“In our secret world, we were colliding”: Us di Peter Gabriel e i suoi trent’anni di futuro

In a sense this album was about relationships; on a personal level and on a more social, global level I think the same principles apply. It was a time when, after my marriage had broken up, I was doing a lot of therapy and really trying to learn a lot about what had gone wrong and I think it was a very important period for me. It [the album] was quite heavy for a lot of people in terms of content and also sound. Most records, particularly in America, everyone brightens up the top and makes everything bright, jangly and awake, and I was trying with this record to take a different approach, and make things duller. What seemed interesting to me, I think, to some other people’s ears just seemed bad. There was that issue.

Esattamente trent’anni fa, sei anni dopo il successo planetario di So, vedeva la luce Us, sesto album solista di Peter Gabriel (era il 27 settembre del 1992). Fin dal primo ascolto, dovette risultare straordinariamente chiaro come ci si trovasse di fronte a una “bestia” totalmente diversa da quella che l’aveva preceduta: laddove infatti So (di cui parlavo nel dettaglio qui, in occasione del suo trentacinquesimo compleanno) inanellava un filotto di 9 brani in perfetto equilibrio tra sperimentalismo world e piacevolezza radiofonica, con punte d’eccellenza che molti pagherebbero per poter raggiungere nell’arco di un’intera carriera, figurarsi ritrovarsele nella stessa tracklist (penso solo a Red Rain, Sledgehammer o In Your Eyes), Us si presentava fin dall’inizio come un ascolto più complesso, stratificato, e soprattutto come un lavoro estremamente personale, introspettivo, in particolare a livello del suo sviluppo testuale. Non che in Us mancassero i singoli di valore, tutt’altro: ma l’impressione, allora come oggi, riascoltandolo, dev’essere stata quella di trovarsi di fronte a un magma di significato ancora più sotterraneo, a tratti dolente, assai più di quanto non fosse accaduto col suo illustre predecessore (che pur tuttavia trattava tematiche non meno importanti, ma d’altro canto Peter Gabriel è sempre stato uno di quegli artisti che potremmo definire “impegnati”). I temi che incontriamo in Us sono fondamentalmente quelli della separazione, della difficoltà a intrecciare e coltivare i rapporti con gli altri e, più in generale (come si evince anche dalla citazione posta in esergo a questa analisi), Us è un disco che parla di relazioni, relazioni tra gli esseri umani, sia a livello personale che universale, collettivo: un disco sugli altri e su se stessi, sul modo in cui cerchiamo di rapportarci agli altri e, allo stesso tempo, di conoscere noi stessi. Tra un matrimonio al collasso, quello con la storica compagna Jill Moore (sì, proprio lei, quella dei famosi versi And it’s hello babe, with your guardian eyes so blue/ Hey my baby, don’t you know our love is true contenuti nei meravigliosi ventitré minuti di Supper’s Ready di cui avevo parlato in questa piccola recensione), e un rapporto difficoltose con le figlie, Gabriel attraversò un lungo periodo di terapia nel tentativo di ricostruire un orizzonte emotivo stabile, e Us è irrimediabilmente figlio di questo periodo di auto-coscienza, riflessione e lavoro su se stesso: non un disco facile, sia a livello di liriche che, conseguentemente, a livello musicale; e infatti Us contiene alcuni tra i testi più intimi e dolorosi scritti da Gabriel, accompagnati da una musica che è spesso un flusso sotterraneo, oscuro, magmatico, a tratti vicino a un ribollire minaccioso. Al tempo stesso, Us è anche un album nel quale l’inclinazione e l’interesse di Gabriel per la world music, già evidenti in numerosi episodi di So e nella serie di album omonimi che l’avevano preceduto, diventa pienamente “sistema”, e suoni provenienti da altri mondi (sia geograficamente che temporalmente: penso all’uso