillinganes e Michael Omartian, ovvero un “subtle timing differences between the left and right-hand piano parts”. Un risultato eccellente fu ottenuto facendo suonare i due pianisti insieme sulla stessa tastiera. Per il resto, Fagen veste i panni del crooner consumato alla testa di un perfetto brano da ballo Incanto sotto il Mare (chi vuole capire la citazione, la capisca: diciamo, forse non siete ancora pronti per questo, ma ai vostri figli piacerà…) ma che conserva qualche vibe vagamente sarcastica (I’ve got a girl and Ruby is her name/ She don’t love me, but I love her just the same/ Ruby Ruby how I want you/ Like a ghost I’m gonna haunt you/ Ruby Ruby when will you be mine), col basso continuo di Anthony Jackson e il solo di piano di Phillinganes. Al clima da festa nei rampanti anni ‘50 evocato dal brano contribuisce anche la registrazione ambientale di un autentico party tenuto dai musicisti in studio, che si ascolta sul finale.
La ballad
Maxine, che chiude la prima facciata del lavoro, si rifà idealmente alle armonie vocali dei Four Freshman, collettivo di jazz vocale americano attivo dal 1948 nel genere della barbershop vocal harmony: incentrata su una storia d’amore ai tempi delle superiori, è realizzata con una line-up imbottita di fiati e jazzisti tra i quali spicca, oltre ai soliti Michael e Randy Brecker il buon Marcus Miller al basso elettrico (spoiler: Miller suona in tre brani di questo album e non lo si sente mai indulgere nello slap, che insomma sarebbe uno dei pezzi forti della casa. Evidentemente Fagen, dopo l’esperienza con Rainey durante le registrazioni di Aja, si era fatto furbo). Leggenda vuole che il brano sia stato realizzato ripartendo da una traccia di batteria registrata da Ed Greene per un altro pezzo, sul quale il groove del batterista non funzionava proprio, e inizialmente scartata (vedi a volte la casualità…). L’overture in particolare strappa applausi: un chiaro di luna con evidenti inflessioni à la Bill Evans, sul quale si innesta il cantato e l’indimenticabile melodia. Un piccolo gioiello intriso di un romanticismo d’altri tempi.
Ad aprire il lato B di
The Nightfly è il jazz-funk futurista di New Frontier, con Abraham Laboriel al basso: la canzone riprende il tono nostalgico di I.G.Y. unendolo a una vena di rassegnato sarcasmo, immaginando una delicata storia d’amore tra due adolescenti che trovano un insperato punto d’incontro nell’amore per la musica di Dave Brubeck. Il racconto si svolge negli anni ’60, in un rifugio antiatomico: New Frontier contiene infatti fin dal titolo uno scoperto riferimento all’acceptance speech con cui John Fitzgerald Kennedy accettò l’investitura a Presidente degli Stati Uniti, che recitava “We stand today on the edge of a New Frontier—the frontier of the 1960s, the frontier of unknown opportunities and perils, the frontier of unfilled hopes and unfilled threats”. Fagen sceglie di usare l’espressione per designare ironicamente i misteri dell’età adulta, in particolare la scoperta dell’amore e del sesso: Let’s pretend that it’s the real thing/ And stay together all night long/ And when I really get to know you/ We’ll open up the doors and climb into the dawn/ Confess your passion, your secret fear/ Prepare to meet the challenge of the new frontier.
La titletrack
he Nightfly si regge tutta su un irresistibile groove del piano elettrico suonato da Michael Omartian, che quasi causò una guerra di religione in studio: il pianista obiettò fortemente alla richiesta di Fagen di improvvisare di propria sponte la ritmica del brano, seguendo unicamente un click. Questo perché come già accennato The Nightfly fu per lo più frutto di sovraincisioni, e nessuna parte dell’album fu registrata in presa diretta. Aneddoti divertenti (per tutti tranne che per il povero Omartian) a parte, il brano si giova di un miliardo di accordi e una tonnellata di armonizzazioni, ed è complicatissimo armonicamente quanto assolutamente piacevole all’ascolto. Il romanziere americano Arthur Phillips ha definito The Nightfly “[the] portrait of a late-night D.J. in Baton Rouge, taking lunatic phone calls from listeners while silently battling his own loneliness and regret”: il brano sfrutta numerosi topoi della musica blues, dipingendo un affresco insieme nostalgico e crepuscolare. La sezione ritmica composta da Porcaro e Marcus Miller regala un substrato ritmico memorabile, in particolare per quanto concerne i fraseggi del bassista, senza contare la meravigliosa uscita dai ritornelli (Sweet music/ Tonight the night is mine/ Late line ‘til the sun (til’ the sun) comes through the skyline) e lo strepitoso solo disegnato da Larry Carlton, a metà tra il fraseggio tipicamente jazzistico e le asprezze blues-rock un po’ in odore di East Coast.
