My very “best of 2016” in music

Come ormai tradizione, anche quest’anno non potrete esimervi dal beccarvi la lista dei miei album preferiti negli ultimi 365 giorni. Gettando uno sguardo al passato, noto che il numero di quelli che eleggo a “miei dischi dell’anno” è andato sempre aumentando, e il listone di quest’anno prevede ben 10 titoli (più 1 a parte, che menzionerò più per la delusione che per altro): se da una parte questo mi sembra un fatto positivo, perché indica che, probabilmente, ascolto sempre più musica, dall’altro, unito alla mia ormai proverbiale verbosità, mi spaventa un po’. Tuttavia ormai sono piuttosto abituato a WordPress che mi mette in guardia sulla scarsa leggibilità di un post che superi le 300 battute. Considerando che ci sono quasi, a 300 battute, e sto ancora all’introduzione, direi che tanto vale smettere di preoccuparsi e partire a diritto con il “listone del 2016”, confidando nella vostra pazienza o, più probabilmente, in quel “misto di gravità e buona educazione” (come lo avrebbe senz’altro definito Feynman) che vi terrà seduti a leggere fino alla fine di questo post.

My 10 favourite + 1 disappointing records of 2016

Stavolta non vi serve conoscere le frazioni, come lo scorso anno. Premessa: la lista è da leggersi in rigoroso disordine di importanza.

Skeleton Tree (Nick Cave & The Bad Seeds)Skeleton Tree (Nick Cave and the Bad Seeds)

Su questo disco credo si sia detto tutto, soprattutto facendo riferimento all’episodio tragico della morte del giovane figlio di Nick Cave, che avrebbe (e senz’altro avrà) contribuito a definire il mood degli otto brani di quest’ultimo lavoro. Va detto che i brani di Skeleton Tree sono senz’altro precedenti il tragico evento, sebbene sia inevitabile ascoltarli “a posteriori” con la sensazione di potervi ritrovare tracce dell’elaborazione di un lutto impossibile da elaborare. Personalmente, mi piacerebbe scrivere due parole su Skeleton Tree come se fosse, semplicemente, un album di musica, un disco di canzoni. E Skeleton Tree è un disco nel quale si ritrova tanto del Nick Cave che conosciamo, con la sua voce elegantemente sgraziata che plana magneticamente su panorami sonori ancora più scarnificati ed essenziali di quanto non accadesse nel recente (e splendido) Push The Sky Away. Le piccole perturbazioni elettroniche si mescolano a distorsioni e saturazioni (Jesus Alone) giustapposte a sezioni ritmiche appena accennate, come battiti impalpabili eppure presenti (Ring of Saturn); i riverberi cullano pochi accordi atmosferici di piano (Girl in Amber) a volte intrecciati a chitarre acustiche distanti (la meravigliosa Magneto); una batteria jazzata introduce alle svisate di Anthrocene che preludono all’incedere compassato e dilatato di I need you, che presto si risolve in una marcia rallentata sulla quale davvero la voce di Cave si gonfia di un dolore profondissimo, liberato solo nel ritornello; Distant Sky stempera i toni, in qualche modo, nel dialogo tra la voce profonda di Cave e i ritornelli cantati da un’eterea voce femminile, e lascia spazio alla chiusa della title-track Skeleton Tree, un pezzo caratterizzato da una maggiore distensione (almeno nell’economia del mood sonoro del lavoro). Ora, cosa si può dire di un musicista, di un gruppo di musicisti che, giunti al sedicesimo album della carriera, prendono tutta una serie di cose che vanno dal rock all’ambient, dall’elettronica ai glitch e ne tirano fuori un lavoro che fa della dissonanza, dell’irresolutezza, dell’atonalità, della sospensione i suoi tratti caratteristici? Skeleton Tree è una mescolanza felice (per quanto non solare) di elementi diversissimi tra loro che spaziano dai loop ai downtempo della sezione ritmica, dai bordoni strumentali affidati tipicamente alle chitarre distorte alle sezioni di fiati, dai pochi accordi spezzati di pianoforte ai cori non risolti di numerosi ritornelli, creando una collezione di delicate melodie incompiute, dolorose intuizioni armoniche e gustosissimi pastiche ritmici che ne fanno, per chi scrive, probabilmente la cosa più vicina alla perfezione pubblicata quest’anno. Quanto al tema della morte e dell’elaborazione del lutto, mi viene da citare Pessoa e pensare che Skeleton Tree rappresenti appieno la traduzione in musica di quel concetto di “Arte che allevia dalla Vita senza tuttavia alleviare dal Vivere”: che è poco, se rapportato alla perdita subita da Cave, ma è l’unica cosa che mi viene in mente senza voler fare di un fatto privato e tanto doloroso solo l’ennesimo fattore di pornografico citazionismo.