profondo e curioso della tecnologia, sia a livello di scrittura che a livello di artwork e multimedialità) vengono integrati magistralmente dentro il tessuto “progressivo” dei brani, proseguendo quella stessa tradizione che da anni aveva spinto Gabriel a mettere insieme la sperimentazione tecnologica e il ricorso a musicisti e a sonorità tipicamente acustiche e anche spazialmente lontane, provenienti da paesi come Egitto, Nord Africa o Armenia. Una buona parte la fa la collaborazione con Daniel Lanois dietro la console (che dopo Birdy e So raggiungeva con Us la quota dei tre album), in un periodo in cui il chitarrista canadese era reduce dalla trionfale produzione di un altro piccolo gioiello di rock del futuro, Achtung Baby degli U2, uscito appena un anno prima di Us; e, per il resto, c’è il gruppo di musicisti raccolti attorno a Gabriel per le sessions dell’album, tenutesi come di consueto presso i Real World Studios, lo studio personale del buon Peter nel Wiltshire (con un paio di piccole appendici ospitate a New Orleans e in Senegal), ovvero collaboratori di vecchia data e nuovi ospiti di valore assoluto, nomi che spaziano da Manu Katché all’immenso Tony Levin, da David Rhodes ad artisti del calibro di Sinead O’Connor, Brian Eno, William Orbit, Peter Hammill, John Paul Jones e L. Shankar (ne cito solo alcuni ma la lista è davvero sterminata).
La lavorazione dell’album si estese dalla fine del 1990 fino a una settimana circa prima dell’uscita, prevista per il 27 settembre del 1992, e dall’album vennero estratti quattro singoli:
Digging in the Dirt (pubblicato due settimane prima dell’uscita dell’album, il 14 settembre del 1992), Steam, Blood of Eden e Kiss That Frog, tutti usciti l’anno seguente (rispettivamente, l’11 gennaio, il 29 marzo e il 20 settembre del 1993). La tematica delle relazioni è resa evidente anche nello splendido artwork, realizzato da Gabriel col contributo del fotografo David Scheinmann:

The artwork I did with the photographer David Scheinmann and there was this sense of again playing with distortions from movement. Because the other theme of the album was relationships, you see me with arms open and this female form that’s pale, and lost, and not able to bring this presence into a fully real place.

Un’immagine insieme “digitale”, sporca, e mesmerica, allusive e affascinante: il tentativo di stringere qualcosa che sembra destinato a svanire, la levità e impalpabilità di una figura femminile che diventa perfetta metafora della difficoltà a connettersi con l’Altro. A completare il ricchissimo lavorio artistico sotteso all’album, che si fregia anche della consueta multimedialità cui il suo autore ci ha da sempre abituato (espressa qui, oltre che attraverso una maniacale attenzione all’aspetto “visivo” testimoniata dagli splendidi videoclip realizzati per i singoli estratti, anche accompagnando la versione CD dell’album con un software dedicato, intitolato Xplora1: Peter Gabriel’s Secret World, che permetteva agli ascoltatori di entrare dentro il mondo di questi dieci brani e di conoscere meglio il lavoro e il suo autore; una cosa che oggi può far sorridere, ma che per i tempi dava la misura dell’interesse di Gabriel per la tecnologia, e della sua dimensione, mai mutata, di instancabile curioso e sperimentatore di nuovi linguaggi), una serie di artwork realizzati per ciascuno dei dieci brani da altrettanti artisti, raccolti dentro il libretto. Come ricorda ancora lo stesso Gabriel,

Beside film, I love fine art. On the record we commissioned different artists to do pieces for each track… people like Rebecca Horn, Zadok Ben David, Jordan Baseman, Finbar Kelly, Andy Goldsworthy… there were some really interesting artists that we were able to get to work with. It was a lot of fun for me because I get to meet the artists sometimes, not always, and have some interaction with them. That’s a great by-product of this gig.

