November Round-Up: Can’t Buy A Thrill

Piccola annunciazione: lo scorso novembre questo blog ha compiuto 15 anni! Questo spazio aprì i battenti il 9 Novembre del 2007, all’epoca come “costola” letteraria del progetto musicale eoslab. 345 post dopo (compreso questo), mi sembra d’uopo fare gli auguri a queste pagine, che rappresentano ancora per me, dopo così tanto tempo, qualcosa di molto, molto speciale.

Lo scorso novembre ha marcato un anniversario tondo tondo, che sembra cadere a fagiolo per chiudere (almeno momentaneamente) la retrospettiva sugli Steely Dan che ha accompagnato queste pagine nell’ultimo mese e mezzo: Can’t Buy A Thrill, l’album di debutto della band, ha spento infatti le candeline proprio il mese scorso, compiendo i suoi primi, splendidi 50 anni. Originariamente pubblicato per ABC Records nel novembre del 1972 (si mormora il 1 novembre, ma non ho trovato informazioni più precise a riguardo), Can’t Buy A Thrill fotografa gli Steely Dan quando erano ancora una band vera e propria, e non il duo che avrebbe consegnato alla storia capolavori immortali come Aja o Gaucho. La storia ormai la conoscete: Donald Fagen e Walter Becker, conosciutisi all’università, iniziarono a comporre musica insieme, con il sogno di diventare autori musicali. I nostri conobbero inizialmente un successo non proprio travolgente, ma la fortuna girò quando Gary Katz, associato nella società di produzione di Kenny Vance, la prima persona a coinvolgere Fagen e Becker in un progetto musicale (si trattava della colonna sonora di un film), divenne produttore per la ABC Records. Katz conosceva Fagen e Becker a seguito del loro lavoro sull’album I Mean To Shine di Linda Hoover, da lui prodotto: i due avevano prestato la propria scrittura al disco della Hoover (erano autori di cinque dei brani dell’album) e avevano anche accompagnato la cantante sul palco nel tour che ne era seguito. Katz decise di portare Fagen e Becker con sé a Los Angeles, offrendogli un lavoro da compositori dentro la ABC Records: resosi ben presto conto del fatto che i due scrivevano musica troppo elegante, complessa e articolata per la maggior parte delle band che gravitavano ai tempi attorno all’etichetta, li spinse a formare un duo e poi una band che fosse in grado di dare giustizia a quelle composizioni. Nacquero così gli Steely Dan: nome preso a prestito da un avveniristico vibratore a vapore descritto da Burroughs in Naked Lunch, inizialmente una band e in seguito (dal 1974) un duo, dedito alla composizione e al lavoro di studio più che alla dimensione del live (mai amata da Fagen e Becker). Gli Steely Dan avrebbero soprattutto coinvolto schiere di turnisti nella realizzazione di sette album tra il 1972 e il 1980, prima di uno iato di vent’anni che sarebbe stato interrotto nel 2000 e, nel giro di tre anni, avrebbe fruttato altri due LP. Di due capolavori come Aja (1977) e Gaucho (1980) abbiamo già parlato qui e qui, e così anche del debutto solista di Fagen, The Nightfly (1982): chiudiamo il cerchio (per ora) raccontando l’esordio assoluto della band. Sì perché, innanzitutto, nel 1972 gli Steely Dan erano una band: Donald Fagen a voce e tastiere, Walter Becker al basso elettrico e poi Jeff “Skunk” Baxter (chitarra e pedal steel), Denny Dias (chitarra e sitar elettrico) e Jim Hodder (batteria). Alla formazione che licenziò Can’t Buy A Thrill occorre inoltre aggiungere David Palmer, che prestò la voce a due dei dieci brani inclusi nell’album (Dirty Work e Brooklyn): questo perché agli inizi della band Fagen non era ancora sicuro di voler/poter cantare i brani scritti con Becker, un’insicurezza legata soprattutto alle proprie capacità di cantare dal vivo che avrebbe accompagnato il buon Donald per larga parte della sua carriera; per questa ragione (ma forse anche per dare una strizzata d’occhio al pubblico più “commerciale”), Katz assunse Palmer per cantare sui due brani succitati, mentre la parte vocale di Midnite Cruiser fu affidata al batterista della band, Jim Hodder.