A Moon Shaped Pool (Radiohead)A moon shaped pool (Radiohead)

E poi certo non si può dimenticare che il 2016 è stato anche l’anno in cui è uscito un nuovo album dei Radiohead, ed è meglio dirlo subito: non ricordo un album del quintetto di Oxford che non sia stato sempre, invariabilmente, di almeno una spanna al di sopra rispetto a quanto l’industria discografica ci stesse propinando in quell’esatto momento. A Moon Shaped Pool, uscito a Maggio, non fa eccezione: è probabilmente un anti-album, la cosa più vicina alla dichiarazione che Thom Yorke e soci rilasciarono qualche tempo fa dicendo che non avrebbero probabilmente più pubblicato album integrali. I tempi non sono ovviamente ancora maturi per propositi del genere, ma A Moon Shaped Pool tenta comunque di disinnescare l’idea consueta di album musicale: lo fa innanzitutto disponendo le sue 11 tracce in rigoroso ordine alfabetico, sabotando l’idea di scaletta, e proponendo come singoli di lancio i primi due brani, appunto procedendo per ordine alfabetico; ma lo fa soprattutto nel suo palese disinteresse per la sistematicità e l’unità stilistica che, generalmente, fanno di un album musicale ciò che esso è. Per essere del tutto precisi, anche l’unità di tempo è sacrificata (sebbene questo sia comune per gli ultimi lavori dei nostri): numerose tracce del disco vengono infatti ripescate tra gli inediti osannati dai fan e suonati spesso soltanto dal vivo o in qualche soundcheck, e rivestite di nuova vita e nuovi arrangiamenti. Nel complesso anche A Moon Shaped Pool è un disco “scuro”, e anche in questo caso, stando ai beninformati, la ragione sarebbe da ricercarsi nella conclusione del rapporto tra Yorke e la compagna Rachel Owen (che peraltro ha perso la propria battaglia contro una malattia incurabile proprio sotto le feste di Natale, facendo assumere tutto un altro aspetto a un pezzo come Daydreaming, tanto per dirne una): una rottura, una separazione, la domanda di come si sopravviva alla fine di qualcosa tanto grande da occupare metà della propria vita. La risposta è nell’incedere ipnotico e meraviglioso del piano di Daydreaming, che è esattamente uno di quei pezzi che finisci a domandarti come diavolo potessero non esistere prima di trovarli qui dentro; nelle chitarre liquide e atmosferiche di Glass Eyes, un autentico gioiellino sotto forma di saliscendi emotivo; nelle ritmiche serrate e negli incastri a orologeria della trascinante Identikit, disegnata sulle geniali spigolosità di batteria, basso e chitarra che si inseguono sopra la voce confusa e moltiplicata di Yorke; nella delicata bossa nova di Present Tense, che ci permette finalmente di togliere l’aggettivo “latente” da qualsiasi frase che si riferisca al tropicalismo di Yorke e soci; nella sotterranea e singhiozzante riproposizione pianistica di quel grandissimo pezzo che risponde al titolo di True Love Waits. Basterebbe solo questo, ma ovviamente non è tutto qui: ci sono altre 6 canzoni, e un mare di intuizioni, idee, ricerca musicale, melodica e timbrica, tutto digerito e apparecchiato in un album che, come al solito, è un concentrato di altissima classe, un multiverso sonoro che precipita in questo 2016 direttamente dal futuro. Adesso non resta che vedere come sarà dal vivo… appuntamento a Firenze, per chi ci sarà!

Sirens (Nicolar Jaar)Sirens (Nicolas Jaar)

Questo giovanissimo producer e compositore elettronico cileno, classe ’90, l’ho conosciuto un due anni e mezzo fa a Berlino, spippolando tra i dischi nella mia libreria preferita: in quel caso si trattava di Space is Only Noise, primo LP, datato 2011. Cinque anni possono non sembrare molti, ma in un mondo in continua evoluzione, come quello dell’elettronica, si può ben dire che di acqua sotto i ponti ne sia passata tanta. E quindi Jaar ci consegna questo Sirens, un disco ipnotico come il canto delle sirene evocate nel titolo: che colpisce subito per l’iniziale Killing Time, 11 minuti di un brano letteralmente senza tempo giocati sull’alternanza di vuoto e lieve, un tappeto di rumori su cui crescono arpeggi di piano iniziali che riportano alla memoria i Popol Vuh di Florian Fricke (e in particolare quel gran pezzo di Ah! che apriva lo splendido Hosianna Mantra) per poi risolversi in qualcosa che assomiglia in maniera abbacinante al piano di Daydreaming dei Radiohead (vedi sopra). Sirens, però, è soprattutto un disco politico: rievocazione di ricordi famigliari, commistione di storia personale e nazionale, un disco nel quale l’idea di “politica” ritorna ad assumere il significato originario dell’arte dello stare insieme, la ricerca di un terreno comune, il dispiegarsi della Storia nelle storie. La frase che si legge sull’artwork di copertina, “YA DIJIMOS NO PERO EL SI ESTA EN TODO” si riferisce proprio a questo, e in particolare al plebiscito del 1988 col quale si chiedeva ai cileni la conferma al potere del Generale Pinochet. Così Sirens rielabora la storia personale di Jaar e della sua famiglia di esuli dalla dittatura militare e quella del paese, proponendo una mescolanza unica di elettronica di respiro internazionale e sonorità sudamericane, che partorisce la quasi new wave The Governor al pari dei riverberi e delle saturazioni di Leaves; la malinconica cumbia di No, sporcata da una costellazione di piccoli glitch e che riprende direttamente la frase riportata in copertina, di cui sopra, inanellata nel dialogo tra un nonno e un nipote; l’incedere chiassoso di Three Sides of Nazareth, decisamente occidentale come concezione, e la chiosa doo-wop spiazzante (per quanto servita con contorno di piccole aberrazioni elettroniche) di History Lesson. Quello che colpisce, nel nuovo lavoro di Jaar, non è soltanto il valore della proposta artistica, ma la ricchezza di riflessioni politiche che il concept si porta dietro: che non è roba da poco, in un’epoca di disimpegno come la nostra e, lasciatemelo dire sebbene questa sia soprattutto una mia fissa personale, non è da trascurare il fatto che quest’idea provenga da un ragazzo di 26 anni. Parlare di temi importanti attraverso una musica apparentemente disimpegnata non è una novità, ma a farlo, in passato, non sono stati proprio gli ultimi arrivati (faccio un nome: Frank Zappa).

