Louis Garrel al Modernissimo di Bologna: L’Innocent (2022)

Sabato 20 gennaio, presso il Cinema Modernissimo di Bologna, ho avuto modo di assistere alla proiezione (in versione originale sottotitolata in italiano) de L’Innocent, quarto lungometraggio diretto da Louis Garrel. La proiezione si inseriva nel contesto di una rassegna dedicata da La Cineteca di Bologna all’attore e cineasta francese, avviata nell’occasione della presentazione del restauro di The Dreamers di Bernardo Bertolucci, che ho recentemente avuto l’occasione di rivedere dopo circa vent’anni (anch’esso in versione originale sottotitolata) proprio la settimana precedente ma al cinema del Museo Pecci di Prato. Il piatto forte dell’evento del Modernissimo, comunque, era rappresentato da un incontro con Garrel medesimo, a corollario della proiezione del film: una discussione di una ventina di minuti nel corso dei quali l’autore ha raccontato la genesi dell’opera, il suo sviluppo e anche alcuni aneddoti curiosi, come quello (spassosissimo) che ha per protagonista l’ex galeotto e latitante Jean-Claude Pautot, inizialmente assunto come consulente e in seguito scritturato da Garrel per un ruolo nel film. Pautot sarebbe stato infatti arrestato come sospetto in un caso di traffico di cocaina proprio durante il periodo di promozione de L’Innocent, come si può leggere qui. Sebbene l’inchiesta abbia infine rivelato come l’uomo non fosse mai salito su quella barca, portandone alla scarcerazione in attesa di giudizio, il racconto dei timori di Garrel di esser stato intercettato con annesse tragicomiche paturnie seguite alla decisione di andare a visitare Pautot in carcere (paturnie generate dalla “legittima” paura che per suo tramite gli fossero fatti arrivare in cella gli strumenti per un’altra evasione facendo del regista un complice), sarebbero valsi da soli il prezzo del biglietto. Quello che mi ha colpito principalmente della visione di Garrel (che ha parlato per tutto il tempo in un italiano decisamente scorrevole, mostrandosi quanto mai disponibile ed empatico con la platea) è stata l’idea di realizzare un film che potesse essere apprezzato tanto dai cinefili quanto dai non cinefili, pensato cioè per un pubblico trasversale fatto di appassionati ma anche di ragazzi (un ragazzo di 11 anni avrebbe dovuto poter vedere il film senza annoiarsi, come ha spiegato l’attore stesso nella conferenza stampa post-proiezione): in questo senso, L’Innocent si presenta quindi come un film “di generi” mescolando in modo sapiente, attraverso una scrittura estremamente sofisticata, il film noir e la commedia d’amore, l’autobiografismo e il classico andamento da film francese, ricco di dialoghi e sovrastrutture, sovrapponendo i tempi dell’azione e del thriller e quelli del cinema carcerario (in un certo senso) ai tempi comici e intimisti del racconto corale, dell’epopea familiare. Il tema dell’autobiografia, innanzitutto: come raccontato dallo stesso autore, l’idea originale della storia va fatta risalire a un episodio che ha coinvolto la sua stessa madre, sposatasi in carcere con un detenuto quando il figlio aveva 16-17 anni (motivo, la minore età, per il quale al giovane Garrel non venne permesso di partecipare alla cerimonia).

La storia raccontata ne L’Innocent comincia proprio da un innamoramento, quello che coinvolge l’attrice sessantenne Sylvie Lefranc, ormai sul viale del tramonto e cui presta il volto Anouk Grinberg, e il galeotto Michel Ferrand (interpretato da Roschdy Zem): incontratisi nell’ambito di un corso di teatro tenuto da Sylvie tra le mura del carcere, i due si innamorano e decidono di convolare a nozze. Sylvie ha un figlio, Abel (interpretato dallo stesso Garrel), reduce dalla fine tragica del matrimonio con Maud, scomparsa a seguito di un incidente stradale durante il quale, alla guida e rimasto illeso, si trovava proprio il giovane (i dettagli di questa vicenda sono volutamente lasciati sullo sfondo, sfumati). Abel non vede di buon occhio l’unione della madre con Michel, un po’ perché (come scopriremo) non era la prima volta che Sylvie si innamora di qualche detenuto conosciuto in carcere, e un po’ perché il suo sesto senso gli dice