L’opening dell’album, affidata a Come Talk To Me, introduce esplicitamente il tema portante dell’incomunicabilità e delle relazioni difficili: incentrata sul tentativo di ritrovare un canale comunicativo con la figlia più giovane (Ah please talk to me/ Won’t you please talk to me/ We can unlock this misery/ Come on, come talk to me/ I did not come to steal/ This all is so unreal/ Can’t you show me how you feel now/ Come on, come talk to me), la canzone si apre su un sottofondo di cornamuse (suonate da Chris Ormston) che introduce ad un arrangiamento densissimo nel quale trovano spazio un prezioso loop del celebre percussionista senegalese Doudou N’Diaye, il Doudouk (flauto armeno) suonato da Levon Minassian e il lavoro certosino del duo Katché-Levin, quest’ultimo come sempre straordinariamente misurato ed efficace nei suoi interventi; le chitarre che scolpiscono il brano sono invece quelle di Rhodes (un chitarrista largamente sottovalutato, a mio modo di vedere, definito a più riprese dallo stesso Gabriel “uno scultore”, per la sua capacità di modellare il suono dei brani) e dello stesso Lanois, e il resto lo fa la voce di Sinead O’Connor, che duetta con Gabriel nei ritornelli, con un intermezzo affidato al coro del Dmitri Pokrovsky Ensemble. Come Talk To Me si spenge dentro i bassi profondissimi di Love To Be Loved, piccola sinfonia di suoni elettronici e programmazione, cullata dagli interventi delle chitarre minimali ed efficacissime del solito Rhodes, impreziosita dagli archi e dal violino di L. Shankar, dalle Sabar drums dell’ensemble The Babacar Faye Drummers e con Manu Katché che suona una batteria elettronica irresistibile, specialmente alla ripresa dopo il bridge. Love To Be Loved snocciola una melodia di assoluta qualità, e prelude efficacemente al singolo Blood of Eden: aperto da un’introduzione di chitarra, basso e Doudouk, il brano ha un sentore mistico e mediorientale ed è una ballad strepitosa sulla quale Gabriel duetta nuovamente con la voce eterea di Sinead O’Connor. Anche qui, il tema è il rapporto tra l’uomo e la donna, una riflessione dolorosa suggerita all’artista inglese dal proprio matrimonio appena naufragato: la musica culla delicatamente un flusso di pensieri declinati a metà strada tra il dramma e il fantastico con i bassi rotondi e magicamente ondeggianti di Levin, il drumming atmosferico di Katché (che il connubio dei due abbia costituto una delle sezioni ritmiche dalla sensibilità armonica e melodica più profonde mai immortalate nei solchi di un disco pop?) e la dodici corde di Rhodes che intarsia il brano caricandolo di un’ulteriore, delicata tensione emotiva; per il resto, sono i synth e il Doudouk a disegnare un quadro di struggente meraviglia, un brano che costruisce un magico climax in bilico tra un passato suggestivo e un futuro digitale, e che non a caso divenne uno dei momenti portanti della colonna sonora dello splendido Until the End of the World, opera-mondo di Wim Wenders, il film di fantascienza definitivo, odissea sentimental-tecnologica largamente realizzata in digitale, ambizioso esperimento sonoro e visivo del quale, prima o poi, penso proprio che parlerò (anche se, a onor del vero, nella colonna sonora del film finì una versione diversa di questo brano; pur tuttavia, lo spirito che innerva Us e questo brano è a tratti incredibilmente simile alle motivazioni sottese a Until the End of the World). Anche il video di Blood of Eden, che potete vedere in coda a questo pezzo, è carico di suggestione e simbologia, nel suo tentativo di raccontare lo smarrimento emotivo e sentimentale di una coppia che cerca di rimettere insieme (o anche solo di riflettere su) una relazione andata in frantumi. La successiva Steam è un po’ una specie di risposta al successo travolgente di Sledgehammer, con la quale Gabriel ritorna scopertamente ad omaggiare l’arte e l’opera dell’artista che da sempre ha considerato come una delle proprie maggiori ispirazioni, Otis Redding: come in Sledgehammer, anche in Steam la metafora sessuale è piuttosto scoperta e il brano, gonfio di tentazioni R’n’B e soul, si regge, oltre che sui fiati, sul groove di