Angelheaded Hipsters and Spanish Air: Gaucho (Steely Dan, 1980)

Qualche giorno fa avevo trovato la citazione perfetta per introdurre questo articolo, ma purtroppo ho il viziaccio di non salvare quasi mai niente (convinto che tanto ritroverò tutto) e, come potrete immaginare, non sono riuscito a ritrovarla. La citazione in questione proveniva credo da un’intervista a Donald Fagen e Walter Becker, che forse i più conoscono meglio con il nome di battaglia di Steely Dan, e trattava dell’approccio della band alla composizione e alla registrazione con particolare riferimento a Gaucho, il loro settimo album di studio pubblicato il 21 novembre del 1980 prima di uno iato lungo vent’anni che avrebbe dato spazio ai progetti solisti dei due (su tutti, il celeberrimo e bellissimo The Nightfly di Fagen, che sarebbe uscito nel 1982) e sarebbe stato interrotto solo nel 2000 con la pubblicazione di Two Against Nature (sebbene la band si fosse già riunita a metà degli anni novanta per alcuni tour). A grandi linee, quello che i due volevano comunicare era che il loro processo creativo prevedeva ormai il raggiungimento della perfezione e, una volta ottenuto questo, il suo superamento, anche a costo di buttar via tutto il lavoro fatto e ricominciare dalle fondamenta: un’affermazione che rende abbastanza bene l’idea del perfezionismo estremo e della paranoia che Fagen e Becker hanno sempre saputo mettere nel loro processo compositivo prima, e realizzativo poi. Non più tardi di un mese fa abbiamo parlato su questo blog di due lavori seminali dell’universo Steely Dan, lo splendido Aja (1977), realizzato con la band, e appunto il già citato esordio solista di Fagen, The Nightfly (1982). Mi è sembrato ragionevole proseguire questa analisi del lavoro di Fagen e Becker parlando del disco che tra Aja e The Nightfly va a inserirsi, appunto Gaucho, prima di celebrare (vi concedo una piccola anteprima dei prossimi post) il cinquantesimo anniversario dell’album di esordio del duo, Can’t Buy A Thrill, uscito il 1 novembre del 1972 per ABC Records.