che di Michel non c’è da fidarsi. Giovane chiuso e sfiduciato, che al di fuori del lavoro all’acquario (dove accompagna i tour guidati di comitive di bambini alla scoperta delle meraviglie sottomarine, con particolare riguardo per l’Axolotl) coltiva soltanto l’amicizia con la buffa e bellissima Clémence Genievre (cui presta il volto un’adorabile Noémie Merlant), migliore amica della scomparsa Maud, Abel non manca di far notare alla madre i propri dubbi su questa unione con Michel. Pur tuttavia, nel tentativo di far felice la donna, il figlio sceglie di partecipare al matrimonio tra i due (che avviene appunto in carcere) e, una volta che Michel è uscito di prigione con obbligo di firma, accetta persino di incontrarlo e provare, in qualche misura, a far funzionare questo rapporto, conoscendolo meglio. Un evento però insospettisce il giovane: appena uscito dalla prigione, Michel regala a Sylvie un fondo commerciale in pieno centro a Lione, dove la coppia vorrebbe aprire un negozio di composizioni floreali. Le rassicurazioni di Michel non convincono del tutto Abel, preoccupato dalla provenienza del denaro usato per pagare il fondo: l’apparente felicità di Sylvie, però, spinge il giovane a non insistere, col rischio di incrinare uno stato di cose momentaneamente favorevole. Di nascosto dalla madre, tuttavia, Abel (con l’aiuto di una spericolata Clémence) comincia a pedinare Michel durante il suo lavoro come magazziniere in un centro commerciale, cercando di capire in quali loschi traffici possa essere invischiato insieme all’amico Jean-Paul (il già citato Jean-Claude Pautot). La situazione precipita quando, al momento dell’inaugurazione del negozio di fiori, Abel scopre casualmente una pistola nella giacca di Michel: dopo aver posto sulla giacca dell’uomo il GPS usato da Clémence per tracciare la posizione del suo cane, Abel segue Michel quando questi si allontana con una scusa e scopre che dietro all’acquisto del fondo per il negozio si cela una trama criminale. Michel ha infatti avuto in affitto lo spazio in cambio di un ultimo lavoro, un furto di prezioso caviale per un ristoratore iraniano. La situazione precipita quando Jean-Paul si accorge che Abel ha seguito lui e Michel: se il ragazzo non accetterà di farsi volontariamente da parte, non resta che l’opzione di coinvolgerlo nel colpo. Le resistenze di Abel vengono vinte anche a seguito di un confronto piuttosto duro con Clémence: la coppia cercherà di distrarre il camionista incaricato del trasporto (Yanisse Kebbab) durante una sosta per la cena in una stazione di servizio per il tempo necessario a consentire a Michel e Jean-Paul a scaricare il caviale e spostarlo sul proprio furgone. Sfortunatamente durante il colpo tutto ciò che può andare storto va storto, mentre gli eventi più inattesi prendono una piaga assolutamente imprevedibile: nel recitare una scena madre in grado di distrarre efficacemente il camionista, Abel e Clémence finiscono per confessarsi il reciproco amore; Jean-Paul tradisce Michel facendo il doppio gioco, e nello scontro a fuoco che segue, in un parapiglia scatenato dall’avventata sceneggiata di Clémence che finge un intervento della polizia nel tentativo di togliere Michel dai guai, lo stesso Michel viene ferito da un colpo di pistola alla gamba. Clémence fugge con il furgone e la refurtiva, seminando con astuzia Jean-Paul che si mette alle sue costole e nascondendo la preziosa merce nella vasca frigorifera dei pinguini all’acquario dove lavora Abel. Dopo aver accompagnato il patrigno all’ospedale, il ragazzo la raggiunge e i due possono finalmente consumare il proprio amore. Mentre il castello di menzogne eretto da Michel per far felice Sylvie crolla e la donna, una volta scoperta la verità, lascia il marito, Abel va a consegnare il carico al ristoratore: nel bel mezzo della consegna, però, la polizia fa partire la retata che apre al giovane le porte del carcere. Il film finisce così laddove era cominciato, con un nuovo matrimonio celebrato dietro le sbarre, stavolta quello di Abel e Clémence, mentre il rapporto tra Michel e Sylvie è ormai compromesso e la donna ha avviato una nuova vita da maestra di teatro per bambini.