SAVE YOURSELF (SBTRKT)SAVE YOURSELF (SBTRKT)

Non mi prendo meriti che non sono miei: questo disco me l’hanno consigliato. Ma, lo dico subito, è stato un colpo di fortuna perché trattasi di un gran disco. SBTRKT, al secolo Aaron Jerome, sarebbe un producer e DJ inglese, molto poco interessato alle frivolezze del mondo musicale e assai più avvezzo alla composizione (e torna in mente quel Burial che si tiene ben nascosto dietro le quinte e, ogni tanto, piazza qualche stoccata). Non fraintendetemi: la musica di SBTRKT ha tutt’altro incedere, ed è soprattutto un indecifrabile calderone stilistico caratterizzato da un gusto irresistibile per la contaminazione e la melodia, che inanella in 8 brani (e 30 minuti appena) una collisione di mondi musicali solo apparentemente distanti e inconciliabili tra loro. Si parte con le oscillazioni di GEMINI che introducono a GOOD MORNING, in cui la voce di The-Dream si libra irresistibilmente su un tappeto caleidoscopico di percussioni e synth; si prosegue col magnifico duetto di D.R.A.M e Mabel sulla strepitosa I FEEL YOUR PAIN, accarezzata da bordate di delay e riverberi di piano e pochi rintocchi delle drum machine, per scivolare dentro le ritmiche serrate di TBD, brano sul quale la voce di Sampha dipinge un arazzo di malinconie post-atomiche affogate in echi e riverberi glaciali e profondissimi; REVERT rallenta il ritmo ed è una sorta di fluida ballad futuristica sul quale la voce di The-Dream accompagna l’ascoltatore lungo uno scivolosissimo crinale emotivo, flirtando pericolosamente con l’autotune, e lasciando spazio ai beat assolutamente catchy di READY OR NOT prima, e agli squarci rumoristi di LET THEM IN poi; la chiusa è affidata a BURY YOU, un tappeto di suoni in reverse che si avvolgono su stessi e sui quali spiraleggia ancora la voce di The-Dream, una compilation di aperture e chiusure, rallentamenti, accelerazioni e riverberi cosmici. Le 8 tracce di SAVE YOURSELF sono un compendio di romanticismo moderno, un trascinante caleidoscopio di suoni altri, la cui assoluta alterità produce una sintesi seducente e un’armonia assoluta e affascinante: un rapimento mistico e sensuale, tanto per cedere al citazionismo, animato dalla profonda convinzione che, in un mondo che rifiuta la diversità e tanto facilmente cede alle meccaniche dell’odio, l’amore per la musica possa ancora essere salvifico.

III (Moderat)III (Moderat)

Fusione dei progetti di Apparat (al secolo Sascha Ring) e Modeselektor (Gernot Bronsert e Sebastian Szary), Moderat è ormai un fenomeno musicale che non richiede alcuna spiegazione. III è (banalmente) il terzo capitolo di questa storia, ed è quello che fa il passo definitivo verso una forma canzone: la techno dura e pura di I (2009) ha lasciato il passo alle commistioni di II (2013), che mostrava le prime concessioni ad un’orecchiabilità extra-dancefloor, e III è il passo definitivo verso un album di vere canzoni. A farla da padrona è sempre la sezione ritmica, devastante lungo tutto l’album, dall’iniziale, affascinante Eating Hooks all’incalzante Running, dai rintocchi oscillanti di Finder, col suo andamento “zoppicante”, a Ghostmother, l’incarnazione più limpida della ballad incastonata nell’elettronica atmosferica del trio berlinese A.D. 2016, col simulacro di una drum machine sommersa da piccoli glitch a far da motore sotterraneo al pezzo. Reminder è il primo singolo estratto, un pezzo che ricorda tanto alcuni episodi precedenti (uno su tutti: Bad Kingdom), con però in più un elemento “cinematico” che rende la traccia un’ideale colonna sonora, piena di elementi visivi molto forti anche nel testo (burning bridges light my way); The Fool è invece un pezzo per metà atmosferico e per metà devastante nel suo incedere principalmente ritmico, con la voce a contorcersi attorno a una magnifica linea di synth. Intruder si presenta come una scheggia di ritmiche aliene, impreziosita da un folle assolo matematico di glitch, drum machine e sintetizzatori, e sulla quale la voce si trascina fantasmatica, ora eterea ora pesante, preludendo a Animal Trails, arazzo strumentale intessuto tra droni, drum machine stratificate e asprezze elettroniche. Chiude la splendida Ethereal, 5 minuti e mezzo di riverberi, echi, tastiere e synth d’atmosfera che cullano una melodia dolciastra, gonfia di malinconia: una perfetta concatenazione di pieni e vuoti, che tocca le corde giuste. Se bisogna riconoscere come il suono dei tre berlinesi si sia parecchio addolcito nel percorso che ha condotto a quest’ultimo album, togliendo molte delle asprezze urban che caratterizzavano il sound dei precedenti episodi, va detto che la ricerca di un punto di congiunzione tra la melodia e i ritmi elettronici raggiunge in III il suo apice: questo lavoro appare assai meno come una compilation di collaborazioni tra Apparat e Modeselektor, e mostra piuttosto il respiro di un lavoro compiuto, in cui le reciproche ispirazioni hanno trovato la via della sintesi in un sound definito, elegante e unico. In altre parole, III è IL bellissimo album di canzoni dei Moderat.

