And when I stopped looking for me I was able to find you: The Line is a Curve, Kae Tempest (2022)

This record is meant to symbolise a journey through different pressures, whether it’s the pressures of a relationship, or trying to survive and build the name for yourself or just trying to get through the day. It will mean something different to everybody, but that’s the beauty of language.

Per chi scrive, Kae Tempest è una delle voci poetiche più interessanti della contemporaneità: al culmine di un percorso letterario (e artistico) che l’hə portatə infine a dichiararsi persona non binaria nel corso del 2020, scegliendo di indentificarsi e definirsi attraverso l’uso dei pronomi singular they/them, lo scorso 8 aprile Tempest ha dato alle stampe il suo quarto LP, intitolato The Line is a Curve, che giunge a tre anni di distanza da The Book of Traps and Lessons, pubblicato ancora col vecchio nome di Kate Tempest, e del quale parlavo qui. La cifra stilistica dei lavori di Tempest è rimasta invariata: un profondo minimalismo sonoro, governato dalla presenza sapiente del fido collaboratore Dan Carey, ad accompagnare la voce recitante di Tempest, come sempre autorə di testi la cui urgenza espressiva è tale da eguagliarne l’evidente forza poetica. La scrittura di Tempest resta sempre tesa come una corda di violino, e il suo ritmo serrato emerge chiaramente nello scontro con le basi musicali approntate da Carey: una scarica di parole che riescono a rivelare un senso, tracciare una direzione, invitare alla scoperta di qualcosa di nuovo. The Line is a Curve, allusivo fin dal suo titolo apparentemente contraddittorio, si nutre proprio di contrasti per dipingere la storia di uno spirito che torna a se stesso: è il racconto di un viaggio, di un percorso che ha portato lə suə autorə a riappropriarsi della propria identità, imparando a riconoscersi, a nominarsi e infine ad amarsi. Un percorso individuale che è al tempo stesso collettivo, sociale, perché solo nel confronto con il resto del mondo si può riuscire a trovare un senso anche alla propria esistenza: e a me piace sempre pensa che la poesia possa nascere solo da un incontro con l’Altro da sé. A questo proposito, non è un caso che il numero (e il valore) delle collaborazioni lungo queste dodici tracce sia nettamente più alto (e soprattutto determinante) che in passato: a duettare con i versi di Kae Tempest troviamo infatti autori dalla sensibilità disparata, da Grain Chatten dei Fontaines D.C. alla cantautrice Lianne La Havas; da ássia a Confucius M.C. , uno dei rapper preferiti dell’autorə fino a Kevin Abstract; e, a sottolineare ulteriormente come solo la presenza dell’altro possa dare vita a un luogo e a uno spazio nel quale esista la poesia, le parti vocali dell’album sono state registrate in tre diverse sessioni condotte davanti rispettivamente a “un uomo di 78 anni che non ho mai conosciuto, una donna di 29, la poetessa Bridget Minamore, che è una mia cara amica, e poi tre giovani fan di 12, 15 e 16 anni che hanno risposto a un post sui social”. Non è difficile leggere già solo in questa affermazione tutta quell’urgenza espressiva che emerge chiarissima dalle dodici tracce del disco, i cui versi incidono immediatamente le orecchie e i cuori di chi ascolta.