Gaucho è stato un lavoro dalla gestazione estremamente complessa: le prime sessions, sotto l’egida del solito Gary Katz, risalgono al 1978, e sono occorsi ben due anni per completare l’album, che di contro è un lavoro estremamente concentrato e costituito da 7 brani per soli 37 minuti di musica. I problemi personali di Becker hanno posto ulteriori ostacoli lungo il percorso, alcuni anche molto gravosi (la morte per overdose dell’allora compagna del chitarrista, Karen Roberta Stanley, a seguito della quale Becker verrà citato in giudizio dai familiari della donna, uscendone assolto; e un incidente stradale che coinvolse lo stesso chitarrista, investito da un taxi e costretto a restare ricoverato in riabilitazione per un periodo di sei mesi, lontano dallo studio e dal sodale Fagen, col quale comunicava solo telefonicamente), determinando in parte le lungaggini realizzative (anche se, come immaginerete, fu soprattutto il noto perfezionismo dei due a pesare sulle tempistiche). Tuttavia, nonostante le molte difficoltà incontrate, con Gaucho (come avvenne a suo tempo anche per Aja) siamo di fronte a un ennesimo game changer. Lungo i sette brani che costituiscono la tracklist, il tessuto dell’abito pop indossato da Fagen e Becker, come sempre sfavillante, si fregia di una trama jazz espressa assai meno nella consueta forma di lussureggianti progressioni armoniche (da questo punto di vista i brani più interessanti sono forse Glamour Profession e Gaucho, mentre negli altri episodi le strutture sono armonicamente più piane) e maggiormente come un colore diffuso, una pioggia di particolari di gran gusto che arricchisce tutte quante le composizioni. Dal punto di vista dei testi, Gaucho è evidentemente un lavoro crepuscolare, centrato principalmente sulla disillusione che accompagna l’avanzare del tempo: i versi di Fagen parlano spesso di wannabe hipsters (intesi nel senso storico del termine) tristemente fuori tempo massimo, con una grande abbondanza di figure grottesche che si succedono nei vari passaggi e un sarcasmo particolarmente tagliente circa i vizi di un mondo sull’orlo del suo tracollo. Altrove si è definita la musica di Gaucho (come più in generale quella di tutti gli album della band) una musica obliqua, piena di liriche strane, canzoni devianti e bizzarre sotto tutti i punti di vista che pure rimangono calde, piene di feel e incredibilmente musicali. L’accusa più frequentemente (e fatalmente) rivolta ai nostri è sempre stata quella di essere “easy listening”: e seppure l’ossessione del duo per la registrazione tecnicamente perfetta non abbia certo aiutato a diluire la sensazione di molti di trovarsi di fronte a un prodotto laccato, levigato e sostanzialmente innocuo, ascoltando attentamente non è possibile negare come al di sotto di questa superficie così perfetta si nasconda un tumulto sotterraneo, un’inquietudine prolifica e stimolante. Ebbene sì, le canzoni degli Steely Dan sono divertenti, sono piacevoli, sono esteticamente perfette: e sono anche altrettanto interessanti e stimolanti da un punto di vista del contenuto che veicolano, che sia esso strettamente musicale (la ricchezza delle composizioni di Fagen e Becker è fuori discussione) o inteso in senso più ampio, allargandosi anche alle liriche. Come scrivevo già a proposito di Aja, il mondo narrativo degli Steely Dan è uno spazio abitato da vecchi hipster che non sanno rassegnarsi al tempo che passa, musicisti squattrinati in cerca di un’affermazione che probabilmente non arriverà mai, tossicodipendenti alle prese con le loro prime esperienze lisergiche; racconti di amori irregolari, rapporti falliti, tragicomiche delusioni esistenziali, il tutto sullo sfondo sgranato, a bassa risoluzione, del sogno americano che lentamente diventa la rutilante parodia di se stesso, esplicitata nello sfoggio del lusso, nel vuoto dei valori, nell’(auto)condanna all’indifferenza. Nel Best of Steely Dan pubblicato da Hal Leonard si definisce Gaucho come “a concept album of seven interrelated tales about would-be hipsters”: in esso, il sarcasmo feroce di Fagen e Becker si esercita di volta in volta su un’utopia californiana che diviene sbiadita parodia di se stessa durante il tramonto della terza età raccontato lungo i versi di Babylon Sisters (We’ll jog with show folk on the sand/ Drink kirschwasser from a shell); sulle vicende di un patetico vecchio hipster che tenta disperatamente di approcciare ragazze più giovani solo per rendersi conto di quanto siano diverse da lui, in Hey Nineteen (Hey Nineteen/ That’s ‘Retha Franklin/ She don’t remember the Queen of Soul/ It’s hard times befallen/ The sole survivors/ She thinks I’m crazy/ But I’m just growing old/Hey, nineteen/ No, we got nothin’ common/ No, we can’t dance together/ No, we can’t talk at all), annaffiando la propria inevitabile e un po’ ridicola inadeguatezza dentro l’abuso di alcool e droghe (The Cuervo Gold/ The fine Colombian/ Make tonight a wonderful thing); sulla vita scintillante di uno spacciatore, raccontata con dovizia di particolari dentro il testo di Glamour Profession, e le sue connessioni con il mondo glamour e brillante di Los Angeles e Hollywood (tra yacht armati di radar per inseguire le murene, All aboard the Carib Cannibal/ Off to Barbados/ Just for the ride/ Jack with his radar/ Stalking the dread moray eel/ At the wheel/ With his Eurasian bride, e uno stuolo grottesco di Celluloid bikers e Szechuan dumplings); sul racconto dolceamaro di una storia d’amore gay mandata in frantumi da un gigolò che veste i panni bizzarri di un gaucho, un uomo in spangled leather poncho che riesce a distruggere la quiete domestica della coppia entrando dentro la loro preziosa dimora, la leggendaria custerdome (uno dei molti neologismi che attraversano i testi di Fagen e Becker i quali, sebbene reticenti alle spiegazioni dei propri versi, hanno deciso di esplicitarne il significato: “It exists only in our collective imagination. In the Steely Dan lexicon it serves as an archetype of a building that houses great corporations”); e poi sull’esperienza lisergica del primo incontro con la droga, raccontata in Time Out of Mind, un trip delirante infarcito di slang metropolitano (Tonight when I chase the dragon/ The water may change to cherry wine/ And the silver will turn to gold) che sfocia in visioni allucinate pilotate dall’oppio e dal crack (I am holding the mystical sphere/ It’s direct from Lhasa/ Where people are rolling in the snow/ Far from the world we know), in un misto scanzonato di eccitazione e senso di colpa; sulla trama da noir losangelino di My Rival, abitata da un detective con l’apparecchio acustico (He’s got a scar across his face/ He wears a hearing aid) sulle tracce di un generico criminale da smascherare (Sure, he’s a jolly roger/ Until he answers for his crimes/ Yes, I’ll match him whim for whim now); e infine, soprattutto, su tutti gli ipocriti benpensanti che si interessano alle sorti del mondo solo fintantoché questo non comporta alcun impegno reale, attivo, dimenticandosi delle più giuste istanze non appena riescano ad ottenere qualcosa per se stessi o i propri cari, foss’anche soltanto l’apprezzamento degli altri, proprio come raccontato in Third World Man (nomignolo ironico affibiato ai destinatari di questa invettiva). Non sorprende, in fondo, come l’unica risposta che Fagen riesca a propiziare sia un’autentica era del terzo mondo (addirittura recitata in italiano nell’ultima strofa), celebrata cantando that Ghana rondo, un chiaro riferimento alla musica jazz intesa anche nel suo senso profondo di statement politico. Le tematiche brevemente elencate sono chiaramente ben lontane dai cliché della musica rock commerciale o radiofonica dei tempi, e soprattutto trattate con un’ironia feroce a metà strada tra Bret Easton Ellis (allo stesso mondo luccicante narrato dallo scrittore americano sembrano di fatti rivolgersi anche Fagen e Becker) e l’amata Beat Generation: un po’ angelheaded hipsters burning for the ancient heavenly connection to the starry dynamo in the machinery of night, e un po’ American Psycho, tra efferatezze, lusso sfrenato sfoggiato con annesso cattivo gusto di serie, miseria umana malamente mascherata dalla brama di potere e di denaro e tanta, tanta solitudine e disillusione.
Al fascino di
Gaucho contribuisce anche il suo artwork: difficile far meglio dello splendido lavoro grafico che aveva accompagnato Aja, eppure la cover di Gaucho riesce ancora una volta a sintetizzare efficacemente la ricercatezza dell’opera della band e la ricchezza dei suoi molti riferimenti musicali. Ispirata a una targa murale realizzata dall’oscuro artista argentino Israel Hoffmann e intitolata Guardia Vieja Tango (ancora visibile presso il Caminito Street Museum a Buenos Aires), la copertina raffigura due persone impegnate a ballare un tango: quella che sembra una donna (sebbene con un polso particolarmente mascolino e uno stivale non proprio femminile che esce dal vestito), rappresentata di spalle con indosso un malinconico abito color del cielo, e un uomo in nero, caratterizzato da un vistoso e folto mustacchio. Le due figure sono colte nel mezzo di una torsione, avvinghiate in un abbraccio che sembra carico di nostalgia e di trasporto emotivo. La scelta di questa immagine, in un certo senso, raccoglie l’ennesimo easter egg seminato da Fagen e Becker lungo la loro opera: come forse già saprete, tradizionalmente, il tango argentino veniva ballato da due uomini (e non da un uomo e una donna), o quanto meno questo avveniva ai tempi della sua introduzione (esattamente quelli raffigurati nel murale di Hoffmann sulla Guardia Vieja). La danza tra due persone dello stesso sesso permetteva ai ballerini di essere pronti ad accompagnare una donna nella milonga, ed era considerata una specie di “palestra” per il rituale del ballo. Considerato il tema portante della title track, non sarà stato un caso che Fagen e Becker abbiano scelto per la cover dell’album proprio questa immagine tra le molte possibile, un’immagine che appare volutamente ambigua considerandone il contesto nel suo complesso (ambigua sebbene mascherata: raffigurare apertamente due uomini impegnati in una danza sarebbe stato forse troppo “estremo” per gli anni ‘80). Curiosità a parte, va da sé che la scelta dei due tangueri risponde anche alla precisa volontà di testimoniare l’interesse della band nei confronti della musica latinoamericana, palesato lungo i solchi di Gaucho ed espresso esplicitamente nell’andamento della title track.

