[Visioni in anteprima] Non è un paese per deboli: Nido di Vipere (Kim Yong-hoon, 2020)

In uscita nelle sale italiane a partire dal prossimo 15 settembre, Nido di Vipere (titolo piuttosto generico e assai meno evocativo rispetto al potentissimo originale Beasts Clawing at Straws) è l’opera prima del regista sud-coreano Kim Yong-hoon (classe 1981), presentata e premiata al 49° Festival di Rotterdam nel gennaio del 2020. Ho avuto occasione di assistere ad una promozione in anteprima dell’opera (in versione originale sottotitolata) lo scorso 3 agosto presso la Manifattura Tabacchi a Firenze, nell’ambito della rassegna (Non solo) Cinema in Manifattura 2022 promossa e organizzata dalla Fondazione Stensen. Il film è tratto da un’opera del giallista giapponese Keisuke Sono, ovviamente intitolata Beasts Clawing at Straws, pubblicata nel 2013 (e alla quale Sono ha peraltro dato una sorta di “seguito” nel 2020, con il romanzo Lucky Strike). La visione di questo film consente di gettare uno sguardo su una delle cinematografie più vitali del globo, la cui importanza è stata riconosciuta anche in occidente negli ultimi anni (pensiamo soltanto al trionfo agli Oscar di Parasite, capolavoro di Bong Joon-ho), e che, per esempio, ha visto la stessa città di Firenze eleggerla a oggetto di un intero festival cinematografico (il Florence Korea Film Fest, cliccate qui per saperne di più). Più in generale è il cinema asiatico ad essere in costante fermento: una cinematografia sfaccettata, ricca, capace di presentare sia opere di carattere autoriale che film di genere, quelli che avremmo forse definito “di cassetta”, opere che nelle filmografie occidentali (e in particolare in quelle europee) sono sempre meno presenti, come se “raccontare storie” fosse improvvisamente diventato squalificante o poco apprezzato. È invece proprio grazie al cinema di genere che le filmografie di paesi come Corea, Hong Kong, Giappone (forse il Cinema più conosciuto a livello internazionale) ma anche Cina si sono fatte strada anche sui canali occidentali, traendone alcuni tra i propri frutti migliori (o comunque alcuni tra i prodotti più interessanti: faccio un solo nome, parlando del caso di Hong Kong, e ovviamente questo nome è John Woo). Beasts Clawing at Straws (letteralmente, bestie che artigliano lo strame, la paglia, a voler intendere animali che si attaccano a tutto nella propria lotta per la sopravvivenza) è in effetti il film di genere perfetto: un noir hard boiled, un crime a tratti esistenzialista e insieme violentissimo, con una pioggia di personaggi che costituiscono altrettanti caratteri classici di questo tipo di racconto (la dark lady, la prostituta ingenua ma non troppo, gli uomini disperati sommersi dai debiti, un killer efferato in odore di cannibalismo, malavitosi con una pericolosa inclinazione per il grand-guignol, poliziotti che non si capisce bene se ci siano o ci facciano) e un plot basato su una successione pressoché inesausta di colpi di scena, sull’incastro di piani temporali differenti, organizzato per capitoli e caratterizzato da una continua escalation di esplosioni di violenza pura (meravigliosamente estetizzata, come da canone ormai codificato del cinema orientale) che circondando e accompagnano il vero motore del racconto che poi, per gli appassionati del genere, è il più classico dei MacGuffin, una borsa di Louis Vuitton piena zeppa di denaro, il pretesto ideale per raccontare le vicende di questo colorato gruppo di personaggi. Se tutto questo vi fa risuonare in testa il ricordo di Fargo, di Non è un Paese per Vecchi, di alcune cose del primo Tarantino (ad esempio Pulp Fiction) e finanche di Rapina a mano armata di Kubrick, sappiate che la vostra sensazione è corretta: Beasts Clawing at Straws è un allegro frullatore di tòpoi del cinema noir e hard bolied, che pesca a piene mani (e a volte abbastanza dichiaratamente, come nel caso dei Fratelli Coen che appaiono essere un’ispirazione diretta per il lavoro di Yong-hoon) dai capostipiti del genere e intreccia un racconto che si regge quasi integralmente sulla successione dei caratteri che lo animano, un prodotto pop destinato alle ampie platee che cerca di porsi come primo mattoncino sul quale l’autore possa edificare una propria personalità autoriale riconoscibile. Come si legge in una breve analisi del film pubblicata su spietati.it, questo può non essere un percorso così semplice e lineare: il contesto produttivo coreano, così come accadeva in quello di Hong Kong all’interno del quale si è trovato a muoversi un autore di riconosciuto valore internazionale come Wong Kar-Wai, tanto per fare un esempio, tende infatti a favorire (e anzi a promuovere) la produzione di cinema “professionale” inteso come “cinema che abbia un mercato, vendibile”, indipendentemente dalle sue caratteristiche di originalità o qualità artistica (per come le intendiamo da queste parti): è lunga la serie di titoli provenienti dal cinema coreano che sono stati acclamati in occidente negli anni recenti, e comprende anche alcuni autentici e riconosciuti maestri, tutti autori in larga parte pressoché sconosciuti quando non direttamente ostracizzati in patria. Così Beasts Clawing at Straws è un prodotto senza dubbio pop, sicuramente levigato, un congegno cinefilo che non si inceppa nemmeno per un momento, con ampie dosi di gore (altro classico del cinema di genere asiatico) a infiocchettare una storia già di per sé piena di elementi di pura violenza vittoriana. È presto per dire se l’impronta di Kim Yong-hoon, qui quasi impalpabile, sia destinata a emergere nelle sue opere future: è anche abbastanza ingeneroso chiederselo, a conti fatti. Solo il tempo ci dirà se questo film sia il primo episodio di una premiata serie del tipo “Piccoli Bong Joon-ho crescono”. Per adesso, in Beasts Clawing at Straws c’è il puro piacere del racconto e una storia che, per quanto piena di elementi che rimandano a riferimenti più o meno alti, non smette per un attimo di tenere incollati alla sedia e sfidare l’abilità dello spettatore nel seguire i vari sviluppi della trama.
