June Round-Up: la prima estate

Here’s a song I wrote last year, in the depths of lockdown – It’s a gentle technicolour world, which helped me process some of the grief I think we’re all feeling for our pasts and futures, in a myriad of different ways. I hope it soothes you 🙂

In attesa di Djesse Vol. 4, il buon Jacob Collier torna con una ballad che mescola sapientemente le tentazioni elettroniche di Djesse Vol. 3, di cui parlavamo pochi mesi fa col consueto fisiologico ritardo, con gli echi world music ascoltati nei capitoli precedenti della serie: il duetto con la splendida voce di Lizzy McAlpine fa il resto, e come se non bastasse il brano è tagliato a metà da un solo infuocato della PRS Signature di John Mayer, che porta dentro tutta quella serie di vibrazioni da soft rock anni ’80 (ed è subito cuore spezzato alla Slow Dancing in a Burning Room) che fanno di Never Gonna Be Alone, pubblicata lo scorso 10 giugno, una tavolozza ricchissima e affascinante, piena di colori e suggestioni. Al solito, un momento di grande musica da parte di quello che non mi sembra azzardato considerare uno dei compositori più raffinati e colti in circolazione, a dispetto della sua giovanissima età (stiamo parlando di un classe 1994); il contributo determinante di McAlpine (ormai una collaboratrice fidata di Collier, che ha a sua volta contribuito al secondo LP della cantautrice americana, Five Seconds Flat, e in particolare al brano Erase Me, come raccontavo qui col consueto eccesso di particolari) e Mayer fanno di questo singolo un’occasione unica per ascoltare qualcosa di veramente speciale, un prodotto confezionato con grande, grandissima classe. Spendo una parola anche per segnalare il bellissimo artwork, opera dell’illustratore Haemin Ko, che è anche animatore del video che potete ammirare qua sotto.

E con questo 2022 tornano anche gli Snarky Puppy, che hanno annunciato per il Settembre del 2022 la pubblicazione del loro nuovo lavoro di studio, Empire Central (ovviamente sempre per GroundUp Music): a lanciare il nuovo album, il 10/6 i nostri hanno dato in pasto al pubblico il primo singolo estratto, Trinity. Trinity è una composizione di Mark Lettieri, arrangiata insieme alla band, ed è un fulgido esempio di cosa possa essere il jazz del futuro, o la sua costola precipitata in questo nostro presente e incarnata dal sound colossale e senza tempo della big band guidata dal grande Micheal League: un brano dalle molteplici atmosfere, che oscilla tra il progressive-jazz, un mastodontico funk fatto di ostinati e incisi del basso e dei synth, e il lavorio incessante delle chitarre di Lettieri, Bob Lanzetti e Chris McQueen, senza dimenticare gli interventi di Shaun Martin al Talkbox e al Vocoder e le atmosfere rarefatte partorire dal Prophet 10 di Justin Stanton. Come sempre quando si parla di League e soci, questa traccia è una monumentale e irresistibile gioia per le orecchie e il cuore: dal groove colossale che la scandisce, generato dal Fender Precision di League e dai Moog e governato dalle due batterie di Larnell Lewis e Jamison Ross, ai suoi momenti più rarefatti, dagli shout chorus dei fiati al solo di chitarra con cui Lettieri infiamma la coda del brano, tutto concorre a fare di Trinity un’esperienza musicale multidimensionale, qualcosa che resta dentro e compone il perfetto biglietto da visita per l’album a venire.