Can’t Buy A Thrill venne registrato nell’agosto del 1972 al Village Recorder di Los Angeles: l’album ottenne un buon successo di pubblico, raggiungendo il diciassettesimo posto nella classifica Billboard e venendo certificato disco d’oro l’anno seguente (e disco di platino vent’anni dopo, nel 1993). La critica fu invece un po’ più lenta a riconoscerne il valore: d’altronde la scena rock nel 1972 era stata invasa dallo Ziggy Stardust di David Bowie e dal glam di Transformer licenziato da Lou Reed, mentre artisti come Iggy Pop, The New York Dolls e Alice Cooper stavano imprimendo al rock americano un’impronta molto precisa, anni luce lontana dalla proposta musicale di Fagen e Becker, due nerd jazzofili al comando di una band di perfetti accoliti, che suonavano un jazz-rock un po’ avanguardistico, già ricco di eleganza formale e impreziosito da testi surreali, filosofici e spesso piuttosto oscuri. Soprattutto, gli Steely Dan non offrivano “spettacolo” sul palco (che non fosse quello di un manipolo di musicisti di altissimo livello): alla proposta live della band mancava tutta quella cornice che stava diventando parte sempre più importante del quadro nella musica sia americana che proveniente da oltreoceano (basti citare, per l’appunto, Bowie). Usando le parole con le quali il critico musicale del Los Angeles Times Roger Cromelin recensì Can’t Buy A Thrill, “Live rock’n’roll is supposed to be a show, and how long can one look at a pair of denim overalls without becoming utterly bored or downright repulsed?”. Fortunatamente, Cromelin riconosceva alla band una certa presenza scenica, che definiva “moderately energetic”, chiosando con “If only they can find some time to go shopping”. Insomma, non esattamente un’investitura senza riserve: e pur tuttavia di Can’t Buy A Thrill siamo ancora a parlare, a cinquant’anni tondi dalla sua pubblicazione. Il titolo innanzitutto, pescato da un verso del brano It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry di Bob Dylan (incluso in Highway 61 Revisited del 1965), e la cover, un fotomontaggio realizzato da Robert Lockart e raffigurante un quartiere a luci rosse di Rouen con una fila di prostitute in attesa dei loro clienti; e poi una dichiarazione di Donald Fagen nelle liner notes dell’album, firmata con lo pseudonimo di Tristan Fabriani, che mette in chiaro fin da subito i contorni dell’operazione: “The newly formed amalgam [si riferisce agli Steely Dan, n.d.r.] threatens to undermine the foundations of the rock power elite”. La rivincita dei nerd, in qualche maniera: un progettino ambizioso, che trova la sua prima, potente incarnazione in dieci tracce elegantissime, che flirtano col jazz, includono strumentazione insolita e stravagante (flicorni, sitar elettrici) ma, soprattutto, hanno un pulsante cuore pop, e contribuiranno a ridefinire il modo stesso di intendere il pop-rock per anni a venire. Con il fido Roger Nichols dietro la console, anche Can’t Buy A Thrill presenta una lista di “additional musician” non indifferente: ci sono una piccola sezione di fiati (Jerome Richardson al sax tenore e Snooky Young al flicorno), Elliott Randall che suona le parti di chitarra solista in Kings e soprattutto in Reelin’ In The Years, il buon Victor Feldman alle percussioni (prima di innumerevoli apparizioni sui dischi dei Dan) e poi Venetta Fields, Clydie King e Sherlie Matthews a occuparsi delle seconde voci su Brooklyn e ancora Kings. Proprio nella complessità delle composizioni e nella ricercatezza dell’espressione formale inseguita da Fagen e Becker si esplica la meticolosa (e quasi morbosa) passione del duo per il meccanismo della musica pop: smontato, sviscerato, lucidato e rimontato fino a farlo diventare qualcosa di completamente nuovo, mai visto. Per adesso, un qualcosa di sottilmente strano, sghembo, attraversato da una delirante inquietudine ma non ancora compiutamente deviante, folle e caleidoscopico (come avverrà nei più avventurosi album a venire). Le liriche dei brani affrontano i temi della guerra (Fire in the Hole), ma parlano anche di prostitute, gangster e storie di infedeltà coniugale (penso a Dirty Work), o inanellano il trittico violenza-donne-soldi (ovvero i tre moventi che spingono gli uomini all’azione) come accade in Do It Again, ma sempre con tono sardonico e auto-ironico e un gusto tutto personale per l’eccesso verbale; musicalmente, invece, Fagen e Becker iniziano a portare dentro le strutture del pop e del rock quelle piccole coloriture jazz che sbocceranno compiutamente negli album a venire, senza mancare di lanciare qualche richiamo allo spirito dei tempi e alla popular music che i due maggiormente apprezzavano all’epoca o dalla quale erano in qualche modo stati ispirati (ci sono echi ben evidenti della scena beat disseminati tra i solchi, dai The Zombies ai Beatles, fino ai Beach Boys).

