Bassi e bassisti che mi hanno svoltato il 2023

Con un piccolo ritardo rispetto agli anni passati, quando questo post andava regolarmente online in occasione del primo giorno dell’anno, questa rubrica annuale giunge alla sua quarta edizione senza aver cambiato titolo (contrariamente a promesse da marinaio che ormai datano alla notte dei tempi) e, soprattutto, nella lista dei momenti da batticuore a quattro corde del 2023 appena concluso troverete qualche bassista in meno rispetto al solito, e una varietà di ispirazioni che mi è sembrate però doveroso (anche nella speranza che accendano qualche lampadina pure a voi che mi leggete). Non bisogna infatti mai dimenticare che non c’è solo il basso là fuori, né solo i bassisti (sebbene tra tutti i musicisti siamo senza dubbio alcuno i più fighi), e soprattutto che occorre tenere le orecchie aperte perché non è detto che le migliori ispirazioni (banalmente) giungano sempre e soltanto da chi suona il tuo stesso strumento. Anzi, una volta arrivati in fondo a questo post insieme a me converrete forse che sia lo studio (dello strumento, ma per esteso della musica) il vero basso/bassista che ci svolta le annate, più ancora dei singoli musicisti che ammiriamo o degli strumenti che desidereremmo possedere.

Talking bebop with Chet Baker

Ripercorrendo con la memoria l’anno scorso, il primo punto di svolta è stato lo studio condotto su But Not For Me, standard jazz originariamente composto da George e Ira Gershwin, nella versione vocale che ne ha offerto Chet Baker nel 1954 (inclusa nel suo bellissimo album Chet Baker Sings: se non lo avete mai ascoltato, correte!). Mi direte voi, vabbè, e che c’entra col basso? Ricordate sempre, come disse il saggio, che tutto c’entra e niente c’entra. But Not For Me è stata per me l’occasione di sminuzzare, smontare e analizzare un fraseggio bebop, prendendo a titolo d’esempio il solo di tromba che taglia a mezzo il brano: trascritto, solfeggiato, rallentato, sezionato fino a prenderne pieno possesso, questo breve e splendido solo mi ha accompagnato per le prime settimane dello scorso anno. Nello studio mi sono avvalso della trascrizione operata dal mio Maestro Daniele Nesi (a proposito, colgo l’occasione per fargli gli auguri di buon compleanno) e di un po’ di software ad hoc (come l’imprescindibile Transcribe!). Lo scopo di questa analisi è stato quello di comprendere la scelta di note di Baker, isolarne i criteri principali, studiare (e assaporare) la composizione delle singole frasi così da riuscire ad arricchire un vocabolario e un fraseggio che, da musicista, in me vedo ancora piuttosto zoppicante. In un certo senso l’analisi del solo costituisce il secondo passaggio dopo lo studio del tema. Ogni volta che approcciate uno standard dovreste per prima cosa studiarne il tema di modo da essere in grado di calarlo sull’armonia: pensate ad ogni possibile fraseggio come a un’evoluzione di una scelta di note avviata proprio nell’esposizione del tema, e non vi sarà difficile capire come isolare i “pallettoni”, ovvero le guy notes che suonano su ogni accordo, aiuti in maniera esagerata ad approcciare un fraseggio improvvisato sui changes. Contrariamente a quello che alcuni pensano, l’improvvisazione non è random e il jazz non è caos: si tratta di un esercizio complesso, cerebrale e che richiede una pratica costante per poter essere eseguito con la giusta perizia. Io per esempio penso di avere ampi margini su cui lavorare (per non dire sconfinati margini), e lo studio di But Not For Me mi ha aiutato enormemente a rendermene conto.

The dreamy sound of Charlie Haden, parte 2

È il momento di introdurre un bassista in questo listone di bassi e bassisti: ne parlavo già lo scorso anno, ma in ogni caso Charlie Haden è stato, negli ultimi 12-13 mesi, una figura fondamentale nel mio studio dello strumento (in particolare nell’approccio al contrabbasso che, ahimè, complice il tempo tiranno, studio ancora troppo poco). La musica di Charlie Haden (e specialmente quella composta per il suo Quartet West) ha rappresentato una bella fetta dei miei ascolti musicali dello scorso anno ed è stata anche oggetto di discussione e studio nelle mie lezioni di musica. Tra i brani studiati e analizzati c’è Danny Boy, estratto dall’album Steal Away pubblicato da Haden in duo con il pianista Hank Jones nel 1995. Steal Away raccoglie una serie di canzoni tradizionali, vicine anche al gospel e agli spiritual, e ne ripropone una rilettura in chiave jazz, testimoniando il grande amore e rispetto di Haden per la forma della canzone popolare, dalla quale egli proveniva per formazione (era stato, da piccolo e prima che la poliomielite ne incrinasse la voce attaccandogli le corde vocali, il cantante della Haden Family, il gruppo di famiglia che suonava canzoni popolari in giro per il paese e godeva di passaggi radiofonici sul Grand Ole Opry, noto programma radiofonico settimanale di musica country e concerti, trasmesso dal vivo sulla radio WSM di Nashville, Tennessee).