Katché e del MusicMan Stingray5 di Tony Levin. Only Us, come farà anche Digging in the Dirt, torna a premere sui temi dell’introspezione e della comprensione di sé, partendo dalla riflessione su una relazione in crisi: il tentativo di trovare un senso a se stessi e al proprio comportamento, di conoscersi senza negarsi anche quegli aspetti di sé che non sono lusinghieri, il bello e il brutto, tutto quanto senza filtri. Rispetto ai brani precedenti, Only Us segna anche un chiaro scarto in direzione della sperimentazione, ed è un episodio rarefatto, decisamente sperimentale, scandito da un battito minimale della batteria elettronica di Katché e dominato dai bassi liquidi di Tony Levin, che creano una tensione sorprendente: il bassista tiene insieme un groove granitico, costantemente sul pezzo, e coloriture melodiche affascinanti, al punto da sembrare a tratti impegnato a suonare un fretless (purtroppo non sono riuscito a trovare conferme riguardo a questo aspetto, ma sicuramente Levin possedeva un fretless, come ci insegna la storia dell’incisione di Sledgehammer). Il resto lo fanno il violino di Shankar e il Ney, altro flauto, stavolta caratteristico della tradizione colta persiana, suonato da Kudsi Erguner, che insieme alle svisate di Levin danno al brano un colore e un fascino assolutamente non occidentali, che esula nettamente dalle sonorità tipiche del rock: Only Us è a tutti gli effetti un piccolo capolavoro di progressive, inteso come fusione armonica di elementi distanti e loro superamento, riscrittura, inesausta re-invenzione. Washing of the Water pesca a piene mani dalla tradizione dal gospel, ma lo fa unendolo a un’inusitata sezione di fiati e archi: è quasi una ninna nanna, introdotta dalla batteria di Katché e dal basso di Levin, accompagnata dal piano, che si solleva delicatamente nei ritornelli e presenta una delle melodie più belle dell’intero lavoro, sulla quale la voce di Peter Gabriel raggiunge i massimi livelli di espressività e dolorosa fragilità (Feel like I’m sinking down/ Thought that I could get along/ But here in this water/ My feet won’t touch the ground/ I need something to turn myself around). Washing of the Water ha un tono quasi dimesso, è una canzone assolutamente minimale dentro la quale tuttavia succede di tutto: il suo sound delicato non deve trarre in inganno, perché il brano è estremamente complesso, concentrato, fatto di una successione di momenti molto ben calibrati, incentrato su un crescendo irresistibile degli archi e dei fiati sui quali la voce si arrampica con veemenza (Letting go, it’s so hard/ The way it’s hurting now/ To get this love untied/ So tough to stay with this thing/ ‘Cause if I follow through/ I face what I deny/ I get those hooks out of me/ And I take out the hooks that I sunk deep in your side/ Kill that fear of emptiness, loneliness I hide). Ai poco meno di quattro minuti di Washing of the Water segue la meravigliosa Digging in the Dirt: come pelando una cipolla, Digging in the Dirt invita a cercare dentro se stessi strato dopo strato, scavando nel torbido, affrontando senza paura tutto ciò che possa emergere. Il testo del brano, che come già detto fu primo singolo estratto dall’album e il cui video vinse un Grammy nel 1993, fu ispirato a Gabriel dalle modalità della terapia psicologica cui era sottoposto all’epoca e dalla lettura di un libro incentrato sullo studio della violenza omicida, di cui tuttavia Gabriel non ricorda il titolo (dovrebbe comunque trattarsi di Why We Kill: Understanding Violence Across Cultures and Disciplines di Nancy Loucks): il basso di Levin sconfina dentro un funk oscuro, accompagnato dal solito efficacissimo Katché, e le chitarre di Rhodes e Leo Nocentelli, che grattugiano le strofe, si stemperano magicamente nella celestiale apertura che caratterizza il bellissimo ritornello. Digging in the Dirt è nuovamente un brano sotterraneo, un notturno denso di idee, intuizioni, suoni alieni frullati e incastrati uno dentro l’altro (i synth di Gabriel e i djembe di Babacar Faye), ricuciti insieme a intessere una melodia indimenticabile, un pop sghembo, oscuro e assai poco rassicurante, dotato