Spoiler alert: qui siamo in territori per fanatici del basso elettrico (e del contrabbasso). Home Bass è il primo singolo estratto dal nuovo LP dei Bass Extremes (ovvero Victor Wooten, Steve Bailey e Gregg Bissonette) in uscita ad Agosto di quest’anno, S’Low Down, ed è un autentico tour de force bassistico: non che fosse lecito attendersi qualcosa di meno, ma qui non si sa proprio da dove cominciare, tanta è la carne a fuoco. Home Bass è un funk furioso che si apre in intere sezioni jazzistiche, con una serie di ospiti da far tremare le vene e i polsi: dominato dal groove implacabile della premiata ditta Wooten/Bailey/Bissonette, il brano si fregia della partecipazione nientepopodimeno che di Marcus Miller e di Sua Maestà Ron Carter che, con l’infinita classe che riversa da oltre mezzo secolo sul suo contrabbasso, tira giù una walking da brividi sulla quale un ineffabile John Patitucci (sì, c’è anche lui) può mettere insieme interventi solistici di purezza cristallina. Come commentava qualcuno su YouTube, Too many bass legends on one tune: roba da far esplodere la testa. Manco a dirlo, qui siamo oltre la Serie A: il pezzo è pura gioia, un devastante sprint tecnico e soprattutto una cavalcata attraverso cinquant’anni di storia della musica, dal funk al jazz. Ecco, una specie di viaggio allucinante che vi consiglio caldamente di affrontare.

“better a sore ass than a tattered soul”
(Vulfmon itself)

Lascio qui anche una coppiola di singoli pubblicati nel mese di giugno da Jack Stratton sotto il moniker Vulfmon per accompagnare la pubblicazione del volume numero 6 della beneamata serie Vulf Vault, dedicato stavolta proprio al contributo che Stratton ha dato all’universo-Vulfpeck: il vinile, che si intitolerà Here we go Jack (qui trovate il consueto crowdfunding), conterrà unicamente materiale inedito, composto dal buon Jack/Vulfmon appositamente per questa occasione e al pari del recente Wong’s Café (di cui parlammo estesamente a inizio anno, anch’esso composto unicamente di inediti) si preannuncia come un piccolo capolavoro. Ho scelto due pezzi molto diversi tra loro, Alone again, naturally (dato alle stampe lo scorso 17/06) e Take me to a higher place (uscito il 30/06), proprio per dare un’idea della ricchezza di ispirazioni e idee che abitano questo lavoro: il primo è una cover del brano di Gilbert O’Sullivan (Millennials don’t know this song. Boomers think it’s John Lennon. Ryan Lerman’s version is the one I heard. Monica Martin is the latest to pick up this hitchhiker, commenta Stratton nella descrizione del video su YouTube), una ballad sinuosa per il piano elettrico di Stratton/Vulfmon e la voce meravigliosa di Monica Martin, arricchita da un solo delicato e azzeccatissimo del flauto di Hailey Niswanger; il secondo un piccolo trip sospeso tra funk anni ’70 e psichedelia acida, uno strumentale irresistibile sul quale Stratton/Vulfmon suona TUTTO (batteria, basso, pianoforte e voce), accompagnato da Mocky ai synth e alle voci filtrate, costruendoci attorno un video completamente delirante che racconta la creazione di un culto (Jack has finally accepted his role as this fandom’s cult leader) e culmina nella massima che ho riportato in avvio di questo breve testo (mi viene da dire che potrei concordare con il commentatore che, sotto al video, ammette candidamente come “Better a sore ass than a tattered soul” is going to be put on my grave stone). Come al solito, quando si tratta di Stratton, lo spessore musicale si confonde (volutamente) con la stravaganza artistica, parlare di talento diventa assolutamente riduttivo e occorre scomodare la categoria del Genio: inutile aggiungere che di Vulfmon torneremo a parlare molto presto…

Cover me with shades of disbelief
Can happiness be someone else’s dream
Numbers call to spell my name
Move about as values change
Catch me if you can
But don’t delay
Today, today
It’s a dream away