22, A Million (Bon Iver)22, A million (Bon Iver)

Come sopravvivere a For Emma, Forever Ago? Sono certo che Justin Vernon (Bon Iver, per gli amici), se lo deve essere chiesto, e ben più di una volta. La prima risposta è stata: fare qualcosa di diverso. E ne è venuto fuori quel grande, grandissimo disco chiamato Bon Iver, Bon Iver che, per chi scrive, è probabilmente persino superiore all’illustre predecessore (per compiutezza, per qualità, per asciuttezza del sound). Ma si sa: il pubblico ti perdona difficilmente di non aver declinato in tutte le possibili salse il tuo vecchio, tenero Skinny Love. E, se non arriva il riscontro del pubblico, anche la critica non ti perdonerà. Allora Justin Vernon si è dato un’altra risposta, che suonava più o meno così: fare qualcosa di diverso, ma ancora più diverso. E ne è uscito questo disco, esoterico e misterioso fin dal titolo e dalla tracklist: un misterioso codice che sottende tutto il lavoro, 10 tracce nelle quali Vernon gioca a nascondersi sommergendosi sotto un’elettronica sporca e pennellate sfinenti di auto-tune, per lasciar apparire il proprio spirito melodico solo qua e là, come concrezioni sbocciate su un terreno ostile. 22 (OVER S∞∞N) dà subito l’idea di cosa ci si trovi a fronteggiare, ma è con le ritmiche trascinanti di 10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠ che Vernon ci presenta l’essenza del nuovo corso, e la cavalcata solo voce (e auto tune) di 715 – CRΣΣKS lo conferma: sposare il naturale gusto per la melodia con la spigolosità di intuizioni elettroniche al limite del rumore. 33 “GOD” è più lenta, quasi più pacificata, anche se squassata a metà dalle drum machine, e rimanda alla memoria qualcosa degli episodi precedenti (Michicant, per esempio), preludendo in effetti al recupero delle chitarre acustiche operato da 29 #Strafford APTS, un brano nel quale la mano del vecchio Bon Iver si torna a sentire assai di più, nonostante le incursioni di piccole distorsioni, rumori e saturazioni inquietanti sui ritornelli. 666 ʇ scivola sui resti di un riff di chitarra e pochi rintocchi di synth, impreziosita da una linea melodica deliziosa, e la seguente 21 M♢♢N WATER spalanca un abisso di suoni liquidi e d’alta marea di sintetizzatori d’atmosfera, una traccia profondamente notturna e seducente nel suo incedere quasi carsico in cui si intrecciano ben presto suoni alieni di synth, barriti spaziali e echi di sassofoni spezzettati che connettono questo brano sotterraneo alla lucida meraviglia di 8 (circle), ballad tipicamente boniveriana sulla quale è il falsetto di Vernon a farla da padrone, intessendo la trama di una melodia che potrebbe ben ripetersi in eterno, un eterno ritorno doloroso eppure affascinante, costellato di piccoli rintocchi d’atmosferica grazia: il singolone, se dovessimo sceglierne uno. ____45_____ sposa fiati e synth in una piccola preghiera per voce e silenzi, cui si aggancia la coda finale di 00000 Million. Canta Bon Iver: “Must’ve been forces/ That took me on them wild courses/ Who knows how many poses/ That I’ve been in”. E mai come in questo caso le domande sono seducenti quanto l’enigmatica risposta di queste trace misteriose, estratte purissime da un luogo lontano, sotterraneo, oscuro: puri grovigli di bellezza selvaggia. Anche se sembra di non capirci niente, fidatevi: 22, A million è un signor disco di uno che, con un po’ più di coraggio ancora, chissà dove potrebbe arrivare.