di una forza assolutamente fuori dal comune. Con Fourteen Black Paintings Gabriel ritorna a frequentare le sperimentazioni più ardite, come in Only Us o come era stato anche in We Do What We’re Told (Milgram’s 37) , tratta dal precedente lavoro So: qui è la visita alla Rothko Chapel a Houston, Texas, suggerita a Gabriel dal fido Rhodes, a dare il là al brano, il cui titolo rimanda direttamente alle 14 tele completamente nere che ornano la cappella del grande artista americano. Fourteen Black Paintings è una specie di sinfonia world, un esperimento tribalista che intreccia un numero spropositato di percussioni (dai djembe suonati ancora da Babacar Faye alle Tama fino al Surdo, suonato per l’occasione da John Paul Jones che mette mano anche alle tastiere e, come ovvio, ai bassi) con il violino di Shankar, il Doudouk di Minassian e un testo minimalista che tiene insieme melodia, mistica e spiritualità destinate a farsi concreta riflessione e manifesto politico (From the pain come the dream/ From the dream come the vision/ From the vision come the people/ From the people come the power/ From this power come the change), spingendo a vedere nel tema della lotta per i diritti umani e civili il motivo principale di questo curioso esperimento sonoro. Kiss That Frog, letteralmente abrasa dal riff graffiante e indimenticabile della chitarra elettrica distorta di Rhodes, vede Gabriel duettare con Marilyn McFarlane sui ritornelli, e si costruisce tutta su un loop di percussioni del gruppo Adzido Pan African Dance Ensemble e su numerosi strati di programmazione elettronica: il video del brano, realizzato da Brett Leonard, vinse un premio per i migliori effetti speciali agli MTV Video Music Award nel 1994. A chiudere il viaggio di Us è l’apoteosi di Secret World, che avrebbe dato il nome al seguente tour mondiale (recuperatevi il DVD se non l’avete ancora visto, vi lascio un estratto in coda a questo testo; e, già che ci siete, cercate anche il live album collegato): quasi sette minuti scanditi dalla batteria elettronica di Manu Katché (impegnato anche alle percussioni) che disegna un groove indimenticabile rimarcato dai bassi di Tony Levin. Secret World è probabilmente la canzone più bella dell’intero album, da un punto di vista melodico: a ispirare i versi di Gabriel, davvero, davvero splendidi, sono tutti quegli spazi misteriosi che si costruiscono dentro le relazioni, quegli interstizi nei quali si nascondono spesso tutte quelle cose che non vogliamo o non sappiamo dire, sui quali è così difficile gettare lo sguardo, di modo da comprenderli. In our secret world, we were colliding/ All the places we were hiding love/ What was it we were thinking of?, canta Gabriel, e come in Blood of Eden ritorna il simbolismo spirituale-religioso delle figure di Adamo ed Eva, nel tentativo di trascendere il racconto personale, la vicenda individuale, dentro un quadro finalmente collettivo, umano, globale: In this house of make believe/ Divided in two, like Adam and Eve/ You put out and I receive, recita il testo, e stavolta non sembra esserci spazio per quella fusione tra l’uomo e la donna che era il centro emotivo del terzo brano della scaletta (In the blood of Eden, lie the woman and the man/ I feel the man in the woman and the woman in the man). Con Secret World, Gabriel racconta di un mondo (vasto) nascosto dentro un altro mondo, anch’esso sterminato (che poi è quello delle relazioni umane, che si costruisce in un minimo di due persone): di nuovo, saper guardare con coraggio e onestà dentro un rapporto, in direzione di un qualcosa che non è noto e può anche non essere piacevole come desidereremmo che fosse. Se dal punto di vista dei testi Secret World è un passaggio di assoluto livello, musicalmente stiamo parlando di una suite di grandissimo impatto, costruita ancora principalmente sulla sua formidabile sezione ritmica (Katché- Levin) e che tiene insieme con grazia infinita il violoncello di Caroline Levine, i drum loop di Doudou N’diaye Rose e i synth di Malcolm Burn. Mondi dentro ai mondi, come da tradizione, nel più abbacinante esempio di quello che poc’anzi chiamavo rock del futuro.