L’apertura è affidata al sound quasi industrial di
Priority Boredom, con lo spoken word di Tempest che tracima ben volentieri in un rap serrato, aggressivo, carico della consueta, feroce espressività: Priority Boredom introduce al tema delle pressioni che straziano la vita quotidiana, dalle pressioni legate alla fama alle “più comuni” ma non meno pesanti pressioni sociali (I can die faster than you/ Build up resilience, build up views/ But you can’t build for long on a partial truth). Echi di new wave minimalista innervano la splendida I Saw Light, che vede Grain Chatten affiancarsi con versi scritti di proprio pugno alle parole di Tempest: dall’incontro/scontro tra le sensibilità dei due interpreti emergono nuovi, dolorosi significati, e il brano scorre nelle orecchie come una potentissima metafora dell’incontro. Altrettanto minimalista, ma maggiormente declinata nella direzione di un rap oscuro e disperato, è Nothing to prove: nelle parole di Tempest, “a statement song” , con un linguaggio che è pura ritmica e che si sposa perfettamente ai rintocchi di drum machine che scuotono il brano. La ballad No prizes tiene insieme spoken word e neo-soul, con Tempest a declamare le strofe (If I could do it all again, no question/ I could list ten things right now that I should’ve done different/ But where does that get me? ) e la cantautrice inglese Lianne La Havas a cantare i ritornelli (I just wanna keep climbing/ And I don’t know why/ I don’t mind, don’t mind): No prizes è un brano centrato sul desiderio, sui sogni che sembrano non realizzarsi mai, sulla voglia di credere comunque, di non arrendersi (And now it’s like my best days have gone by/ And I am scared that it’s all too late, is it all too late?/ They walk fast and I can’t keep pace/ They turn back, I watch the past cross their face and they say/ “If there’s still time on the clock, there’s still choices to make”). Le atmosfere di Salt Coast sposano inflessioni new wave vagamente in odore di anni ‘80, acide e notturne; la voce di Tempest oscilla come sempre a metà strada tra rap e spoken word generando una performance di intensità enorme, carica di tensione, frammentata, dolente, che si solleva (insieme alla musica che lo accompagna) nei refrain. Salt Coast è, tra quelli presenti nell’album, il racconto forse più diretto della continua, dolorosa battaglia che occorre affrontare per riappropriarsi di se stessi e, proprio come questa battaglia che va in scena ogni minuto della nostra vita, oscilla tra l’oscurità, la rabbia e la speranza, tesa come una corda di violino: Now you want to be free/ From the strain of what’s done in your name/ Every single inch of you is somebody’s claim/ The familiar refrain/ Of their glory and your shame/ You just want to keep moving, the energy contained/ Is spilling out and making trouble for you/ Nothing is the same/ You got out from underneath the weight of suffer and obey/ The tyranny and hate of Britannia rules the waves/ And now you swing your hips as you go strutting down the lane/ I love you when I see you this plain. Se si dovesse scegliere un brano rappresentativo di questo “nuovo corso” dell’autorə londinese, Salt Coast sarebbe una scelta azzeccata: mai come in questo brano si tocca con mano come parole e musica, pur nel consueto minimalismo di quest’ultima, stiano ormai su un piano totalmente paritario, e sia sempre più difficile dire quale delle due componenti spinga sull’altra, orientandola, e quali (e quante, e di quale entità) siano le reciproche influenze. Con un finale che profuma dei fiati in certi passaggi strumentali dei migliori Sigur Ròs, Salt Coast lascia spazio alla chitarra folk e vagamente psichedelica di Don’t You Ever, presto scomposta matematicamente da un groove spezzato, claudicante, che si appiccica alle orecchie e spinge a dondolare la testa e muovere i piedi. La batteria e la chitarra si devono rispettivamente a Kwake Bass e Luke Eastop, compagni di Tempest in una vecchia band giovanile. Anche These are the Days, piena di vibrazioni addirittura floydiane, si giova dell’intervento dei due musicisti: il sound della band cambia completamente l’atmosfera di questi brani, e l’aggiunta dei fiati rende il sound (per quanto sempre molto minimale), decisamente più