Jesu/Sun Kil Moon (Jesu/ Sun Kil Moon)Jesu/Sun Kil Moon (Jesu/Sun Kil Moon)

Diciamolo subito: chi scrive considera Mark Kozelek il più grande cantautore americano in circolazione, con buona pace dei premi Nobel (che comunque sono di un’altra categoria, eh). Fatto questo dovuto cappello, confesso che mi stupisce come il nostro, nonostante una prolificità commovente (dico nonostante a ragion veduta), riesca sempre a proporre qualcosa di significativo con ogni nuova uscita. E se ormai questo aspetto è quasi scontato per le uscite a nome Sun Kil Moon, assai più affascinante è considerare le collaborazioni che Kozelek intreccia con altri artisti (quei pochi che, dato il caratterino, considera degni della sua ammirazione, chiaramente). Se Perils From The Sea, pubblicato nel 2012 con Jimmy LaValle/Album Leaf, era un interessantissimo esperimento che coniugava il tipico songwriting del nostro con la musica elettronica (con esiti notevoli, si pensi soltanto a Gustavo, Ceiling Gazing e la splendida By the time that I awoke), questo Jesu/Sun Kil Moon, scritto a quattro mani con Justin Broadrick (Jesu, per l’appunto), coniuga lo stile di Kozelek con un’elettronica discreta e formidabili riff di chitarre distorti, poderosi muri di feedback e asprezze da rock pesante. Il resto è il Mark Kozelek che conosciamo, quello cui la critica inizia a rimproverare la verbosità, l’eccessiva sincerità con la quale si mette a nudo (o, secondo taluni, in ridicolo) nei testi, la tendenza a scendere dal palco per sostituire l’esibizione, della quale si può giocoforza solo essere spettatori, con la conversazione, con un dialogo tra amici, dimesso, con una chiacchierata che dia al tutto l’aspetto di un incontro quali, quotidianamente, a tutti capita di farne. Solo che l’incontro che Jesu/Sun Kil Moon ci propone è con Mark Kozelek: che ci racconta dei suoi giri per il mondo, dei tour, del set italo-svizzero con Paolo Sorrentino (l’esperienza cinematografica di Youth ha letteralmente monopolizzato i testi sia di Universal Themes che di questo nuovo lavoro), delle giornate a Milano, di un viaggio on the road tra Perugia e Vasto (dove ha suonato al Siren Festival e, pare, ascoltato James Blake tra il pubblico), delle consuete stragi di innocenti dovute alla proliferazione incontrollata delle armi negli States, del suo rapporto con Caroline; un Kozelek che inanella la consueta striscia di morti raccontate che neppure George R. R. Martin nelle giornate di grazie e, in un paio di occasioni, ci legge persino le lettere dei fan (che diventano parte del testo di due dei brani: come dire, qualcuno si beccherà delle royalties…). Quelle che cambia è che, di sottofondo, non ci sono i consueti arpeggi di chitarra acustica o le spagnolerie di raccordo delle chitarre classiche, ma il doom violento e quasi estatico di Broadrick, specialmente nel trittico di apertura (Good Morning My Love, l’incredibile Carondelet e A Song of Shadows, ispirata nel titolo a un libro dell’amico John Connolly). Poi entra in gioco un’elettronica discreta con Last Night I Rocked the Room Like Elvis and Had Them Laughing Like Richard Pryor, che rimanda alla memoria proprio Perils from the sea, e prelude alla meravigliosa Fragile, che riprende di nuovo il tema della morte, ormai uno dei leitmotiv dell’opera di Kozelek, cogliendo spunto dalla dipartita di Chris Squire, bassista degli Yes, uno dei gruppi preferiti di Kozelek negli anni dell’adolescenza: chitarre acustiche, quella fantastica voce baritonale che “just humming along” e poco altro (ché tanto basta). Father’s Day è ancora all’insegna dell’elettronica mentre la successiva Sally affila di nuovo le chitarre distorte e taglienti di Broadrick, ma è in America’s Most Wanted Mark Kozelek and John Dillinger che l’elevata considerazione di se stesso che Kozelek non cerca ormai più di nascondere assume i contorni dell’epos, con il Mark privato che combatte in totale solitudine contro quel mondo che lo trova antipatico, fine a se stesso, ripetitivo e impegnato a parlarsi addosso: perché comunque Kozelek se ne frega di quello che pensate tutti voi, di quello che penso io, persino di quello che pensa Pitchfork (ma in questo è in buona compagnia, visto che me ne fotto anche io), e non manca di farvelo notare. Chiudono il tappeto di beat e pianoforte di Exodus, commovente elegia ispirata dalla morte del giovane figlio di Nick Cave, durante la quale giungono in supporto una pletora di amici del nostro (tra cui Rachel Goswell, Alan Sparhawk e Mimi Parker) e l’apertura finale di Beautiful You. Jesu/Sun Kil Moon è un disco che parla di dolore, fondamentalmente: di morte, di malattia, di solitudine, di abbandono. Lo fa con lo stile proprio di Kozelek, in particolare accentuando la tendenza alla parola parlata a scapito del consueto cantato melodico, già evidenziata in parte in Benji e, in modo assai più netto, in Universal Themes. Qualcuno parlerà di un parlarsi addosso, di tante parole che nascondono il vuoto, rimpiangerà gli arpeggi delicati di altri grandi dischi del passato (l’insuperato Admiral Fell Promises su tutti), magari si farà una risata su un artista che, alla soglia dei cinquant’anni, non trova di meglio da fare che mettersi a nudo con una sincerità disarmante, cercando di fare nient’altro che disvelare l’Universale nel Particolare, mostrare qualcosa che riguarda tutti nelle pieghe di una storia personale: per tutti gli altri, sappiate che nel 2017 ci sarà un capitolo 2 della collaborazione con Jesu (30 Seconds To The Decline Of Planet Earth, in uscita a Maggio) e, prima, un nuovo album come Sun Kil Moon (Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood, a Febbraio). Quindi, ammiratori e detrattori, è chiaro che Kozelek vi sta semplicemente dicendo di stare sereni, ché tanto continuerà bellamente a fare il cazzo che gli pare.