Questo, in estrema sintesi, l’arco narrativo affrontato dal film, che come già detto mescola i topoi del noir a quelli della commedia brillante mettendo in scena una storia d’amore e di rapina dal ritmo lieve e assolutamente riuscito. Sullo sfondo di una Lione autunnale, brumosa e sospesa, immortalata da una fotografia che in esterni riesce a creare un misto di intimità e atmosfere di mistero, la sceneggiatura intreccia la commedia amorosa (il rapporto tra Sylvie e Marcel e quello, obliquo e inespresso, tra Abel e Clémence), il goffo film di guardia e ladri (sublimato nei pedinamenti che Abel, con l’aiuto di Clémence, imbastisce per scoprire di più sulle intenzioni di Michel) e il tema noir, tra la preparazione del piano per il furto e la sua realizzazione, nella sequenza della quale il racconto sfora anche nel film d’azione (Garrel ha dichiarato, nella sua conferenza seguita alla proiezione del film, di essersi ispirato a Heat di Michael Mann per la scena nella quale investe uno dei doppiogiochisti facendolo letteralmente “volare” sopra la propria Peugeot: un Michael Mann con molti meno mezzi economici, ovviamente), il tutto tenuto insieme dal fil rouge del film carcerario (ambiente nel quale la storia si apre e si chiude). All’elemento autobiografico si è già accennato: ma la vera forza del racconto sta nei caratteri dei personaggi, tratteggiati con eleganza da una sceneggiatura ottimamente scritta. Ad emergere sono soprattutto le figure femminili: da Sylvie, tanto determinata quanto fragile perché (sebbene non ci venga mai mostrato chiaramente) sconfitta, nel lavoro come nella propria caotica vita sentimentale, a Clémence, che porta un soffio di frizzante vitalità nella storia e nella vita di Abel, imponendosi come il vero catalizzatore degli eventi. Di contro, i personaggi maschili appaiono molto tormentati, indecisi e proni a commettere ripetutamente gli stessi errori: un po’ per senso di inadeguatezza e un po’ nel tentativo di far felice Sylvie, Michel ritorna sulla cattiva strada finendo per compromettere il rapporto con la neo-moglie; e Abel si nega continuamente la felicità a casa di un doloroso senso di colpa legato agli eventi che hanno condotto alla morte dell’amata Maud, finendo per non riuscire a vedere i sentimenti che già lo legano a Clémence.

Nei caratteri dei personaggi emerge quello che forse potrebbe essere individuato come l’autentico snodo della trama, ovvero l’idea della rieducazione, la domanda su come una persona possa efficacemente reinserirsi nel tessuto sociale dopo il periodo della detenzione. Questa riflessione fa il paio con quella sulla colpa, che trova nel personaggio di Abel (nome scelto non per caso) un punto nevralgico: il giovane è fin da subito convinto che Michel debba necessariamente ricadere nel vizio della rapina, e sia destinato a infrangere nuovamente la legge, in una inevitabile coazione a ripetere che risuona tristemente con la costanza dolorosa del senso di colpa che lo accompagna per la morte della moglie, col quale convive quotidianamente e che espia negandosi ogni ipotesi di una nuova e diversa felicità sentimentale. Sarà di fatto il cinema a unire Abel e Clémence: quando entrano a far parte del piano di finzione ordito da Michel e Jean-Paul, che li vede nel ruolo (fondamentale) di elemento di distrazione per il camionista da rapinare, i due, attraverso la sottile messinscena mediata dalla recitazione di una parte, riescono a lasciar trasparire i propri reali sentimenti, finendo per confessarsi un amore che nessuno dei due aveva fino a quel momento avuto il coraggio di confessare completamente neppure a se stesso. Il cinema svolge così, come medium, una funzione effettivamente liberatoria: se da una parte riconduce il girato alla dimensione del gioco (evocato nell’allestimento delle sequenze d’azione, che Garrel ha definito come il momento più divertente dell’intera produzione, e in più in generale nella seconda parte del film), dall’altra permette, attraverso il meta-gioco della finzione diegetica, l’emersione dei sentimenti reali che uniscono i personaggi della storia (e che sono esplicitati non dai dialoghi ma infine dalle oniriche sequenze d’amore tra Abel e Clémence nell’acquario: laddove le parole hanno già detto tutto ciò che potevano, sono le immagini a farsi carico di restituire la piena forza del sentimento che lega i due). Lo stesso gioco d’ombre (il cinema, il teatro, la recitazione: tutti aspetti incarnati anche dal personaggio della madre) che consente ad Abel e Clémence di scoprire la verità sul proprio amore assume invece connotazioni del tutto opposte per Michel e Sylvie, risultando fatale per il loro neonato rapporto: il tentativo di rendere felice la moglie e sentirsi all’altezza del suo amore finisce per ritorcersi contro Michel, compromettendo il matrimonio. Quando infine anche il rapporto con il giovane Abel, contrastato fin dall’inizio, sembra avviarsi su un buon binario (favorito in questo dalla complicità nel colpo), il fallimento dell’impresa del caviale porta Michel in ospedale, ferito, e il giovane in carcere. Abel sceglie infatti di non tradire Michel (né Clémence), venendo condannato alla prigione: per questo gesto, compiuto soprattutto per proteggere il patrigno (che per la recidiva rischierebbe dai 10 ai 15 anni di carcere) e la giovane amata, Abel si vede privato della libertà. Non potendo perdonare il marito per aver coinvolto il figlio in questo intreccio criminoso, Sylvie decide così di mettere fine al matrimonio.