L’apertura è affidata alla super-hit Do It Again, qualcosa di già pericolosamente vicino all’idea della canzone perfetta: una specie di bizzarro folk-pop introdotto da percussioni felpate e da un leggendario giro di piano elettrico, impreziosito dai bassi continui e martellanti di Becker e soprattutto dai due soli di Denny Dias e Fagen, acido il primo e assolutamente delirante il secondo, con in più una performance vocale del buon Donald che vale già da sola la pena (buffo come, nel video live che vi lascio in fondo al testo, la linea di voce venga affidata a Palmer, con Fagen a doppiarlo nei ritornelli). Do It Again odora di anni ’60, controcultura, Easy Rider e dei grandi spazi polverosi d’America: la perfetta colonna sonora per un viaggio in auto, Wheel turnin’ ‘round and ‘round, e una dichiarazione d’intenti sulla svolta raffinata che Fagen e Becker volevano imporre al rock. Se il pop-folk lieve della seguente Dirty Work è forse meno sperimentale, non gli si può negare un profondo fascino: la melodia resta impressa in testa già al primo ascolto, impreziosita dalla calda vocalità soul di David Palmer, ed è soprattutto il lavoro dei fiati, il flicorno di Snooky Young e il sax tenore di Jerome Richardson, anche protagonista di uno splendido solo, a trasformare il brano in un episodio di assoluto valore (tutt’oggi, Dirty Work è una delle composizioni più note e amate dei Dan). Kings è un rock più intenso, in odore di satira politica (ipotesi fermamente rifiutata nelle liner notes dell’album, dove sotto al titolo del brano campeggia la dichiarazione “No political significance”): il pezzo si giova di un magnifico solo jazzy della chitarra di Elliott Randall, vicinissimo al formalismo chitarristico che contribuirà a definire il sound dei nostri negli album a venire (Aja in particolare). In Midnite Cruiser, Fagen cita apertamente Thelonius Monk, uno dei suoi eroi musicali, come farà innumerevoli volte nella sua lunga carriera: il brano si apre infatti con il verso Felonious, my old friend, e lo stesso titolo rimanda alla memoria Round Midnight, la più celebre composizione di Monk. In ragione della dimensione “personale” di questo omaggio, fa certamente impressione come a cantare il brano non sia il buon Donald ma, come già accennato, Jim Hodder. Midnite Cruiser tradisce inoltre per la prima volta la passione dei Dan per le storie di perdenti, personaggi tanto sfortunati da arrivare a innamorarsi delle proprie sfortune (vi dice niente Deacon Blues?): Tell me where are you driving/ Midnight cruiser?/ Where is your bounty of fortune and fame?/ I am another gentleman loser/ Drive me to Harlem or somewhere the same canta Hodder nel ritornello del brano, che si apprezza anche per il particolare solo di chitarra di Jeff Baxter. In Only A Fool Would Say That a esser preso di mira è l’idealismo da poltrona (un po’ come avverrà in futuro con Third World Man, tanto per citare un brano che i miei affezionati 7 lettori già dovrebbero conoscere), quello di chi pensa che i buoni sentimenti da soli bastino a cambiare lo stato delle cose: e se sembra naturale parlare di facile cinismo, è altrettanto vero che la posizione di Fagen e Becker pare essere (come spesso accade) giocosamente ambigua, come testimoniato dal testo del ritornello (I heard it was you/ Talking ‘bout a world where all is free/ It just couldn’t be/ And only a fool would say that), dove quel And Only a fool would say that potrebbe riferirsi a tutti e tre i versi precedenti o anche soltanto a It just couldn’t be, e di conseguenza il brano potrebbe avere due accezioni opposte. Qualsiasi riferimento (ovviamente sarcastico) a Imagine di John Lennon, uscita l’anno precedente, non è da considerarsi puramente casuale.