Poi ovviamente ci sono i musicisti, ovvero le folte schiere di session musicians provenienti tanto dalla East quanto dalla West Coast alle quali Fagen e Becker, dopo esser rimasti un duo a metà degli anni ‘70, si sono sempre rivolti per realizzare le proprie visioni musicali: oltre quaranta gli artisti coinvolti nel progetto, quasi tutti ampiamente brutalizzati lungo sessioni infinite alla ricerca del colpo di rullante perfetto, dell’intonazione certosina o della rifinitura giusta per questa o quella parte di un brano. Qui si esce dalla storia della musica e si sconfina nel Mito: a raccogliere le varie testimonianze dei musicisti circa le vessazioni subite in studio da Fagen e Becker si potrebbero scrivere dieci post e comunque non si arriverebbe nemmeno a metà del racconto (cliccando qui trovate un efficace e sintetico riassunto). Su Gaucho possiamo ascoltare una serie impressionante di chitarristi, tra i quali spiccano Hiram Bullock, Larry Carlton, Steve Kahn e Mark Knoplfer, bassisti come Chuck Rainey e Anthony Jackson, i fiati di musicisti come Randy Brecker, Michael Brecker e David Sanborn, pianisti del calibro di Rob Mounsey, Don Grolnick e Joe Sample e un autentico parterre de rois dei migliori batteristi in circolazione non solo all’epoca, ma forse nell’intera storia della musica popolare (Steve Gadd, Rick Marotta, Jeff Porcaro, Bernard Purdie). Proprio sulle batterie amavano accanirsi Fagen e Becker, desiderosi di ottenere il suono perfetto e insoddisfatti con qualunque batterista: come ricorda Kahn in una bellissima intervista,

