“A fortress of perseverance”: Ocean Vuong al castello di Civitella Ranieri (16/09/2022)

Civitella Ranieri è un viaggio: è un viaggio arrivarci, è un viaggio varcarne la soglia. Da Pistoia, il luogo in cui vivo, significa percorrere 175 km attraverso paesi e città che, lo confesso, non avevo mai incrociato: Arezzo, poi una lunga striscia di paesini dai nomi strani, Palazzo del Pero, Monterchi, e poi il confine con l’Umbria e Città di Castello dove l’ingresso della superstrada SS3bis Tiberina, parte del percorso dell’autostrada europea E45, è chiuso senza nessun segnale di avvertimento per gli automobilisti, e allora devi raggiungere la rampa d’accesso di Città di Castello sud, e percorrere un tratto più breve di questa superstrada fino all’uscita di Umbertide. E poi c’è il castello, come racchiuso in una bolla: due file di cipressi che ne indicano il cancello, e quella soglia che, una volta varcata, catapulta dentro uno degli spazi più suggestivi che mi sia mai capitato di visitare, un luogo del silenzio che, grazie al lavoro della Fondazione Civitella Ranieri, è divenuto spazio privilegiato per residenze artistiche. Qui sono stati ospiti cineasti, scrittori, musicisti, artisti visivi (nomi che vanno da Atom Egoyan a Esperanza Spalding fino a Kae Tempest): un numero enorme di creativi ai quali questo spazio perfettamente conservato, carico di un fascino austero eppure caldo, penetrante, ha offerto negli anni un magico, ispirante isolamento.
Come già accaduto nel 2016, poco prima del successo mondiale ottenuto dalla sua prima raccolta
Night Sky with Exit Wounds (pubblicata in Italia da La Nave di Teseo un anno più tardi), in questi giorni è il poeta americano di origini vietnamite Ocean Vuong ad essere artista residente alla Civitella: uno dei miei poeti preferiti, e una delle voci più potenti e originali della poesia mondiale contemporanea. Ieri sera la bellissima biblioteca sita al primo piano del castello ha ospitato un reading di Vuong; si può dire che sia stato il primo, vero reading della mia vita di appassionato e amante della poesia, un’esperienza completamente diversa da tutte le altre. Intorno a me, un pubblico variegato: molti americani, uno studente di letteratura americana impegnato a redigere la propria tesi di dottorato incentrata sul primo romanzo di Vuong, On Earth We’re briefly Gorgeous (2019, pubblicato in Italia nel 2020 ancora da La nave di Teseo), una dottoranda che ha studiato per sei mesi Climate Change a Berkeley (c’era una discreta abbondanza di dottorati in sala, anche se in confronto a Berkeley un PhD in Atomic and Molecular Photonics preso a Firenze appare assai meno “spaziale”), un’umanità curiosa e variegata della quale è stato bello spiare le piccole conversazioni prima dell’ingresso. Una brevissima introduzione ha lasciato spazio all’intervento di Vuong, durato circa un’ora: una selezione di cinque poesie, per quattro quinti tratte dall’ultima raccolta Time is A Mother, pubblicata quest’anno negli Stati Uniti e ancora non tradotta in Italia, e un fitto dialogo finale con 4-5 domande dal pubblico.
Ocean Vuong, con una punta di commozione, ha voluto parlare per prima cosa dell’importanza che hanno per lui, per ogni artista, i luoghi come la Civitella, spazi nei quali potersi dedicare integralmente al proprio lavoro, vedendone riconosciuta l’importanza, senza dover convivere con quella sensazione di prendere a prestito il tempo, rubandolo o strappandolo ad altro, nella quale spesso si incappa quando si desidera scrivere ma non si ha davvero un proprio spazio nel quale farlo, uno spazio di ufficialità e riconoscimento. Ha definito questi spazi