Il lato B di Can’t Buy A Thrill si apre col secondo singolo estratto, la leggendaria Reelin’ In The Years: il brano si un riff di chitarra trascinante che definire riconoscibile è dire poco, con le strofe affidate a un cantato-parlato strepitoso di Fagen adagiato su un tappeto di piano che scivola come un ottovolante verso l’irresistibile ritornello, mutuato ancora dal riff principale di Baxter. Il tono di Reelin’ In The Years è insieme nostalgico e graffiante: il brano racconta di una ragazza che sembra aver deciso di interrompere la relazione amorosa col narratore perché preoccupata di stare sprecando il tempo della propria vita, lasciandosi alle spalle sia l’uomo che molto altro per inseguire chimere e desideri effimeri e sempre cangianti. Il leggendario solo di chitarra di Elliott Randall, annoverato tra i più importanti della storia della popular music, venne registrato in una sola take (insieme a tutti gli altri interventi del chitarrista lungo il brano), come rievocato in un’intervista riportata da Guitar World:

They were having trouble finding the right ‘flavor’ solo for ‘Reelin,’ and asked me to give it a go. Most of the song was already complete, so I had the good fortune of having a very clear picture of what the solo was laying on top of. They played it for me without much dialogue about what I should play. It just wasn’t necessary because we did it in one take and nothing was written. Jeff Baxter played the harmony parts, but my entire lead—intro/answers/solo/end solo—was one continuous take played through a very simple setup: my old Strat, the same one I’ve been using since 1965, plugged directly into an Ampeg SVT amp, and miked with a single AKG 414. The whole solo just came to me, and I feel very fortunate to have been given the opportunity to play it.

Fire in the Hole ha un’intro che odora di jazz, e racconta di tutti quelli che (come Fagen e Becker) avevano scelto di fuggire la guerra in Vietnam, rifiutandosi di combattere (I decline to walk the line/ They tell me that I’m lazy/ Worldly wise, I realize/ That everybody’s crazy/ A woman’s voice reminds me/ To serve and not to speak/ Am I myself or just another freak? ì): un’altra performance vocale di livello assoluto del buon Lester The Nightfly, da affiancare a un solo di piano che volteggia elegantemente sospeso tra jazz e tentazioni classicheggianti. Brooklyn (owes the charmer under me) ha un arrangiamento impeccabile che odora di classico brano sixties, con i bassi sicuri di Becker a sottolineare questa improbabile lista di cose che Brooklyn dovrebbe al protagonista del testo (apparentemente, un vicino di casa di Fagen e Becker ai tempi di New York, dedito alla lamentazione indiscriminata). Baxter spezza il brano a metà con un assolo sulla sua pedal steel guitar, e la voce di Palmer presta al brano la giusta venatura soul. Change of the Guard è una marcia rockeggiante con Baxter alla chitarra solista e i bassi pulsanti di Becker che sottolineano una linea acida del piano elettrico di Fagen: un episodio divertito e godibile che gioca apertamente con gli stereotipi del pop (il ritornello a suon di Na na na na na na na na). La chiusura è affidata alla splendida Turn That Heartbeat Over Again, con un suono che si piazza a metà strada tra le delicatezze del prog (gli eterei arpeggi e gli intrecci di chitarre iniziali) e addirittura l’R’n’B dei bassi rigovernati dal buon Becker: tra cambi di tempo, pause e ripartenze, il brano intreccia le voci di Fagen, Palmer (anche coautore, coi nostri) e dello stesso Becker come un inusitato ma elegantissimo mantra e presenta un bellissimo solo di Fagen al synth che prelude al finale.