In un susseguirsi di eventi che scorrono con brillante leggerezza, L’Innocent è anche (come ovvio) un film profondamente francese, e quindi un film di dialoghi, di situazioni, di auto-riflessioni e sovrastrutture. Ma è soprattutto un racconto che crede profondamente nel potere liberatorio del Cinema: il tema della recitazione (Sylvie e Michel si conoscono grazie a un corso di teatro) si confonde con quello della finzione, e attraverso la recitazione si svelano le verità (come quella sul rapporto tra Abel e Clémence). A questa fascinazione per il potere della Settima Arte che guida la mano del Louis Garrel regista (e la distingue significativamente da quella del padre Philippe Garrel, anch’egli autore cinematografico, poiché guarda più apertamente al pastiche di generi che non alla Nouvelle Vague), ovvero all’idea della forza del Cinema sia da ricercare nel suo essere poesia fatta di immagini in movimento, si devono le sequenze, insieme surreali e affascinanti, dell’acquario, autentico trionfo della fantasia che corona la conquistata intimità tra Abel e Clémence. L’Innocent è così un racconto mutevole che si nutre di Cinema attraversandone giocosamente i molti generi, guidato tanto dallo spirito del cinefilo (un po’ sulle tracce di Truffaut) quanto dal rispetto per la grande tradizione del noir d’oltralpe, in un turbinio di scambi di ruolo, rivelazioni e variazioni di tono: un buffo e continuo detour che sposta la storia sempre un passo più in là, senza la certezza di sapere se a guidare gli eventi sia il destino o il caso. Ma forse nella scelta stessa del nome del suo protagonista, che ancora una volta è Abel (come in tutti i film precedenti dell’autore), Garrel nasconde più che una possibile chiave di lettura della sua opera, facendo de L’Innocent l’apice di una riflessione più ampia: Abele come l’innocente per antonomasia, la vittima sacrificale, il personaggio in cerca d’autore e infine anche il motore di una trasformazione necessaria. Non è un caso che Abel, arrestato per il crimine imbastito da Michel, si definisca poeta di fronte alla Gendarmerie (nuovamente, è il Cinema-Poesia a partorire le oniriche sequenze dell’amore sottomarino tra Abel e Clémence), intendendo la poesia come forza che genera mutazione, movimento, trasformazione: un messaggio di speranza gettato con coraggio nel gelo del mondo. Quest’ultima trasformazione fa anche di Abel un po’ un Caino: innocente, come da titolo, ma al tempo stesso colpevole per propria scelta, a seguito della decisione di proteggere gli altri protagonisti della rapina caricandosi il fardello della responsabilità sulle proprie spalle. Un uomo che ha scelto di compromettersi, di sporcarsi le mani nel mondo e tornare a ricercare una propria identità dentro l’ambiguità di questa sua posizione, tentando di definirsi soprattutto attraverso un vero confronto con il senso di colpa, affrontandola a viso aperto. Non saprei dire se l’uomo, banalmente, veda nella carcerazione per questa sua partecipazione a un disegno criminale in un certo modo un’altra via per espiare il proprio senso di colpa legato alla morte accidentale della moglie, ma resta il fatto che il film si chiuda su questa nota di ambiguità (anche scanzonata, per il tono delle sequenze che la raccontano, ma pur sempre presente: a seguire la camionetta che trasferisce il colpevole in carcere c’è la madre, lanciata a folle velocità con lo stereo a tutto volume proprio come accadeva all’inizio del film quando su quella camionetta il prigioniero era Michel; e quanta tenerezza si prova rendendosi conto che da dentro, mentre ti portano via, si sente tutto davvero, la musica ad alto volume, le urla e gli schiamazzi della donna, quasi i suoi stessi sentimenti, proprio come Sylvie aveva detto all’inizio mentre il figlio, impassibile, le rispondeva che non poteva esser vero, che Michel non avrebbe sentito alcunché). Il film, come detto, si chiude sui sorrisi e su un nuovo matrimonio in carcere, quello tra Abel e Clémence: c’è quindi motivo di sperare che il circolo vizioso della coazione a ripetere (il protrarsi del senso di colpa come quello dell’attività criminale) sia stato interrotto per sempre… almeno fino alla prossima volta. Ad ogni modo basta questo per capire come L’Innocent sia un film ambizioso, tanto irresistibile nel ritmo del suo dispiegarsi quanto complesso nei temi che tocca, adatto (come da programma) tanto al pubblico che cerca uno svago intelligente quanto alla platea dei cinefili e a chi cerca riflessioni non scontate su tematiche universali: un piccolo gioiello che riconcilia con un’intera idea di Cinema fatto di idee, passione e amore e non, come sempre più spesso accade, di mega-produzioni e anonimato ideologico. Se vi capita l’occasione, un’opera assolutamente da recuperare, non foss’altro che per apprezzare le deliziose interpretazioni degli attori, su tutti una Noémie Merlant alla quale credo (e mi auguro) si possa pronosticare un futuro davvero radioso.

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