È prevista per il prossimo 15 luglio la pubblicazione di una riedizione celebrativa per il quarantennale di The Party’s Over, primo LP dei Talk Talk, storica band di Mark Hollis, Paul Webb e Lee Harris (della quale, se frequentate questo blog, ma a esser sinceri anche e forse soprattutto se non lo fate, dovreste aver già sentito parlare): ad anticiparla, lo scorso 17 giugno è stata pubblicata una reissue del singolo Today, che era stato il terzo brano estratto da The Party’s Over. Questa riedizione (con tanto di nuovo master digitale) consente di riapprezzare Today e la sua b-side It’s so serious così come apparvero quarant’anni fa nel 7” originale, e aggiunge al pacchetto anche il contenuto del 12” pubblicato all’epoca, ovvero una extended version della stessa Today e una versione live di It’s so serious suonata al David Jensen Show su BBC radio. Al di là dell’intento celebrativo è comunque sempre un piacere tornare a godere dello splendido basso fretless di Webb, del drumming esatto e trascinante di Harris e della voce e del genio senza tempo di Hollis: si tratta dei primi passi di una band che, nel decennio successivo e prima di sparire dai radar dopo lunghi litigi con la EMI (ne parlavo brevemente qui e qui) o volontariamente, come accaduto per Hollis, avrebbe contribuito in maniera determinante (e a volte ancora troppo poco riconosciuta) a riscrivere le regole del gioco nel campo del pop/rock, attraverso l’ibridazione col jazz, sconfinando nel free form e contribuendo a inventare dal nulla il linguaggio rarefatto e allusivo di quello che, un decennio dopo capolavori come The Spirit of Eden e Laughing Stock, dimenticando totalmente il contributo creativo di Hollis, Tim Friese-Greene e soci, avremmo cominciato a chiamare post-rock. Non male per chi partiva dal più classico (ma di gran classe) synth-pop tanto in voga negli anni ’80, e male non fa ripassare le basi e riconoscere la grandezza di questi musicisti anche a tanti anni di distanza.

Vi siete mai chiesti cosa succederebbe se le ritmiche geometriche che da sempre costituiscono un marchio di fabbrica della musica dei Gorillaz, band capitanata da Damon Albarn, già leader dei Blur, e Jamie Hewlett, fumettista e graphic designer inglese, incontrassero l’eclettismo, il virtuosismo e la verve sperimentale del basso elettrico di uno dei miei musicisti preferiti, ovvero Thundercat (al secolo Stephen Bruner)? Ecco, non lo avevo mai fatto nemmeno io, ma ora abbiamo una risposta, e il suo nome è Cracker Island: lo stile camaleontico e senza compromessi dei Gorillaz che si adatta al sound di uno dei più grandi bassisti in circolazione, in grado di prendere il brano e farlo proprio sia attraverso gli inconfondibili fraseggi del suo sei corde che, e forse anche soprattutto, tramite l’uso caratteristico della propria voce per i cori. Cracker Island è pop del futuro, un groove trascinante e un testo allucinato, e la chimica tra le sue componenti assolutamente irresistibile: non so se qyesto brano sia destinato a restare un episodio isolato, ma penso che sarebbe interessante approfondire ulteriormente questa collaborazione tra le geometrie indie-dancefloor della band di Albarn e Hewlett e il neo-soul jazzy e pieno di contaminazioni funk e RnB di cui Bruner è oggi il maestro indiscusso e incontrastato. Incrociamo le dita, chiaro, ma anche se fosse stato l’amore di un giorno, ne sarebbe valsa comunque la pena.

“La Coinquilina” è la canzone che ho scritto dopo una delusione che non posso neanche chiamare “d’amore” dato che non c’è stato il tempo di sviluppare chissà quale sentimento. Praticamente l’anno scorso mi ero invaghita di un ragazzo che aveva tantissime qualità e che nella mia testa (non avremo mai la conferma, ma i segni a me sembravano piuttosto inequivocabili) era a sua volta interessato a me. Purtroppo, dopo qualche settimana sono venuta a sapere che si era dimenticato di dirmi che non solo era fidanzato, ma viveva insieme alla sua compagna che quindi per me è diventata la sua “coinquilina”. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era scriverci qualcosa sopra, perché la situazione mi sembrava davvero tragicomica, ed è esattamente quello che ho fatto.