Per stessa ammissione (tarda) di Fagen e Becker, la musica di Can’t Buy A Thrill e dei primi album della band era intesa un po’ come un cavallo di troia per portare alle orecchie del pubblico idee musicali più complesse di quelle alle quali era abituato: “It was better to have our songs pass as pop songs and then have whatever else we wanted in them afterwards”, un po’ come diluire nel mare magnum della musica pop influenze che arrivavano dal bebop al blues fino alla canzone popolare americana di metà del novecento, e farlo con classe infinita. Ascoltando Can’t Buy A Thrill c’è una sensazione che si palesa chiara e assolutamente incontrovertibile: potresti mettere su l’album, schiacciare riproduzione casuale e stare comunque tranquillo perché qualunque cosa uscirà dalle casse sarà, a modo suo, un capolavoro. E così è, anche a cinquant’anni di distanza: una cosa non da tutti ma che può succedere quando, come hanno pazientemente fatto Fagen e Becker per tutta la loro carriera, tutto ciò che fai è sederti a smontare gli stilemi, i tic e i luoghi comuni di una musica, il rock, per poi iniziare a rimontarla in maniera strana, stridente, inconsueta e infine “piecing it back together strangely enough for it to approach perfection” (con questa frase si chiude la recensione che Pitchfork dedica all’album). Il primo album è sempre un passo complicato, ma se lo compi con la grazia che ha baciato le composizioni di Can’t Buy A Thrill direi che non hai poi molto di che preoccuparti.

PS: vi lascio con questo bel pezzo che parla in particolare dell’esperienza audio del vinile di Can’t Buy A Thrill. Confesso che la punteggiatura (l’uso disinvolto dei punti e virgola, soprattutto) mi ha reso la lettura un po’ difficile, però vale la pena perché resta uno scritto interessante.

Visto che mi sono dilungato con Can’t Buy A Thrill, cercherò di essere più rapido col resto del meglio di questo novembre. Intanto, come preannunciato il mese scorso, c’è finalmente un Tiny Desk Concert di Lizzy McAlpine: quattro brani, tre tratti da Five Seconds Flat (Ceilings, All My Ghosts e Weird) e un inedito (Emma) in una versione per chitarra, voce e cori (i Tiny Habits, ovvero Cinya Khan, Maya Rae e Judah Mayowa, del quale su questo blog abbiamo già parlato) di intimità assoluta e commovente. Della voce di McAlpine ho già parlato fino allo sfinimento: ascoltate anche voi e fatevi la vostra idea; per me, la sua espressività rasenta la perfezione.

(English Version) Since I dwelt on Can’t Buy A Thrill, I’ll try to be quicker with the rest of this November’s best. First of all, as announced last month, there is finally a Tiny Desk Concert by Lizzy McAlpine: four songs, three taken from Five Seconds Flat (Ceilings, All My Ghosts and Weird) and one unreleased song (Emma) in an intimate, moving rendition for guitar, voice and choir (Cinya Khan, Maya Rae and Judah Mayowa, best known as Tiny Habits). I’ve extensively talked about the beauty of Lizzy McAlpine‘s voice since last January (if I do remember correctly), so the only thing I will say is listen to her and make up your mind with your own impressions. To me, she borders on perfection.