Al centro del racconto, come accennato, una borsa piena di soldi. La seguiamo in soggettiva mentre viene abbandonata dentro l’armadietto 47 della sauna di un grande hotel della città di Pyeongtaek, a sud di Seoul, dove lavora come custode Jung-Man (cui presta un volto dolente e remissivo un bravissimo
Bae Seong-woo). Jung-Man è il classico sconfitto: pieno di debiti e costretto a occuparsi di una madre gravemente malata (Youn Yuh-jung), l’uomo ha perso l’attività commerciale avviata dal padre ed è costretto a barcamenarsi con un lavoro di basso livello, a vedere la moglie Young-Seon (Jin Kyung) costretta a fare altrettanto senza poterla in alcun modo aiutare, gravata peraltro dal peso ulteriore di dover badare all’impossibile suocera, con una figlia che abbandona l’università per un semestre perché non in grado di pagarne la retta (e che, ancora, il padre non è in grado di sostenere economicamente); un uomo vessato dal proprio manager (Heo Dong-won), giovanissimo yuppie sudcoreano dedito al cazzeggio e all’abuso di potere, e frequentemente minacciato di un licenziamento che (poco più avanti) infine arriverà. Jung-Man ritrova la borsa di Louis Vuitton imbottita di denaro dentro l’armadietto, e ben presto ne scopre il contenuto: conscio che il denaro in essa presente potrebbe risolvere tutti i problemi suoi e della sua famiglia, l’uomo è comunque combattuto sul da farsi, e temporeggia nascondendo tutto nel magazzino degli oggetti smarriti dell’hotel. Alla vicenda di Jung-Man si intrecciano, su un piano temporale che nel corso delle proiezione scopriremo essere diverso (unico spoiler che vi faccio, giuro), le vicende del doganiere Tae-Young (interpretato da Jung Woo-sung), indebitato fino al collo col malavitoso Park Doo-Man (un paonazzo e assolutamente sopra le righe Jung Man-sik) a causa di una ingente somma di denaro che la ex-compagna dell’uyomo, Yeon-Hee (interpretata dalla splendida Jeon Do-yeon), deve a Park, da questi minacciato di morte per mano dello spaventoso killer interpretato da Bae Jin-woong, un assassino che si ciba di carne cruda (“pesce, carne animale e anche carne di esseri umani”), e che sta disperatamente tentando di raggirare un vecchio compagno di liceo con l’aiuto del buffo galoppino Carpa (cui presta efficacemente il volto Park Ji-hwan) per recuperare il denaro necessario a saldare il debito, tentativo che si complica parecchio quando sulle sue tracce si mette il poliziotto di Seoul Myung-goo (Yoon Je-moon), dai metodi un po’ sbrigativi e parecchio sopra le righe; e infine quelle della giovane Mi-Ran (una bellissima Shin Hyun-bin), escort di notte (anche lei per ripagare un debito) e moglie abusata dal marito violento (un odioso Kim Jun-han) nel resto della giornata, che si invaghisce di uno dei suoi clienti, l’immigrato clandestino cinese Jin-Tae (Jung Ga-ram) e con questi pianifica l’assassinio del consorte per poter truffare l’assicurazione riscuotendone la polizza sulla vita. Il piano sgangherato dei due amanti non andrà esattamente come previsto, e a Mi-Ran non resterà che chiedere l’aiuto della sua stranamente generosa protettrice…
Mi limito a questa breve sintesi della storia, soprattutto per evitare di infarcire questo post di troppi spoiler rovinandone l’effetto sorpresa nel caso decideste di vedere il film in sala. La grande abilità di Kim Yong-hoon risiede proprio nel riuscire a sviluppare queste tre linee di racconto in maniera che esse arrivino a un certo punto a convergere in maniera naturale nella stessa storia: il percorso per riportare la trama alla sua linearità è tortuoso e ricco di colpi di scena (come in ogni noir che si rispetti), eppure anche quando la storia sembra essersi avviata alla sua scurissima e disperata conclusione ecco che giunge un nuovo plot-twist, capace di rimescolare ancora le carte in tavola. La struttura in sei capitoli del racconto (