If you can believe it, once I asked Donald why we hadn’t done a week of tracks with Steve Gadd, and he said to me: “We love Steve’s playing, but he’s got a funny beat!” I’m still not certain as to just what he meant. But I laugh every time I think about that.

Lo stesso Jeff Porcaro, letteralmente devastato dopo ore e ore di esecuzione della titletrack nel tentativo di accondiscendere alle richieste impossibili del duo, così avrebbe rievocato quelle pazzesche sessioni in sala di incisione:

From noon till six we’d play the tune over and over and over again, nailing each part. We’d go to dinner and come back and start recording. They made everybody play like their life depended on it. But they weren’t gonna keep anything anyone else played that night, no matter how tight it was. All they were going for was the drum track.

L’insoddisfazione di Fagen e Becker per le parti di batteria fu tale e tanto intensa da spingere i due ad assemblare molti brani pescando dalle varie take le parti che trovavano maggiormente convincenti (Gaucho è per l’appunto realizzata in questo modo, pare partendo da ben 46 diverse take registrate da Porcaro, ma lo stesso vale per molti altri brani, soprattutto quelli che hanno coinvolto il cosiddetto “funny beat” di Steve Gadd). Addirittura i due arrivarono a chiedere al loro ingegnere del suono, Roger Nichols, di programmare una batteria interamente elettronica che fosse in grado di dare ai brani il suono che gli Steely Dan desiderano avessero. Celebre fu scambio di battute tra i tre:

It’s too bad that we can’t get a machine to play the beat we want, with full-frequency drum sounds, and to be able to move the snare drum and kick drum around independently.’ Nichols replied ‘I can do that.’ This was back in 1978 or something, so we said ‘You can do that???’ To which he said ‘Yes, all I need is $150,000.’ So we gave him the money out of our recording budget, and six weeks later he came in with this machine and that is how it all started.