Vi segnalo poi un album uscito lo scorso 11 novembre, Water Music, realizzato dal contrabbassista inglese John Pope e dal violinista John Garner. Di John Pope mi è capitato di parlare sul blog per il suo lavoro con gli Archipelago, Echoes to the Sky, del quale potete leggere qui e, in inglese, qui. Water Music è un interessante esperimento jazz, tutto basato sull’interplay tra Pope e Garner. Il disco si può acquistare direttamente dal bandcamp dell’artista, io vi lascio un video live di una straordinaria versione di Congeniality di Ornette Coleman (dal seminale album The Shape Of Jazz To Come del 1959) per incuriosirvi un po’.

(English Version) I would also like to report on an album released on November 11, called Water Music, by the English double bass player John Pope and the violinist John Garner. I happened to talk about John Pope on the blog for his work with the trio Archipelago, Echoes to the Sky, which you can read about here and here (in English). Water Music is an interesting jazz experiment, all based on the interplay between Pope and Garner. The disc can be purchased directly from the artist’s bandcamp, I leave you here a live video of an extraordinary version of Congeniality by Ornette Coleman (from the seminal album The Shape Of Jazz To Come, 1959), just to intrigue you a little.

C’è una data ufficiale: il prossimo 9 dicembre verrà infine pubblicato Paseo del Bajo Vol.2 del mio caro amico e fenomenale bassista Sebastián Tozzola. Lo scorso 15 novembre intanto è stato lanciato Microcandombe Nro 1, un piccolissimo antipasto dell’album a venire: un candombe indiavolato con percussioni, un basso come al solito incredibilmente espressivo e poche note del piano. L’attesa sta per finire, intanto godetevi questo minuto di meraviglia.

(English Version) There is an official date: next December 9, Paseo del Bajo Vol.2 by my dear friend and phenomenal Argentinian bassist Sebastián Tozzola (also an Ernie Ball Music Man artist) will finally be released. In the meantime, on November 15 Microcandombe Nro 1 was launched, a very short single to introduce the album to come: around a minute filled with a wild percussive candombe, an incredibly expressive bass (as usual) and a few, sparse piano notes as a sort of layer. The wait is almost over, meanwhile enjoy this minute of wonder.

Ho ascoltato per la prima volta Angelo De Augustine lo scorso anno, e mi riferisco in particolare alla sua collaborazione con il mio amato Sufjan Stevens per lo splendido A Beginner’s Mind (ne parlavo qui, ma è un album che continuo ancora ad ascoltare compulsivamente). Lo scorso 17 novembre De Augustine ha dato alle stampe un doppio singolo, composto dai brani 27 e Hologram, licenziato proprio attraverso la casa discografica del buon Sufjan, Asthmatic Kitty. I due brani non potrebbero essere più diversi tra loro, come a rappresentare due facce del loro autore: elettronico e stratificato 27, acustico e molto più folk Hologram. Su 27 fa capolino anche il buon Sufjan, con una lista di credits notevole (synthesizer, drum machine, electric guitar, background vocals, electric bass guitar, fender rhodes, production, arrangements, engineering) e il brano è una ballad romanticamente adagiata sulla splendida melodia vocale, con un testo bellissimo (And a love will always grow/ From a small seed planted below / Waves of light and a wash of rain/ Now a tree of love for our gain) e toni prossimi a quelli degli ultimi lavori di Stevens; più dimessa e delicata Hologram, che sembra ancora debitrice delle sonorità di A Beginner’s Mind, con un testo pieno di immagini fantasiose e poetiche (Love was a call to defend the Oracle’s high house of Delphi/ Roman insight on the destruction of man/ Frightened young ghost, serpentine host, luciferian / Bringer of the dawn upon the land). Inutile dire che c’è molta curiosità per un eventuale nuovo album, che speriamo arrivi molto presto.