Danny Boy (composta nel 1910 dall’avvocato inglese Frederic Weatherly sulla melodia del brano tradizionale irlandese Londonderry Air) racchiude in sé tutta una serie di caratteristiche che ne fanno un ottimo esempio dell’approccio di Haden allo strumento. In tutte le scelte operate sia in fase di accompagnamento che durante il fraseggio solista, Haden opta sempre per una sostanziale semplicità, che gli derivava appunto dall’esperienza giovanile e dall’educazione musicale maturata nella Haden Family, improntata alla ricerca della melodia: a questa semplicità melodica, rimarcata dalla scelta delle note, fa da contraltare una straordinaria ricchezza e complessità ritmica, che Haden portava nei brani attraverso uno schema di contrazione ed espansione del tempo. Se ci fate caso, nonostante la semplicità delle linee costruite dal bassista, vi accorgerete che c’è spesso un effetto quasi di sincope, alternato a momenti di distensione: Haden otteneva questo effetto semplicemente anticipando o ritardando l’ingresso rispetto alla scansione ritmica, giocando spesso d’anticipo rispetto ai movimenti anche entro la battuta. Questa capacità di deformare il tessuto spaziale dei brani è ciò che rende questi episodi così splendidamente irregolari per quanto semplicissimi, dotati di un andamento proprio e distinto. Queste stesse considerazioni valgono anche per il solo: le frasi sono brevi e semplici all’inizio, per allungarsi in seguito, componendosi; il fraseggio nel suo insieme risulta estremamente melodico e lirico, come se Haden si preoccupasse unicamente di far cantare il proprio strumento, senza indulgere in passaggi puramente tecnici.

Chiaramente io come esecutore sono lontano anni-luce (ma forse anche secoli-luce) da questa espressività, e c’è da considerare che, durante le mie lezioni su Danny Boy, mi sono dedicato unicamente all’accompagnamento, lasciando il solo in secondo piano; resto tuttavia assolutamente convinto che ascoltare con attenzione i grandi faccia sempre bene, specialmente se, come musicisti (e come esseri umani) non ci vogliamo rassegnare a smettere di crescere e migliorarci.

Bassi coi baffi

Altro giro, altra corsa: un altro degli highlights di questo 2023 per me è stato il concerto di Peter Gabriel a Milano, in occasione del quale ho potuto ammirare dal vivo quel gran musicista che risponde al nome di Tony Levin (qui per una descrizione più puntuale della serata). Ora, “ammirare” son parole grosse perché avevamo comprato biglietti con scarsa visibilità e del palco si vedeva solo uno spicchio (che per fortuna è andato crescendo nel corso della serata man mano che qualche posto si liberava), però era lo spicchio giusto, ovvero quello nel quale per la maggior parte del tempo ha operato proprio il bassista. Quando si parla di Tony Levin si parla della storia di questo strumento e di un musicista dalla versatilità proverbiale: dal basso elettrico cinque corde al quattro corde, dal contrabbasso elettrico al Chapman Stick, Levin ha a disposizione una palette di colori enorme cui si associa una altrettanto importante espressività. Faccio un’analogia forse spericolata: proprio come succede con Charlie Haden, le linee di basso di Levin sono sempre rigorosamente pensate al servizio del brano nel quale si inseriscono, originano spesso da idee molto semplici e fanno un uso sapiente tanto del suono quanto del silenzio, della pausa. In altre parole Levin (come anche Haden, sebbene in un contesto completamente differente) scolpisce lo spazio dentro le battute, costruendo groove che si sviluppano unicamente al servizio del brano e allo stesso tempo lo trasformano profondamente, donandogli una specificità immediatamente riconoscibile. L’esempio classico è la linea di basso di un pezzo storico come Red Rain, tratta dall’album So (1986, ne scrivevo qui): Levin suona pochissimo, sia nelle strofe che nei ritornelli (fateci caso), ma è l’intenzionalità delle sue pause a rendere Red RainRed Rain! Ascoltate come cambia il brano quando, nella sua coda finale, Levin decide di aggiungere un semplicissimo fill tra le sue toniche, di modo da riempire lo spazio che aveva creato fino a quel momento: un brano fin lì ponderoso e minaccioso diventa, d’improvviso, incalzante e ritmico. È un modo difficile di ragionare perché la tentazione, strumenti alla mano, è sempre quella di riempire ogni spazio, e i musicisti la conoscono bene: la lezione di Tony Levin (e del buon Charlie Haden) ci porta piuttosto verso una direzione diversa, quella secondo la quale less is more.