vasto, aperto, allusivo. Smoking torna a frequentare territori più vicini al rap: prendendo le mosse da una nota vocale che Tempest ha inviato a Carey dal backstage di un festival, riproposta tal quale nel brano con l’accompagnamento di sonorità elettroniche e minimali, Smoking propone nuovamente una potente metafora della riapproprazione di sé, dell’affermazione della propria identità, condendola con versi di uno splendore quasi commovente (Find me involved in the world/ All these fast talkers are trying to take hold of the world/ Thoughtless remarks and bold suppositions/ I’m sick of their mission/ Stop solving the world and start listening/ The world in the palms of your children/ No progeny needed for needless misogyny needling my/ Gentle demeaner/ I’m neither your wife nor your sister/ I’m deeper/ I’m here/ I’m a spear I’m a/ Shield/ I’m the light in the field/ I’m the vast promise revealed to be falsehood). Il brano viene rovesciato come un calzino dal contributo vocale di Confucius MC, che lo taglia a metà spingendo ancora più verso il rap le parole scritte da Tempest, con una batteria che viene portata in primo piano. A Smoking segue Water in the Rain, altra ballad nella quale lo spoken di Tempest è accompagnato e accarezzato dai vocalizzi di ássia, e il testo è una splendida poesia sull’amore, fra le alter cose (I carry our love in my hands through each turbulent day/ Like a full bowl of water in the rain/ My tenderness for you/ My hopes for our lives/ One careful step at a time): musicalmente, il brano crea un panorama magico sospeso a metà strada tra free form, hip hop e elettronica minimale. Move sembra nascere come una risposta ai due pezzi precedenti: nelle parole dellə stessə Tempest, “Move is a response to what’s come before. I’ve connected with the tenderness, so now I can really dig deep and find my strength. This is the time to get up off the floor and stand up for yourself. The idea of ‘Move’ is that you earn that strength by being that vulnerable. It’s a fight song. I might be losing right now, but I’m not going to give up” . Costruita su un pattern ripetuto di synth e sy una linea ritmica profonda e costante, che scava le parole e le asciuga, Move si conclude col verso “More pressure, more release” che introduce manco a dirlo al singolo More Pressure, forse l’episodio più easy listening del lotto, nel quale l’elettronica gestita magistralmente da Carey, di nuovo in odore di anni ’80 e addirittura di dancefloor, incontra l’ibrido spoken/rap di Tempest prima e la voce di Kevin Abstract dei Brockhampton poi, creando e nutrendo una tensione magistrale. “The Line Is a Curve builds its momentum. It’s like a wave: You build up all of this galvanising spirit of fight, and that’s what enables you to reframe the narrative of the pressures that you’re under. Now you can say, ‘Right, I get it. I’m under all this pressure, but I’m going to use all this pressure, and I’m going to use this energy to make change and cultivate greater acceptance.’ It’s all part of this swell that begins at the start of the record. Rick Rubin suggested that I give Kevin a shout. It’s not quite as close to home as the other collaborations, which are very much based in South London, but it opens the record up a bit more and, hopefully, allows more people in” . More Pressure è sicuramente uno degli episodi più riusciti dell’intero lavoro. A chiudere il cerchio, dato che questa linea è in realtà una curva e niente è davvero ciò che sembra, è il folk lieve di Grace, quasi una piccola preghiera:

The beloved watched the world on its knees with an infinite degree of separation
That was something to see
And my friend told me death is like taking off a tight shoe
And when I stopped looking for me
I was able to find you
Right there where everything is transcendent
I can feel myself opening up, getting closer
No hope is enough
I’ve stopped hoping, I’m learning to trust
I came to under that red moon
I was completely crushed

Quello di Grace è un finale disteso, quasi sereno, lieve e delicato: nel finale la chitarra acustica riprende, riappropriandosene, il tema portante di Priority Boredom, snocciolato con delicatezza fino a perdersi dentro l’orizzonte, e l’intero percorso del disco torna a chiudersi su se stesso.