(English Version) I had never listened to Angelo De Augustine before his collaborative album A Beginner’s Mind, realized with Sufjan Stevens and released last year for Asthmatic Kitty (here you can read my review of that album, which I still continue to listen compulsively). On November 17, De Augustine released a double single, composed of the songs 27 and Hologram, licensed again via the record company Asthmatic Kitty, owned and ruled by Stevens. The two songs couldn’t be more different from each other, as if to represent two faces of their author: 27 is an electronic, layered ballad, while Hologram is an example of lo-fi acoustic indie-folk. On 27 we can find also Sufjan Stevens playing (his credits include synthesizer, drum machine, electric guitar, background vocals, electric bass guitar, fender rhodes, production, arrangements and engineering) and the piece is a romantic ballad lying on a beautiful vocal melody. The lyrics are also noticeable, as easily expected (And a love will always grow/ From a small seed planted below / Waves of light and a wash of rain/ Now a tree of love for our gain), with a sound that appears quite close to that of Stevens‘ latest works. Hologram is way more humble and delicate, quite reminding the aforementioned A Beginner’s Mind, featuring very inspired lyrics full of fanciful and poetic images (Love was a call to defend the Oracle’s high house of Delphi/ Roman insight on the destruction of man/ Frightened young ghost, serpentine host, luciferian/ Bringer of the dawn upon the land). Of course I am a lot curious about a possible new album by De Augustine, and I really hope it will arrive very soon.

Per chiudere il 2022 con una buona (ma che dico? Ottima) notizia, lo scorso 25 Novembre i Vulfpeck hanno annunciato l’arrivo di un nuovo album di studio, accompagnato dal classico crowdfunding che si chiuderà a inizio Gennaio del 2023; tecnicamente quindi l’album uscirà l’anno prossimo, e sarà credo una delle prime cose che recensirò a Gennaio. Tuttavia, come da consuetudine, la band rilascerà un brano a settimana, con tanto di video di accompagnamento. L’album si intitolerà Schvitz e sembra riprendere (almeno a livello estetico) il mood mostrato in un recente live della band, ovvero un dress code strettamente legato all’uso di accappatoi e buffi cappellini rossi (fa già ridere così, ma come sempre sul situazionismo di Stratton & Co. c’è poco da dire). Per tenere fede all’idea, il video del primo brano, Sauna, è ambientato appunto dentro una sauna, con tutti i musicisti in tenuta d’ordinanza: il brano, composto a quattro mani da Woody Goss e Jack Stratton, è caratterizzato dalla linea di piano elettrico wurlitzer del buon Woody e dai bassi rotondi e meravigliosamente funky di Sua Maestà Joe Dart al Fender Precision Bass Junior, come sempre in grande spolvero. Per il resto ci sono gli intrecci vocali di Theo Katzmann e Antwaun Stanley, con Stratton dietro le pelli, Joey Dosik al piano e un Cory Wong straordinariamente compassato alla chitarra elettrica. L’unico commento che mi sento di fare non è mio, e lo potete leggere in calce al video nella (al solito) ricchissima sezione dei commenti: World’s first sauna where the water is heated with groove. Ad maiora, e bentornati!!!

(English Version) To close 2022 with good (well, in fact excellent) news, on November 25th Vulfpeck announced the release of a new album, accompanied by the usual crowdfunding campaign that will last until the beginning of January. So technically the album will be released next year, and I think it will be one of the first things I will review in January. However, as usual, the band will unveil one song a week, together with an accompanying video. The album will be titled Schvitz and it seems to follow the aesthetic mood expressed in the most recent live performance by the band, which can be summarized in a dress code closely linked to the use of bathrobes and funny red hats (we all perfectly know about Stratton & Co.‘s situationism). To keep following this idea, the video of the first song, Sauna, is set inside a sauna, as you may expect, with all the musicians wearing the official uniform (bathrobe + red hat). The song has been composed by Woody Goss and Jack Stratton: it features a gorgeous line by Woody Goss’ Wurlitzer, backed by Joe Dart‘s groovy and wonderfully funky basses (played on his beautiful, very short scale Fender Precision Bass Junior). Besides these, we have the vocal harmonies of Theo Katzmann and Antwaun Stanley, the solid drumming by Stratton himself, Joey Dosik on piano and an extraordinarily staid Cory Wong on electric guitar. The only comment I feel like making is not mine, and you can read it at the bottom of the video in the (as usual) very rich comment section: World’s first sauna where the water is heated with groove. Ad maiora, welcome back and an happy low-volume funky November to everyone!!!

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