Una Somma Di Piccole Cose (Niccolò Fabi)Una somma di piccole cose (Niccolò Fabi)

Se mi avessero detto che un giorno avrei messo un disco di Niccolò Fabi in una qualsiasi top ten dei miei dischi preferiti, probabilmente mi sarei fatto tante grasse risate: e invece, come al solito, a sorpresa siamo qui a commentare l’imprevedibile. Devo ammettere che questo disco l’ho incrociato per caso e per curiosità: per caso, grazie a Spotify; per curiosità, perché di solito non mi interesso molto ai premi ma ero curioso di capire come mai avessero dato la targa Tenco proprio a Fabi per questo lavoro. Ecco, io questo disco l’ho ascoltato, riascoltato, digerito, canticchiato, imparato quasi a memoria e ora vi dico due cose. Numero uno: Fabi si inserisce in un panorama musicale italiano che, a livello di un certo mainstream, è messo quasi peggio delle zone circostanti Chernobyl dopo l’incidente nucleare, sovraccarico di vecchi tromboni sfiatati, gorgheggi negramareschi e, dal punto di vista dei testi (quelli di cui la critica musicale italiana si vanta sempre molto, e non è un caso che in Italia ci sia una quantità di gonzi autoproclamatisi cantautori da fare invidia all’intero sistema solare), dominato dalle “isole negli occhi” (sigh) e altre amenità che non ho voglia di riportare per evitare di trascorrere il Capodanno in bagno. Di fronte a tutto questo, vi assicuro che una canzone come Una mano sugli occhi non ha prezzo: non ha prezzo lo splendido substrato musicale, non hanno prezzo le parole che ne compongono il testo. Numero due, e qui mi riallaccio all’ultima frase, il disco è bello proprio da un punto di vista musicale: si capisce che Fabi ha come riferimenti una certa musica internazionale che a me piace molto, tipo il primo Bon Iver, tipo Damien Rice, tipo lo stesso Kozelek, e quello che ne tira fuori filtrando le molte ispirazioni è un folk moderno e molto, molto piacevole. Una somma di piccole cose è un po’ un catalogo di amarezze della vita, storie d’amore finite, delusioni politiche, sociali, umane: parla, di nuovo, di come si affrontano i fatti dell’esistenza, e non c’è niente di semplice in questo. Ho personalmente apprezzato il modo in cui Fabi ha parlato di questi argomenti nei suoi testi, e la musica con cui li ha accompagnati, e mi hanno molto divertito i commenti dei fan storici che, qua e là sul web, hanno parlato di un tradimento compiuto dal cantautore romano nei confronti del suo proprio “stile”. O forse, come sempre, sono loro che si sono sentiti traditi quando il loro idolo gli ha recapitato un album suonato in solitudine, emulando in questo For Emma, Forever Ago di Bon Iver, fatto di pochi, pochissimi suoni e molte parole, versi composti con gusto e intelligenza, misurati e sobri come non avviene spesso nella “musica italiana”. Non citerò altre singole canzoni, perché sono tutte parimenti belle: fate una cosa, ascoltatevelo. E con questo, sentenzio che l’imprevedibile è accaduto anche quest’anno.

Persona (Urali)Persona (Urali)