In effetti l’ingegnere costruì questa archetipica drum machine, che venne chiamata Wendel.Tuttavia Wendel non fu sfruttato efficacemente nella realizzazione dell’album, poiché il suo uso risultò essere troppo dispendioso dal punto di vista computazionale (per programmare un unico colpo di rullante potevano occorrere venti minuti di lavoro e decine di righe di codice: Wendel was insanely expensive—one crash cymbal cost twelve thousand dollars worth of RAM—and getting the machine to “play” anything was a laborious, coding-intensive process undertaken in the 8085 assembly language, a now obsolete protocol for translating symbolic code into object code. Fagen remembered Nichols typing for twenty minutes and then pressing return for only a single snare hit to come out. It’s crude by today’s standards, but in the spring of 1979 it was, well, the radar equipped eel-stalking yacht of programmable percussion). Ciononostante, a Wendel fu riconosciuto addirittura un disco di platino per celebrare le vendite dell’album, quasi un caustico sfottò ai tanti, fantastici batteristi umani che si erano impegnati oltre ogni limite per dare a Gaucho quel leggendario feel ritmico che tutt’oggi, innegabilmente, continua a possedere.

Perché è proprio il groove il vero protagonista di questi iconici 37 minuti di folgorante musica pop. Gaucho comincia riprendendo quello che era stato uno dei signature groove di Aja, l’half time shuffle partorito da Bernard Purdie per la meravigliosa cavalcata di Home At Last: Purdie concede uno straordinario bis accompagnando il brano d’apertura, Babylon Sisters, un trascinante ibrido funk-jazz accarezzato da una pazzesca sezione di fiati (la tromba di Randy Brecker, i clarinetti di Walter Kane e Tom Scott, e il sax tenore ancora suonato da quest’ultimo, per un arrangiamento condotto da Rob Mounsey) e con la chitarra vagamente reggae di Steve Kahn e il basso dell’immarcescibile Chuck Rainey a cesellare questo crepuscolare racconto del tramonto dell’utopia californiana. Si vocifera che lunghe ore di lavoro furono spese in sala mix per perfezionare il fade out finale del brano, della riuscita del quale i nostri non erano mai abbastanza soddisfatti. Il funk’n’roll sornione di Hey Nineteen cattura alla perfezione tutta la disillusione un po’ nostalgica che accompagna la vicenda dell’anziano hipster a caccia di giovani ragazze: sugli scudi il drumming di Rick Marotta, le chitarre geometriche di Hugh McCracken, Becker a occuparsi dei pedali bassi e un affascinante assolo di Fagen al synth. Glamour Profession affianca a pulsazioni ritmiche in odore di disco una linea di basso magnetica suonata dal grande Anthony Jackson, che ipnotizza l’ascoltatore e sospinge il pezzo insieme a folate mesmeriche di Fender Rhodes: al resto pensano i fiati (Michael Brecker sugli scudi), il lavoro immaginifico di Steve Kahn alle chitarre elettriche e l’inquietudine ritmica di Steve Gadd. Glamour Profession è un brano molto articolato, oltre sette minuti di una suite dalle sonorità metropolitane (e un po’ metrosexual) con uno splendido solo di chitarra di Steve Kahn ad accompagnare il fade out finale.
La titletrack,
Gaucho, porta con sé un’altra storia che vale la pena di raccontare. poco dopo la pubblicazione dell’album, in un’intervista concessa a Musician Magazine il 1 marzo del 1981, andò in scena questo siparietto:

MUSICIAN: Are you familiar with a Keith Jarrett record Belonging, particularly a tune called “Long as you know you’re living yours”?