“a fortress of perseverance” , luoghi che consentono di ascoltare finalmente, liberamente, i propri pensieri, e ha intonato un breve mantra buddista, una sorta di benedizione che ha in qualche modo stabilito l’atmosfera dell’intero incontro. Ha rivelato anche che proprio il giorno prima, proprio alla Civitella, ha concluso la stesura del suo secondo romanzo. E infine c’è stata la lettura, una selezione di cinque testi che hanno permesso a Vuong di spaziare attraverso tutti i grandi temi che accompagnano la sua scrittura, dalla decostruzione del sogno americano, di un mito dell’America costruito anche e soprattutto sulla militarizzazione del linguaggio (già tanti anni fa un altro grande poeta americano, Allen Ginsberg, scriveva in Wichita Vortex Sutra i versi I search for the language/ that Is also yours -/ almost all our language has been taxed by war: la commistione tra linguaggio e violenza, dove l’uno reitera e giustifica l’altra, e la ricerca di un linguaggio nuovo, umano), alla rappresentazione dovuta a tutta quell’umanità alla quale, per lungo tempo, la nostra società e la nostra cultura hanno voluto negarne il diritto, fino ai temi più intimi dei rapporti genitoriali, amorosi, del rapporto con la memoria e la sua trasfigurazione poetica, e infine della ricerca del proprio posto nel mondo. Un viaggio condotto, come detto, attraverso le letture dei versi di American Legend, della prosa The Punctum, del breve sonetto Old Glory e della lunga, bellissima prosa poetica di Nothing, tutti estratti da Time is A Mother, e che si è concluso con la lettura di quella che è probabilmente una delle mia poesie preferite di ogni tempo, Someday I’ll love Ocean Vuong (tratta dal già citato esordio Night Sky with Exit Wounds), forse in assoluto la prima cosa che ho letto di Vuong. Può sembrare eccessivo dirlo così, ed è abbastanza contrario al riserbo che di solito mi impongo su tutto ciò che riguarda i miei entusiasmi, ma da sempre, fin dalla prima lettura, penso e sento che i versi di Someday I’ll love Ocean Vuong abbiano avuto il potere di cambiare completamente la mia percezione della scrittura, aprendomi almeno un milione di nuove finestre che erano sempre rimaste ben chiuse e dalle quali si possono osservare panorami di cui nemmeno immaginavo l’esistenza. L’esperienza della parola accompagnata, per la prima volta dal vivo, dalla voce del suo autore ha fatto il resto: la voce di Vuong è una voce delicata, fragile come il cristallo, che riversa un’umanità esacerbata dentro quei versi affilati, dolorosamente esatti, e il respiro del poeta è capace di scandire il ritmo interno dei testi modellando le parole ora con l’armonia di un canto, ora con la scansione serrata di quella che diviene quasi una prosodia in levare. Mentre ascoltavo, ho avuto la sensazione che tutto questo, la voce, le parole, il loro senso gettato dentro una sospensione magica, col tempo che è sembrato contrarsi a piacimento, che tutto questo non fosse altro che un profondissimo, delicato atto di tenerezza: la creazione di un tempo e uno spazio nel quale ciascuno potesse sentirsi meno solo.
Fedele a questa concezione dialogica della creazione poetica, Vuong ha risposto alle domande del pubblico con grande disponibilità e articolando profondamente ogni tema, che si trattasse della natura e dei modi e tempi del proprio scrivere, del tema della vergogna all’interno della società nella quale viviamo o di questioni più tecniche relative al suo primo romanzo; e c’è stato spazio anche per un breve firmacopie. Così, dopo avergli fatto lo spelling del mio nome e avergli passato il primo libro, parlando con me mentre autografava i frontespizi Ocean Vuong, dove aver chiesto da dove venissi, un po’ a bruciapelo mi ha domandato: “Are you a writer?”; e io, sorridendo per nascondere qualche imbarazzo, ho saputo rispondere soltanto “Let’s say that I try”. Ocean Vuong allora ha sorriso di rimando e, fermando per un attimo la penna, mi ha rivolto lo sguardo e ha risposto “Well, I try too”. E quando, durante questo breve small talking, ha saputo che sono un chimico, Vuong ha esclamato entusiasticamente “Oh, Like Primo Levi! I love It! I love your work!”. È stato buffo e potente, come quando qualcuno riesce a scrutare in profondità dentro l’oscurità dell’Altro gettandogli un unico, profondissimo sguardo, e in un momento ti senti completamente nudo e scoperto e hai paura ma al tempo stesso è una sensazione entusiasmante, e quindi per la prima volta rispondi sinceramente a quella domanda diretta (anche se la tua risposta, Let’s say that I try, è forse un po’ poco articolata); e poi sono anche contento e ci ho riso su perché proprio non avrei saputo come spiegargli che “magari lo fossi davvero, uno scrittore come Primo Levi”.

Qua sotto, la diretta Instagram dell’evento direttamente dall’account della Fondazione.

 

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