Walter Calloni alle Pistoia Blues Clinics

Dal basso alla batteria, con un’artista che rappresenta la storia della musica italiana: quest’estate ho avuto l’immenso piacere e l’onore di studiare musica d’insieme con Walter Calloni presso le Pistoia Blues Clinics 2023. Calloni per me significa Diforisma Urbano, storico brano tratto dal concept album Maledetti degli Area, ma al di là del mio caso particolare, il nome di Calloni (in coppia con Hugh Bullen, proprio come in Maledetti, ma poi anche accompagnato da musicisti del calibro di Stefano Cerri) è in pratica un sinonimo della storia della musica italiana: stiamo parlando di un’artista che ha suonato con tutti, da Ivan Graziani a Eugenio Finardi, da Fabrizio De André a Lucio Battisti a chi più ne ha più ne metta. Io suono da oltre vent’anni e vi assicuro che poche esperienze musicali per me sono state più illuminanti dell’aver potuto assistere al lavoro di Calloni sui brani che avremmo dovuto suonare: la loro analisi, quasi uno sminuzzarli per comprenderli, l’attenzione maniacale al groove e alla precisione dei batteristi, la cura per l’arrangiamento; aver tentato di recepire le sue indicazioni e aver avuto l’onore di suonare insieme brevemente improvvisando un pezzetto di I Believe To My Soul sono state tutte esperienze impagabili, di quelle che non si dimenticano. Fortuna vuole che si possa replicare quest’anno, stesso posto e stesso periodo, per le Pistoia Blues Clinics 2024, e io non vedo l’ora.

John Patitucci a Pistoia!

Da maniaco del basso elettrico (e del contrabbasso), posso dirvi che non capita spesso l’opportunità di assistere a una performance live di uno dei più grandi interpreti viventi dello strumento proprio sotto casa tua: ed è successo quest’anno grazie al live di Danilo Pérez presso la Fortezza Santa Barbara di Pistoia, con un trio completato dal batterista Adam Cruz e appunto da John Patitucci (ne ho scritto più estesamente qui). Patitucci lo ascolto (e l’ho ascoltato) per anni sui dischi, ma vi assicuro che vederlo di persona è tutta un’altra cosa: la facilità con la quale passa dallo strumento elettrico al contrabbasso è quasi commovente, e l’espressività su entrambi gli strumenti è davvero di un altro pianeta. Patitucci è un bassista che colora molto le proprie linee di basso, un improvvisatore formidabile che si produce tanto in walking e accompagnamenti ricchissimi, dal sapore davvero virtuosistico, quanto in un fraseggio solista formidabile per inventiva e torrenzialità. Mi verrebbe quasi da dire, banalizzando, che se si potesse definire Charlie Haden un minimalista (parola che tuttavia il buon Charlie non apprezzava poiché generalmente riferita a musica ripetitiva, schernendosi perché la sua musica ripetitiva non lo era affatto), Patitucci di contro avrebbe un approccio decisamente più massimalista allo strumento: i suoi botta e risposta con Pérez, pur riposando efficacemente sulle ritmiche di Cruz, avevano un sapore tutto particolare, quasi di un fraseggio chitarristico a tratti, un alone di virtuosismo al servizio di una melodiosità straripante. In sintesi, un approccio totalmente differente ma che dà risultati altrettanto affascinanti.

More bebop

Sempre restando sul bebop, che è un linguaggio che bisognerebbe padroneggiare tutti un po’ meglio, ho speso quest’anno una certa quantità di tempo nell’ascolto (e nello studio) del brano Billie’s Bounce, di Charlie Parker (sempre sia lodati il Nesi che mi fa fare solo cose belle!). Anche questo brano, inciso per la prima volta da Parker nel 1945 con una band d’eccezione (Miles Davis alla tromba, Dizzy Gillespie al piano, Max Roach alla batteria e Curly Russell al contrabbasso), è quasi un trattato sulla costruzione della frase: io in particolare mi sono concentrato sull’analisi del tema, sulla scelta di note e sull’uso dei cromatismi. Billie’s Bounce rappresenta un’altra stazione del percorso di reinvenzione della struttura blues che ha lungamente impegnato Parker (pensiamo alla ricchezza armonica di Blues for Alice): è un blues in F variamente sostituito con progressioni ii-V-I, che consentono a Parker di modulare sul secondo grado (ovvero G, battute 8-9, la sequenza Am7-D7-Gm7) e da qui, passando attraverso la dominante (C), rientrare sul F (con un ii-V-I di F, ovvero Gm7-C7-F, che occupa le battute 10-11), per chiudere su un classico turnaround di natura jazzistica (la sequenza I-VI-ii-V, F-D7-Gm7-C7, che riconduce naturalmente al F iniziale dando un senso di ciclicità). Anche in questo caso, un’accurata comprensione del tema e della scelta di note a esso sottesa rappresenta l’ideale punto di partenza sia per l’improvvisazione che per l’accompagnamento.