Ho incrociato Chiara Cami (al secolo Chiara Camillieri, classe 1998) su Instagram, ho capito che è stata YouTuber ma soprattutto che sta cercando una strada come cantautrice, con riferimenti ben evidenti e piuttosto internazionali (penso soprattutto ad artisti d’oltreoceano quali Lizzy McAlpine, ormai una vecchia conoscenza di queste pagine, o Taylor Swift, e scartabellando online mi risulta che la stessa Camillieri abbia vissuto sei mesi negli States per cercare di inseguire questo sogno americano). Ad ogni modo, è andata a finire che Chiara Camillieri è tornata in Italia, ha scritto per un po’ in inglese e poi ha cominciato a scrivere in italiano, senza però perdere di vista i propri riferimenti: lo scorso 10 giugno, col già citato nome d’arte di Chiara Cami, ha pubblicato, per l’etichetta 2o Records il singolo La Coinquilina, distribuito da Artist First, che è un brano pop di semplicità e schiettezza disarmanti, fresco ed estivo almeno quanto sottile e autoironico. La Coinquilina racconta la storia di due ragazzi che si incontrano, si conoscono, si piacciono, finché lei non scopre che lui è già impegnato in un’altra relazione e addirittura convive con l’altra donna: una storia tragicomica riversata nelle note insieme a una tonnellata di ironia, con versi che mi hanno strappato più di un sorriso (Il tuo cane ha un’opinione/ Sullo scioglimento dei ghiacciai/ Sulla tua vita da rockstar part-time) e l’accompagnamento di una chitarra lieve, forse un po’ come lo racconterebbe la stessa Taylor Swift se solo masticasse un po’ di pop italiano. Non è troppo il mio genere, lo ammetto, ma la scrittura è fresca e diretta e la voce di Chiara Camillieri veramente molto bella: di strada da fare ovviamente ce n’è, ma questa partenza lascia intravedere molte ottime possibilità.

Di Verskotzi, al secolo Joey Verskotzi, ho già parlato almeno un paio di volte nell’ultimo anno, qui e qui in particolare, e non potevo mancare di segnalarvi il suo ritorno lo scorso 24 giugno col nuovo singolo Talking to Myself, che ha anticipato la firma di un nuovo contratto di distribuzione per l’artista con l’etichetta discografica PREACH Music. Venendo alla musica, Talking to Myself è un ottimo esempio del pop-soul ibridato di elettronica cui Verskotzi ci ha abituato nel tempo: nobilitato dalla batteria serrata di Bryan Hanna e soprattutto dal basso filtrato di Ian Martin Allison, al solito un’autentica forza della natura quando si tratta di tirar fuori suoni sintetici da bassi assolutamente analogici (seguitelo su Instagram per credere), il brano resta sospeso tra tentazioni quasi shoegaze nell’arpeggio introduttivo e atmosfere pienamente anni ’80, con una spruzzata di drum’n’bass acida, senza per questo togliere spazio al romanticismo complessivo di cui sono intrise le melodie. Talking to Myself è un altro passettino che speriamo conduca presto Verskotzi verso un LP che dia piena forma alla sua affascinante idea musicale.

(English version) I have already talked about Verskotzi, aka Joey Verskotzi, on these pages, at least a couple of times during the last year, and particularly here and here, and I’m very happy to report here about his new single Talking to Myself, published on June 24 in conjunction with the signing of a new contract between the artist and the record label PREACH Music. Coming to music, Talking to Myself is an excellent example of the pop-soul-eletronic hybrid to which Verskotzi has accustomed us over the time: embellished with the tight drums of Bryan Hanna and above all with the filtered bass of Ian Martin Allison, a bassist who is an authentic force of nature when it comes to extract synthetic sounds from absolutely analogue basses (follow him on Instagram to believe), the song remains suspended between almost shoegaze temptations in the introductory arpeggio and fully 80s atmosphere, with a splash of acid drum’n’bass, but not lacking the overall romanticism that characterizes Verskotzi’s melodies. Talking to Myself is another step that we hope will soon lead Verskotzi towards an LP capable to give a full shape to his fascinating musical idea.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.