Lo spoken word resta materia per amanti della poesia, questo è chiaro: eppure
The Line is a Curve espone altrettanto chiaramente una volontà feroce, un tentativo importante di muovere le istanze poetiche dellə suə autorə anche in direzione di un pubblico molto più vasto, quello che approccia la musica come esperienza sonora prima ancora che come veicolo letterario; non solo significato, ma anche significante. Il lavoro svolto da Carey e Tempest sulla natura (e sulla forma) di questi brani è magistrale, perché mantiene intatto il loro intrinseco minimalismo, il loro essere uno strato (o una sequenza di strati) che fa da fondamenta per l’edificazione di un edificio che è prima di tutto parola, prima di tutto poesia, ma al tempo stesso conferisce a questo approccio minimale un ruolo che è progressivamente più paritario rispetto alla stessa parola: come scrivevo poco fa in merito a Salt Coast, la più forte sensazione che si prova ascoltando The Line is a Curve è quella di un dialogo, di un confronto entusiasmante tra la musica e i versi, nel quale sono a volte le parole a spingere i crescendo, i momenti di pieno e quelli di vuoto, e altre volte le note a rallentare e accelerare il ritmo, a conferire uno spessore nuovo al respiro, la costanza ineluttabile di un battito cardiaco ai versi. Ecco, il respiro: la poesia di Kae Tempest è da sempre soprattutto urgenza comunicativa, una forza espressiva feroce e tagliente, intarsiata e incasellata dentro ritmiche serratissime; un’esperienza autenticamente poetica, nella quale il ritmo e il colore sono sempre presenti anche in assenza della musica. Provate anche solo a leggere uno di questi testi, o una qualunque poesia del loro autorə, e capirete di cosa sto parlando. In qualche maniera, la musica completa questi versi, li rende tridimensionali, vivi, si inserisce dentro il loro respiro e gli dà spessore, forza, ricchezza; le parole scandite da Tempest, le loro pause, i momenti in cui lə loro autorə prende il fiato sono tutti quanti sottolineati, arricchiti, impreziositi dagli accompagnamenti musicali, che li trasportano in una dimensione completamente nuova, diversa. Alla fine The Line is a Curve è un lavoro che parla del respiro, perché è il respiro che ci rende vivi, e l’umanità che trasuda da queste dodici poesie in musica è un’umanità viva, vibrante, reale; è vita scegliere, è vita sbagliare, è vita perdersi e non sapersi ritrovare, è vita riappropriarsi di sé, tornare a sé, scoprire chi siamo, prendersi per mano. Non è un caso che questo sia forse il lavoro più scopertamente, dolorosamente personale, più intimo e insieme più onesto, aperto, tra tutti gli LP realizzati da Tempest: un lavoro nel quale la ricerca dell’identità è completata, dichiarata ed espressa, e che pure tuttavia rappresenta magnificamente un inizio (l’inizio di una vita, in particolare) e non la fine di un percorso; un disco nel quale la linea della vita è una curva, qualcosa di inusitato, molte curve dietro le quali si possono nascondere cose tanto diverse tra loro, che non avremmo saputo immaginare; un disco nel quale si può tornare a fare i conti con il proprio sé, dopo aver accettato e lasciato andare ciò che è stato, al punto che Kae Tempest arriva a metterci addirittura la faccia, per la prima volta, attraverso le splendide foto che accompagnano il disco, opera del grande Wolfgang Tillmans. E non è ovviamente un caso che il viaggio di Tempest conduca agli ultimi versi di Grace, che recitano There are things I must record, must praise/ There are things I have to say about the fullness and the blaze/ Of this beautiful life, of this beautiful life : The Line is a Curve è in fondo il racconto di una vita, la storia di una vita, il poema di un nuovo inizio, il canto della scoperta che non tutto è sempre semplice come sembra, che non tutto è destinato a rimanere uguale, immutabile, freddo e distante. Che, come dicevo poc’anzi, ci si può avvicinare, ci si può toccare, ci si può tenere per mano: Let me be loved/ Let me be loving sono altri due versi di Grace. Lascia che io sia amatə, lascia che io ami: l’unica cosa che non è lecito fare è fermarsi, restare immobili, non parlare questi sentimenti e condannarli a spegnersi per sempre, a morire lentamente, o in altre parole I love the way you fade/ into a sky that is as endless/ As your willingness to try/ Keep going and it will get better/ I love the way you push to get clear/ I love the way you dance to get strong/ Ancient/ Slick clay, rock-formed, wet sand, moss-borne/ What camе before/ And what will come aftеr. Come scriveva Tempest qualche anno fa in una poesia intitolata The Point e tratta da una vecchia, splendida raccolta (Hold Your Own, pubblicata in italia da edizioni e/o), Don’t matter that we’ll lose today./ It’s not tomorrow yet.



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