Siccome ho sconfinato nel mainstream, ritorno nella musica indipendente, che mi si confà assai di più e ci ritorno con un disco che, per me, è stato uno dei pezzi forti del 2016. Ho conosciuto Urali (al secolo Ivan Tonelli, riminese classe ‘89, già chitarrista nei Cosmetic e ingegnere del suono per Stop Records e Stop Studio) verso lo scorso Aprile: ci ho parlato al telefono per coinvolgerlo in un progetto al quale, alla fine, non è riuscito a partecipare, e lo scorso Novembre l’ho infine portato a suonare sotto casa mia in uno dei live del progetto Biblioledì, uno dei migliori che abbiamo avuto nella nostra piccola biblioteca di Casalguidi. Persona, dunque: uscito all’inizio di questo 2016 e di un tour per tutta Italia che, a Casalguidi, aveva fatto segnare la sessantesima (!!) tappa dall’inizio dell’anno, trattasi di una meravigliosa mescolanza di song-writing, tentazioni folk e debordanti esplosioni doom. Drone music, potremmo dire, e infatti arriva l’auto-definizione di cantaudrone, quanto mai azzeccata. Ma, categorie a parte, Persona è soprattutto un bellissimo album di canzoni, centrato sul mistero dell’Altro, sull’impossibilità di conoscere a fondo le altre persone: George (My King) oscilla tra la distensione delle strofe e il pieno sonoro dei ritornelli, con un gusto per la melodia raro; Immanuel (We don’t have to work in dreams) inizia come un brano sognante, chitarre traslucide in sottofondo e voce distante, e poi cresce lungo i minuti fino all’apoteosi finale; Frances (A new neighbour) mette voce a destra e chitarra a sinistra, rimandando alla memoria il grande Arthur Russell (acchiappatevi questa cover di Russell suonata dallo stesso Urali per capire di cosa stiamo parlando: Losing the taste for the night life); il dittico Hector (Horror vacui) e Hector (A friend) mostra come due aspetti di una stessa persona, tra la distensione della prima parte e i suoni più taglienti e incalzanti della seconda, come a ricordarci le molteplici sfaccettature che ogni essere umano porta con sé; Catherine (How to manage anger) è, invece, quella che forse eleggerei a mia canzone preferita dell’intero 2016, e non so spiegare bene perché: forse perché la sento vicina per alcune delle immagini che ci sono dentro, e che suggeriscono pensieri che anch’io ho formulato in passato, in qualche modo; senz’altro trovo meraviglioso come il pezzo cresca tra gli arpeggi di chitarra iniziali e le bordate centrali, che aprono alla distensione finale, in un’alternanza tra distorto e pulito caratterizzata da un equilibrio precario, e quindi realmente magico. LZ (A year of living dangerously), caratterizzata da uno splendido ritornello, prelude all’altro pezzo forte dell’album (per il sottoscritto), che risponde al titolo di Mary Anne (The tailor), alza il ritmo con l’incedere di un timpano e accompagna verso la fine del disco con una melodia azzeccatissima; fine del disco racchiusa nello strumming delicato di Meadow (Nightwalk in Rome), spazzato via dalle bordate distorte finali. Avrete capito che Persona m’è piaciuto assai: io non ascolto tanta musica, non quanta vorrei, ma quando mi imbatto in lavori come questo capisco che anche il dover fare selezione, spesso inevitabilmente, può condurre a gioie inattese e ad incontri per i quali, alla fine, sarebbe valsa la pena. Quindi, io vi consiglio caldamente di ascoltare Urali, di procurarvi questo album e, soprattutto, di andare a vederlo dal vivo, perché non ve ne pentirete.

Compartments EP (Jackson Dyer)Compartments EP (Jackson Dyer)

E chiudo, come ormai d’abitudine, con uno dei miei amori musicali degli ultimi tempi: fin da quando ho avuto il piacere di ascoltare questo ragazzone australiano dal vivo, due anni e mezzo fa a Mauerpark, Berlino, non ho smesso di seguirne i progressi. Uno dei brani contenuti in questo EP, uscito finalmente lo scorso ottobre (e occhio anche allo splendido artwork, opera dell’artista Zoya Godoroja Prieckaerts), era anche nella top del mio 2015 (era il famoso + 1/2), e sono ben contento di dire che tutto il lavoro è allo stesso, altissimo livello: Compartments EP prende tutte le cose belle sentite in The Child and the Sea e in White Threads e le porta su un altro piano, facendo incontrare lo stile chitarristico e il cantato soul di Dyer con il supporto di un’autentica band, dando ai brani uno spessore d’insieme che era in parte assente nelle precedenti produzioni, molto più centrate sul binomio voce-chitarra. The Absolute apre le danze con un sottofondo elettronico su cui la voce di Dyer dipinge per lasciare spazio alle incursioni strumentali della sezione ritmica, alternando magistralmente pieni e vuoti; Pariahs recupera un po’ il sound chitarra-voce degli EP precedenti, con quest’ultima a farla da padrona, per andare a spegnersi in un finale di riverberi e luci lontane; Interlude rappresenta un breve passaggio sperimentale, un arpeggio di chitarra sotteso a un suono come di onde, ed è proprio su un suono che rammenta un’onda che si spegne sulla spiaggia che si apre Projection, Abstraction, scandita da una batteria tagliata, spezzata e che fa letteralmente il pezzo, protagonista assoluta di accelerazioni e frenate. Ma il vero gioiello è Darkness, un brano notturno tratteggiato delicatamente dalle chitarre e sferzato da una batteria ancora spezzettata, sezionata, scomposta e ricomposta: un puzzle di abbacinante bellezza che si ricompone in un suono cupo, a tratti quasi atmosferico, con una parte strumentale minimale e allo stesso tempo sognante. Chiude Steal Away, un soul del futuro di cui ho già detto molto lo scorso anno, il brano forse nel quale si sente più forte (e determinante) l’influsso di una band completa nel sound del cantautore australiano. Che, per inciso, ha lasciato Berlino per tornare nella terra d’origine, almeno per un annetto: inutile dirvi che, quando tornerà in Europa, farò di tutto per portarlo a suonare da queste parti. E comunque, a conti fatti, Compartments EP è un meraviglioso biglietto di arriverci. (Visto che YouTube è avaro di video del nostro, vi lascio qua sotto il suo player Soundcloud)