Debito, Il pollo, Catena alimentare, Lo squalo, Lucky Strike e La borsa) e la voluta confusione dei piani temporali sono tutti elementi che provengono direttamente da influenze quali il già citato Pulp Fiction: Yong-hoon smonta e rimonta il suo giocattolo in maniera del tutto naturale, inanellando piccole sorprese una dietro l’altra pur senza mostrare mai niente di veramente “nuovo” a livello di genere (una delle cifre principali del lavoro è senz’altro il suo palese citazionismo). Il cinema asiatico si è in qualche modo specializzato nel riprendere generi anche molto “occidentali” e trasformarli in esperienze estetiche estremamente originali, declinate attraverso canoni che sono tipicamente orientali: così anche questo noir, che ondeggia tra il drammatico e il comico, tra l’esistenzialista e lo sgangherato, risolve la sua tensione in un’escalation di efferatezze che ne svelano un divertito lato gore, mescolando sapientemente lo stile hard boiled con una violenza iperrealistica che sconfina a più riprese nello splatter. Una storia estremamente violenta retta da un insieme di caratteri indimenticabili: una carrellata di perfette vittime sacrificali, come Jung-Man o Mi-Ran, innocenti ma non troppo; criminali violentissimi, come Park e il suo killer cannibale, silenzioso quasi quanto efferato; poveri diavoli che si arrabattano per sfangarla in qualche maniera dopo essersi infilati in una storia più grande di loro, come il doganiere Tae-young che gioca a fare il truffatore per ripagare a Park un debito ereditato dall’amante che lo ha abbandonato e ha come unico aiuto quello di un galoppino buffo quasi quanto incapace (e inaffidabile), Carpa, un team di gangster improvvisati le cui vicende, manco a dirlo, volgono sempre più verso il peggio nel corso dell’intera pellicola e proprio nel momento in cui Tae-young quasi si auto-convince di avercela fatta (l’aneddoto delle Lucky Strike ne è un succosissimo esempio, alla luce del finale); poliziotti apparentemente sul pezzo ma in realtà parecchio male in arnese, che hanno la soluzione di tutti i misteri praticamente sotto il naso ma il naso troppo affondato nel bicchiere fino a stordirsi d’alcool e teoremi sgangherati, precisini nella preparazione della loro pista ma troppo superficiali per poter arrivare a districare davvero un intreccio apparentemente impossibile da sciogliere; e infine femme fatale sexy e ferali come la Yeon-Hee di Jeon Do-yeon, manipolatrice senza scrupoli e senza un briciolo di morale, disposta a tutto pur di riguadagnare la propria libertà e ottenere ciò che desidera, vero centro dell’intera storia e dalla quale è letteralmente impossibile staccare gli occhi di dosso, tanto è magnetica la sua presenza sullo schermo. Intorno a questi caratteri che sono a loro volta altrettanti tòpoi di un genere ben codificato e canonizzato, si dipanano i mille rivoli di una trama raccontata attraverso una sceneggiatura serratissima e con un tono che, come detto, oscilla tra il pulp vero e proprio, volontariamente estremizzato fin quasi a diventare caricaturale, e il noir d’atmosfera, il giallo a bivi, il gangster movie ad alta velocità con spruzzate di dramma esistenzialista e siparietti da commedia slapstick. Insomma, un gran pastiche di idee, citazioni, colpi di scena, con una messa in scena iperrealista e credibile raccontata attraverso una serie di sequenze bellissime, dalle quali traspare una cura per la composizione e un gusto per l’immagine estetizzante che fa di questo Beasts Clawing at Straws un qualcosa di veramente bello da vedere, una successione di quadri di perfezione pittorica inanellati con un’eleganza asciutta ma mai sbrigativa, centellinando ogni emozione, curando ogni minimo particolare. Come dicevamo all’inizio, è presto per capire se Kim Yong-hoon ci sia o ci faccia, e quale sia la sua personale visione della macchina-cinema, la sua originale impronta sulla messa in scena e sulla composizione delle immagini in movimento: e pur tuttavia, i 108 minuti di Beasts Clawing at Straws sono Cinema con la C maiuscola, un macchina perfetta lanciata verso una conclusione inaspettata, un elegantissimo gioco d’autore, un’autentica gioia per gli occhi e la mente. Da vedere, senza se e senza ma, se non altro per coltivare la speranza di poter assistere a una crescita autoriale del suo giovane deus ex-machina, ulteriore rappresentante di una cinematografia in profondo, rigogliosissimo fermento.

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