Il fraseggio di Steve Swallow

E poi c’è un altro bassista, ovvero il grande Steve Swallow. Al lavoro di Swallow ho cominciato ad accostarmi già da qualche anno, e però quest’anno ho avuto per la prima volta l’occasione di studiare una linea di basso suonata dal grande bassista americano: in particolare, sto parlando del brano Rut, scritto da Carla Bley e contenuto nell’album Night-Glo del 1985 (un mio piccolo, insufficiente ricordo di Carla Bley si trova qui). Si tratta di un brano molto particolare, una jazz song in 32 battute costruita sull’alternanza primo grado (I, Db9)-sesto grado (VI, Bb7b9) con passaggi su secondo grado (II, Eb9) e quinto grado (V, Ab9) usati come delle specie di II-V-I “espansi” (con questo intendo estesi su più di una battuta, in un numero variabile da 8 a 4) per tornare alla tonica. La grande peculiarità di questo brano è che il basso elettrico di Swallow sostiene la linea melodica, cioè espone il tema: più avanti si ascolta quella che sembra essere una seconda linea di basso, impegnata a sostenere il groove, ma non sono sicuro che si tratti di un basso “vero”, quanto piuttosto di una linea di synth bass suonata dalla stessa Bley (sebbene sia possibile per un unico strumentista suonarle entrambe, perché le due linee non si sovrappongono significativamente). Il tema gestito da Swallow è geniale soprattutto perché semplice: la sua efficacia risiede nell’ampiezza delle pause che circondano le singole frasi, isolandole e facendole risaltare (e rendendo assai difficile entrare sul tempo!!). Ancora una volta, sembra di essere davanti a una declinazione dello stesso principio less is more invocato poc’anzi per Charlie Haden o Tony Levin: il fraseggio di Swallow si appoggia su terze, none e toniche, con l’occasionale uso di transizioni ottava-settima-sesta o settima-sesta-quinta, forse reminiscenti dell’estetica del cromatismo imperante nel bebop (ovviamente Rut non ha nulla a che vedere con il bebop). Soprattutto, di nuovo, è l’espressività che conta: e in quest’ottica studiare le linee di Steve Swallow dovrebbe essere obbligatorio per ogni aspirante bassista.

Le Pistoia Blues Clinics

Voglio chiudere dedicando un pensiero a una splendida famiglia musicale della quale ho il piacere (e l’onore) di far parte, nel mio piccolo, da ormai tre anni, ovvero quella delle Pistoia Blues Clinics: vi sono stato introdotto da Daniele Nesi, che ne è un po’ il deus ex machina (insieme al formidabile Marco Magnani, e senza dimenticare il contributo logistico offerto dal Circolo ARCI di Serravalle Pistoiese), e… non saprei come meglio dirlo, ma quello delle Clinics è uno spazio, un luogo nel quale poter essere ciò che si è, un posto nel quale si cerca di consentire a ciascuno di esprimere ciò che sente con la sua propria voce, aiutandolo a trovarla; un luogo nel quale ho conosciuto tanti musicisti straordinari che sono soprattutto persone eccezionali, sia tra gli insegnanti e tutor che tra gli allievi come me. Quando ho deciso che volevo ricominciare a studiare mi sembrava in parte una follia, perché ritenevo di non avere l’età: avevo forse dimenticato che non si finisce mai davvero di imparare, e che lo studio e l’applicazione continua mantengono giovani (dio sa quanto bisogno ne ho, visto che sto alla soglia dei quaranta), curiosi, svegli. E niente, volevo dire che sono grato di aver trovato uno spazio e un gruppo di persone come quelle delle Pistoia Blues Clinics in questo percorso alla ricerca della mia voce sullo strumento, soprattutto perché le esperienze fatte in questi anni mi hanno ricordato che la musica è qualcosa di bello quando si fa insieme agli altri: potrà sembrarvi un pensiero banalotto, ma forse non sapete quanto velocemente si possa perdere di vista il senso più profondo del fare musica nella vita di tutti i giorni e in un mondo, come quello in cui viviamo, nel quale è sempre più facile allontanarsi e isolarsi dagli altri (anche quando ci pare di essere costantemente connessi) che avvicinarsi e restare insieme.

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