La bossa con tinte caraibiche di
The Goodbye Look allude al grande successo commerciale raggiunto dalle musiche sudamericane negli anni ’60, ed è un altro episodio di nostalgia retrò con venature da storia di spionaggio, impreziosito dal piano elettrico di Omartian e soprattutto dalla sezione ritmica dei sogni Porcaro/Miller, ancora sugli scudi.
La conclusiva
Walk Between Raindrops è un blues old-style, con un pizzico di ottimismo ’50 portato dallo scampanellio dei synth (gestiti da Fagen e Phillinganes). Steve Jordan e Will Lee sono in carica del groove, c’è spazio per un piccolo, elegante solo d’organo dello stesso Fagen, giusto in tempo per accorgersi che anche questa storia d’amore è in realtà la storia di un uomo che, a conti fatti, si scopre solo: In my dreams I can hear the sound of thunder/ I can see the causeway by the big hotels/ That happy day we’ll find each other on that Florida shore/ You’ll open your umbrella/ And we’ll walk between the raindrops back to your door, canta Fagen nell’ultimo refrain, e quello che capiamo è di essere di fronte, nuovamente, a uno sconfitto (come accadeva in Deacon Blues).

Altrove si è parlato di The Nightfly come del disco che ha consegnato Donald Fagen alla storia della musica nelle vesti del Duke Ellington del pop: è un disco perfetto, scritto negli anni ’80 ma che del tipico suono eighties non ha niente, pieno zeppo di musica che sembra scritta oggi o un’era geologica fa, melodie senza tempo che non invecchiano di un istante, momenti di bellezza autentica. Ed è anche un disco per animali notturni, pensato per tutte quelle nottate insonni trascorse a rimuginare sul passato scivolato via, su un vecchio amore, sulla solitudine, o anche “contemplating jazz” , come avrebbe scritto Ginsberg, consumando una montagna di sigarette proprio come il DJ ritratto in copertina nella sua radio libera a un orario improponibile: un oggetto d’arte in equilibrio perfetto tra le derive strumentali dell’amato jazz e la grammatica asciutta e lineare del pop, fatto di romanticismo mai svenevole, di malinconia mai fine a se stessa, di una raffinatezza che non è vacua esibizione di sé ma ricerca dell’espressione più compiuta del proprio sentimento (che è un sentimento complesso, elaborato, profondo). Sta proprio qui la chiave, per The Nightfly come per Aja: sentirete sempre in giro qualcuno, nelle vesti del “purista” e dell’oltranzista della genuinità, lamentare che si tratti di musica iper-prodotta, super-ricercata, rileccata, asettica e senz’anima. E invece questi dischi un’anima la posseggono eccome, ed è un’anima calda, vitale, piena di malinconie, di memoria, di gusto per il gioco, di ironia, anche di sarcasmo; un’anima piena zeppa di suoni meravigliosi, di sentimenti profondi e di un picaresco, quasi sfrontato gusto dell’azzardo. Queste canzoni, così piene di meravigliose ispirazioni, di sfrenata ambizione, un diluvio di accordi e di soli uno più impressionante dell’altro, in fondo non sono che il racconto di una vita, una collezione di ricordi, un florilegio di emozioni umane, troppo umane, costellate delle storie di mille e uno sconfitti, underdog di varia natura, personaggi per i quali non si può proprio non parteggiare, senza rinunciare a uno sguardo ironico (e a volte anche un po’ cinico) sui casi della vita. Poi sì, gli Steely Dan e il Fagen solista erano dei perfezionisti, anche piuttosto antipatici e saccentelli, dei nerd musicofili in fissa con le montagne di accordi e armonizzazioni del jazz, ossessionati dal portare a casa registrazioni che non fossero mai meno che perfette: solo che loro, a differenza del protagonista della storia che vi raccontavo all’inizio di questa lunghissima analisi, “errori di stompa” non ne hanno davvero mai fatti, e da quasi mezzo secolo le loro canzoni stanno lassù, nell’olimpo della musica popolare, immortali e ineguagliate per valore, intensità, eleganza. Non a caso di The Nightfly si legge in giro che sia “il Dorian Gray del pop: non invecchia mai e non ha mai perso un grammo della sua bellezza” , e degli Steely Dan che sia “impossibile non transitare attraverso la loro produzione, di cui Aja costituisce riconosciuto vertice, per farsi un’idea precisa sul meglio della musica americana del secolo scorso” , e questo unanime consenso non può proprio essere un caso. Provate a riascoltare questi album: a distanza di 45 e 40 anni dalla loro pubblicazione, Aja e The Nightfly suonano ancora magicamente attuali, tanto che potrebbero essere stati scritti ieri. Musica autenticamente senza tempo. In chiusura di una vecchia recensione di The Nightfly, si riportava questa frase: Stephen Thomas Erlewine in the All Music Guide says The Nightfly “covered the same ground” as Fagen’s last two efforts, “yet surpassed it in terms of ambition and achievement.” That’d be flattery for any artist, but for Fagen, those two efforts were Steely Dan’s Aja and Gaucho. High praise, indeed. Direi che non c’è chiosa migliore.





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