A trent’anni di distanza dalla sua comparsa, Us è un altro di quei lavori che non hanno mai esaurito ciò che avevano da dire, e che ci parla con la stessa forza con cui lo faceva all’inizio, appunto trent’anni fa: un lavoro denso, complesso e stratificato, sicuramente più difficile da penetrare di quanto non lo fosse il meraviglioso So, che lo aveva preceduto e che era senz’altro più immediato, e che pur tuttavia parla direttamente all’orecchio e all’animo di chi sa porsi in ascolto, e lo fa con la sincerità di una confessione a cuore aperto, sofferta ma coraggiosa, trasfigurata ora nella poesia (come in Blood of Eden) ora dentro musica indimenticabile (come avviene in Secret World). Us è un lungo racconto, complesso come solo l’animo umano sa esserlo, perché è appunto il racconto di un’anima che si trova separata da ogni altra e tenta di riconnettersi (alla propria compagna, alla propria figlia, alle relazioni incrinate, ma in ultima analisi al mondo intero) attraverso lo scavo dentro di sé, la conoscenza del proprio intimo: la musica che accompagna questo racconto è densa, profonda, sfaccettata e stratificata come lo è l’animo di cui parla, a volte delicata, a volte respingente, compressa e distesa, fantasiosa, oscura, tribale, scandita da ritmi che affondano le radici in epoche lontane, spogliati e riletti nella loro contemporaneità attraverso un suono di modernità assoluta, tale da essere quasi in anticipo sui tempi. Peter Gabriel è uno di quegli artisti che da sempre hanno saputo unire i livelli del tangibile, la fisicità, e quelli del simbolico: con la sua ricerca musicale, incessante, e con i suoi testi, che sposano elementi anche molto distanti tra loro. Per Us, come era stato con So sei anni prima e come sarebbe accaduto con Up dieci anni più tardi, Gabriel scelse di affidarsi ad un monosillabo come titolo, un monosillabo che altro non è se non, nuovamente, un mondo che contiene mondi, mondi che collidono tra loro e generano senso: la chiave che permette di accedere ad un grandioso racconto che parla del blocco emotivo, dell’incapacità di comunicare con le persone che si amano, della difficoltà a ritrovare l’orientamento dentro le proprie relazioni personali (e collettive), in ultima analisi della fragilità, che è una condizione delicata quanto preziosa. Per questo, come tutto ciò che parla di ciò che è umano e lo fa con umanità, Us è un’opera senza tempo, destinata a trascendere mode e correnti e a condurre il proprio messaggio ben al di là di una playlist tematica o di un’effimera posizione di classifica; e soprattutto è un gran disco, che contiene un’ora di musica che ha ancora pochi pari nel panorama variegato del pop mondiale, eseguita da una band stratosferica e scritta e orchestrata da quello che è uno degli ultimi, veramente grandi artisti rimasti in circolazione all’interno del panorama della popular music. Mi piace pensare, mentre riascolto questi brani, che oggi Us stia compiendo trent’anni di futuro: forse non tutto è andato come ci si aspettava, ma certe visioni sono destinate a restare immortali.

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