BECKER: Yes.

MUSICIAN: Have you ever listened to that up against “Gaucho”?

BECKER: No.

MUSICIAN: I’m not casting any aspersions now, but in terms of the tempo and the bass line and the saxophone melody it’s pretty interesting.

BECKER: Parenthetically it is, yeah [uneasy laughter]

MUSICIAN: At this point the reporter traditionally asks the cornered politican or athlete to “go off the record.”

FAGEN: Off the record, we were heavily influenced by that particular piece of music.

BECKER: I love it.

[Becker and Fagen later approved their “off the record” responses for publication.]

Ai tempi, a ben pochi sfuggì la netta somiglianza tra Gaucho e Long as you know you’re living yours, soprattutto per quel che che concerne l’intro del brano di Fagen e Becker, davvero vicinissimo alle sonorità dello standard di Keith Jarrett (in particolare per le vamp del piano e la scelta di note del tema, ma più in generale per gli aspetti ritmici e armonici). Ne erano consci Fagen e Becker e senz’altro la cosa non sfuggì a Jarrett, che colse l’occasione per citare in giudizio la band reclamando la propria quota di diritto d’autore. La vicenda finì con l’inserimento di Jarrett tra gli autori del brano, caso unico di canzone degli Steely Dan composta più che a quattro mani. Sono quarant’anni e passa che la gente si domanda, genuinamente, come mai Fagen e Becker, una volta realizzata la somiglianza schiacciante tra i brani, abbiano deciso di procedere ugualmente e inserire Gaucho nell’album. Plagio d’autore, plagio d’amore? Mi sono scervellato per un po’ sulla cosa, ma poi ho deciso che mi piace pensare che i due l’abbiano fatto essenzialmente per trollarci (ben prima che questa parola venisse inventata) e, soprattutto, per poter vantare un brano scritto insieme a uno dei loro miti musicali, appunto Keith Jarrett: so che le cose non possono essere andate così, ma mi piace pensarlo. In fondo Fagen e Becker, da bravi nerd jazzofili, non devono esser stati troppo dispiaciuti di condividere questa autorialità con un Maestro come Jarrett. Venendo alla musica, però, occorre dire che Gaucho, al di là di ogni similitudine, è un brano che vive e splende di luce propria: esempio di pop fulminante nonché uno dei vertici del lavoro, Gaucho è un episodio ricco di inventiva ritmica e armonica e con aperture melodiche deliziose nei suoi ritornelli. Con la già citata Long as you know you’re living yours, Gaucho condivide un certo andamento spagnoleggiante: il sapore smooth jazz del sax tenore di Tom Scott rende immortale il tema, adagiato sulle ritmiche serrate del già citato Porcaro e sui bassi esatti di Walter Becker, autore di una magnifica bassline. Riascoltando Gaucho a distanza di 42 anni è incredibile come i Dan potessero essere insoddisfatti del suono della batteria di Porcaro, perché il drumming del batterista dei Toto fa letteralmente il pezzo, con una successione pazzesca di pause/ripartenze e di passaggi di inesauribile inventiva: il resto sta tutto nello splendido ritornello cantato da Fagen, accompagnato dai cori di Patty Austin, Valerie Simpson e Lesley Miller, e c’è spazio anche per un solo di Becker alla chitarra. Gaucho è un brano che ha tutto per essere un classico pop senza tempo: le armonie jazz e le atmosfere latine sposano meravigliosamente un drumming di livello epocale e una melodia che rimane stampata in testa. In quanti non vorrebbero poter avere accesso a quella leggendaria Custerdome cantata da Fagen al culmine del ritornello (se siete ancora curiosi e volete approfondire, cliccate qui e scorrete fino alla voce)?
Per parlare della traccia successiva,
Time Out Of Mind, bisogna scomodare un’altra leggenda, quella del contributo di Mark Knopfler: la storia vuole che Fagen e Becker, durante le sessions di Gaucho, ascoltassero per caso Sultans of Swing, innamorandosi istantaneamente del sound del chitarrista scozzese, al punto da volerlo coinvolgere subito nelle registrazioni del loro album. Mark Knopfler fu dunque invitato formalmente, ma sfortunatamente per loro (e soprattutto per lui) il buon Mark non eccelleva nella pratica del sight reading (correntemente sfruttata dagli Steely Dan in studio) e ben presto la sua partecipazione assunse i contorni dell’incubo. Per i meno avvezzi al gergo tecnico, con il termine di sight reading si intende di fatto la lettura a prima vista, ovvero la contemporanea lettura ed esecuzione strumentale dello spartito di un pezzo di musica mai letto né ascoltato in precedenza. Knopfler non era abituato a questi metodi, e ciò lo costrinse a incidere oltre 50 take per il suo intervento solista, che alla fine furono riassunti in una decina di ore di riprese dalle quali gli Steely Dan estrassero pochi secondi di un solo che conserva ben poco del sound inconfondibile per il quale Knopfler è giustamente passato alla storia del rock. Va detto anche che nei cinque minuti di Time Out Of Mind accadono talmente tante cose belle che alla fine, quasi inevitabilmente, l’intervento del buon Mark ne viene un po’ travolto e si smarrisce nell’insieme: primo fra tutti il drumming di Marotta, incastonato dai bassi fantastici di Becker, in particolare nei passaggi strumentali, il sax di David Sanborn e poi la performance vocale dello stesso Fagen, ottima come in tutti i brani ma qui particolarmente coinvolgente. Un piccolo gioiello, tanto prezioso quanto genuinamente orecchiabile.
My Rival è un funk molto più sporco, metropolitano e notturno: i fiati dei fratelli Brecker si stagliano sulle chitarre graffianti gestite da Hiram Bullock e Steve Kahn, con i bassi precisi e minimali di Anthony Jackson a sottolineare il groove impresso da Steve Gadd e Fagen a cantare un testo in odore di noir losangelino. Si tratta anche di uno dei tre brani dell’album sui quali Becker non suona (gli altri sono Babylon Sisters e Third World Man). Il brano conclusivo dell’album è appunto Third World Man, ma anche qui la storia è complessa: Third World Man fu inserita nella scaletta solo all’ultimo momento, dopo che la band non era stata in grado di trovare un buon episodio conclusivo per il disco, e soprattutto dopo l’accidentale cancellazione di oltre tra quarti dell’incisione di un brano intitolato The Second Arrangement, inizialmente pensato come ideale ultimo pezzo della tracklist di Gaucho. Dopo un po’ di tormenti assortiti, la band scelse di non incidere nuovamente The Second Arrangement e di recuperare piuttosto Third World Man, un brano che era stato realizzato nelle sessions del precedente Aja ma alla fine escluso dall’album. Come ricorda Larry Carlton: “When Billboard magazine came out … about Gaucho, it’s writing about the news ‘Steely Dan released … bla bla bla … and great guitar solo by Larry Carlton’, and I said, ‘but I didn’t play on Gaucho!, they’d cut it in New York, I didn’t play on it!’. So I found out later: they had finished mixing in New York, and one of the second engineers erased one of their master tracks. So “Third World Man” was in the can from The Royal Scam and they had to reach back into the old tapes and find something to finish the album, and that’s how I ended up on Gaucho playing “Third World Man”. Ora, non sono sicuro se Third World Man fosse stata registrata per The Royal Scam (come sostiene Carlton, sicuramente meglio informato di me) o per Aja, come avevo letto da qualche altra parte: il fatto che ci abbia suonato sopra Steve Gadd, assente nei credits di The Royal Scam ma coinvolto in Aja, mi lascia pensare che il brano provenga piuttosto dalle sessions di quest’ultimo album. In ogni caso, Third World Man è una ballad nostalgica e riflessiva, che cozza notevolmente con il caustico sarcasmo sottinteso nei suoi versi: Steve Gadd è estremamente compassato nel suo accompagnamento jazzy, Chuck Rainey piazza tutti i bassi giusti (poteva essere altrimenti?) e il già citato Larry Carlton si prende la scena con un solo indimenticabile che solleva tutto il brano, portandolo in orbita su un tappeto di piano elettrico (Joe Sample) e sintetizzatori (Rob Mounsey). Un passaggio strumentale realmente da applausi, come se ne sentono pochi in giro ancora oggi.