The Colour In Anything (James Blake)Disappointing album of 2016: The Colour in Anything (James Blake)

Non finisce qui, anche se, forse, sarebbe l’ora (data la mole del post). Dovrei spendere qualche altra parolina per una serie di altre cose che ho ascoltato lungo questo 2016, vecchie e nuove. Comincio da una piccola delusione: The Colour in Anything del buon James Blake. Ora, non fraintendetemi: adoro Blake dai tempi dell’omonimo album d’esordio eppure ho notato, nel tempo, una graduale involuzione che è coincisa con il suo tentativo di uscire dalla “sample-music” per orientarsi verso una forma-canzone più classica. Blake è un talento assoluto nella composizione, e un ottimo pianista, dotato di gusto e capacità ma, in qualche modo oscuro che non mi è chiaro, sembra aver pagato il passaggio da una musica estremamente minimale, costruita per sottrazione e sovrapposizione, alla stesura di brani nei quali dispiegare la strumentazione (e l’intenzione) in forme più consuete, addizionando: se a questo si aggiunge la tendenza (sempre presente in Giacomino, fin dagli esordi) a una prolificità incontrollata (io, per esempio, ho perso il conto degli EP pubblicati dal nostro nel corso degli anni), il prodotto finale di questo processo involutivo in parte avviato già in Overgrown è proprio quest’ultimo lavoro. 17 tracce (17!!!) alcune delle quali troppo deboli e appena abbozzate per sembrare tali: se si va a fare un conto, ci sono almeno 10 pezzi che non sembrano neppure finiti, e probabilmente non avrebbero dovuto trovarsi lì dove si trovano. Se hai un talento spropositato (come quello che ha Blake) e una fantasia compositiva enorme (proprio come quella di Blake), l’unica cosa che proprio non ti si può perdonare è una mancanza di messa a fuoco: ecco, la mia impressione ascoltando questo disco è stata, fin dall’inizio, che a James Blake a un certo punto sia mancata la concentrazione. In The colour in anything ci sono troppe cose e troppe cose non centrate: alcuni brani sembrano solo abbozzi, altri appaiono come affastellati in attesa (forse) di riprendere il discorso più avanti, senza che esso venga mai più ripreso. Non basta infilarci dentro 7/8 pezzi di assoluto valore, se oltre la metà di quello che ci propini è sfocato e indistinto: e buttare sempre, continuamente altra carne sul fuoco non migliora affatto la situazione, ahinoi. Peccato, perché ovviamente il talento c’è, e sono sicuro che il giovanotto si rifarà: provaci ancora, James! Magari con un disco di poche canzoni ma semplici, centrate, a fuoco.

E poi certo, ci sono i dischi dell’autostrada!

E chiudo elencandovi al volo altra musica che mi ha accompagnato durante l’anno e, in particolare, durante i tragitti autostradali casa-lavoro: c’è stato Damien Rice (9, specialmente all’inizio dell’anno) e Elliott Smith (prima con Either/Or e poi con XO); ci sono stati i Mojave 3 (Spoon and Rafter specialmente) e gli Slowdive, recuperati dopo l’incontro con Neil Halstead datato 2015 (Pygmalion e, soprattutto, Souvlaki); poi gli Smiths, consumati fino a Giugno con The Queen is Dead (che ho avuto il piacere di festeggiare nel suo trentennale con il disco tributo che gli abbiamo dedicato noi di MelaVerde Records e nel quale ho suonato anche io) e i Portishead (con l’omonimo Portishead, con Dummy e con Third, dal quale abbiamo pescato la cover di Magic Doors per il nuovo album del laboratorio, uscito qualche settimana fa); Arthur Russell (ho consumato Another Thought sul treno che mi portava a Milano, lo scorso Agosto, per i miei tre giorni di ferie, e che pezzi che sono This is how we walk on the moon e See through love!) e, infine, The Moon & Antarctica dei Modest Mouse e Neon Golden dei Notwist (ma quant’è bella Consequence??). E poi certo, per me personalmente il 2016 è stato soprattutto l’anno di MelaVerde Records, del tributo agli Smiths e, alla fine, del mio nuovo album, di universi paralleli: un’esperienza durata anni e culminata nella presentazione ufficiale dello scorso 14/12 presso il Biblioledì, un momento atteso da quasi dieci anni (da tanto esiste questo progetto!) e che non avrebbe potuto essere più perfetto, al netto di tutto quanto. Quindi perdonate l’insolenza se chiudo questa rassegna della mia musica preferita di questo 2016 con lo streaming del mio album: non perché sia al livello delle cose splendide di cui vi ho parlato fin qua, assolutamente, ma perché rappresenta tanto, tantissimo per me, per quello che c’è dentro e intorno, per il tempo che ho speso a curarne ogni aspetto, a scrivere quelle poesie che sono diventate meravigliose canzoni grazie a Francesca, a mixare le idee geniali di Alessio e le linee di batteria preziosissime di Andrea. E non può mancare un ringraziamento al mio compare Fabio, che ci ha creduto assai più di me. Ed è con questo nostro piccolo album che vi auguro un buon anno, e che il 2017 ci porti un sacco di altra ottima musica! Ci vediamo l’anno prossimo!

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