Gaucho si spegne nel fade out conclusivo di Third World Man, e con esso la prima parte della vicenda artistica degli Steely Dan. Concluso e infine pubblicato nel bel mezzo di una sequenza apparentemente infinita di drammi (piccoli e grandi) e innumerevoli problemi, Gaucho ottenne da subito un vasto riconoscimento: Rolling Stones gli concesse quattro stelle e mezzo nelle sua valutazioni, per il New York Times fu il disco dell’anno (subito davanti allo splendido Remain In Light dei Talking Heads, una band che Fagen stimava particolarmente, come si può leggere nella stessa intervista indicata poco sopra) e l’album raggiunse la posizione numero 9 nella classifica di Billboard. L’ossessione della band per la perfezione tecnica valse inoltre a Gaucho anche un meritatissimo Grammy nel 1981 come Best Engineered Non-Classical Recording. Capolavoro incentrato sulla disillusione, frammento esploso di ciò che resta(va) del Sogno Americano, Gaucho rimase il canto del cigno di una band che si sarebbe riunita solo una quindicina di anni più tardi, a metà degli anni ‘90, e sarebbe tornata a dare alle stampe un album solo vent’anni esatti più tardi, nel novembre del 2000, licenziando quel Two Against Nature che sarebbe valso a Fagen e Becker, forse i due più grandi irregolari della storia del rock’n’roll, un Grammy come Best Album of The Year nel 2001, davanti anche a un capolavoro indiscusso come Kid A dei Radiohead (con annesso codazzo di polemiche). Questa tuttavia è un’altra storia: quel che rimane è la forza di queste sette splendide canzoni, 37 minuti di un capolavoro senza tempo che a distanza di oltre quarant’anni suona ancora come se fosse stato registrato ieri, un lavoro che vola alto, addirittura ben oltre quel leggendario High in the Custerdome che coronava il ritornello della sua title track. Probabilmente è il destino della musica scritta per durare, nel bene e nel male: mi piace l’idea di chiudere questo scritto con un altro estratto dall’intervista a Steve Kahn, perché mi sembra che racchiuda bene il senso di cosa siano stati gli Steely Dan, il loro songwriting e il loro approccio alla composizione (e addirittura un pochino di inattesa umiltà da parte del buon Donald).

[question] When all is said and done, or written, do you have a final assessment of what this experience with Steely Dan was like?
[SK] In the end, Donald and Walter are simply superb and unique songwriters and, in his way, Donald is a wonderful and brilliant singing stylist.
I only wish that people could have heard those four songs that never got finished! The drum performances on them from Rick Marotta (“Second Arrangement”); Bernard Purdie (“Heartbreak Souvenir”); and Jeff Porcaro (“Kulee Baba” and “I Can’t Write Home About You”) were just out of this world!!! Oh well……what might have been!
One last little story, and it happened when Donald was really struggling to find one last song to complete “GAUCHO”! He phoned me one day, and by then, I had the confidence to speak with him frankly, and after hearing about his grave concerns about needing to have one more song, I decided to remind him that, at the very least, I knew that he had a GREAT performance on the track, “Heartbreak Souvenir” by Bernard Purdie [not to mention Don Grolnick, Anthony Jackson, and yours truly), and I begged him to PLEASE go back, and listen to it carefully!!! A few weeks later, he phoned me again to tell me that he had gone back and listened to that performance, and he said to me, “You know, you were absolutely right, it is incredible!!! But, it’s just too hard to sing for me!” And that was the end of it. As we all now know, “Third World Man” filled the role of the missing track!!! How about that?!?!?!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.