Beat generators: Vulfnik (Vulfmon, 2023)

Dalle parti dei Vulfpeck ci deve essere (e lo saprà bene chi segue con attenzione queste pagine) una concentrazione inusuale di menti creative dalla particolare prolificità: se di Cory Wong, che dei Vulfpeck è la chitarra ritmica inesauribile, si parla sempre troppo poco (non foss’altro perché a tratti è difficile stargli dietro), un altro che certamente non sta con le mani in mano è il buon Jack Stratton. Deus ex Machina della superband Low-Volume Funk, il buon Stratton ha le mani in pasta ovunque, dalla produzione all’esecuzione, e dallo scorso anno, con la scusa di produrre qualcosa per la serie di album antologici denominata Vulf Vault (peraltro: mi sono perso qualcosa io ho la serie, originariamente pensata di sette album, si è interrotta al sesto?), ha avviato anche una sgangheratissima (e deliziosa) carriera solista, usando lo pseudonimo di Vulfmon. Qualcuno tra voi forse ricorderà la dettagliata discussione andata in scena lo scorso anno in merito alla natura del progetto Vulfmon, ma nel caso ve la foste persa basterà cliccare qui: proprio un anno fa, infatti, parlando del suo album d’esordio Here We Go Jack eravamo giunti alla conclusione che il Vulfmon (inteso come entità) assolvesse alla funzione che, nel pensiero greco antico, era riconosciuta al dáimōn (δαίμων), ovvero quella di intermediario tra l’umano e il divino, tra la dimensione terrena e quella ultraterrena. Molto più prosaicamente, Vulfmon (che col dáimōn condivide non a caso il suffisso) si è invece fatto intermediario tra i Vulfpeck e gli adepti del glorioso culto del Low-Volume Funk: uno spiritello lieve, dispettoso e stralunato, che da buon messaggero diffonde il Verbo alle masse. Di fronte alla prima fatica del nostro era facile giungere a questa conclusione, specialmente prendendo in considerazione episodi quali Take Me To A Higher Place, che presentavano tutte le coordinate classiche del Culto pagano (riguardarsi il video per capire di cosa si parli). Come ogni Gaia Scienza che si rispetti, anche quella annunciata gigioneggiando da Stratton nelle vesti di Vulfmon è però il frutto di un cammino iniziatico tortuoso e faticoso, che cela ben più che una potenziale promessa di felicità: e il suo messaggio si identifica, oggi come ieri, nella convinzione che niente vada preso sul serio, fatta salva la musica stessa.

Con queste premesse, già deliranti quasi quanto il contesto, a Giugno di quest’anno (il 2 Giugno, per l’esattezza) Jack Stratton nelle vesti messianiche di Vulfmon ha infine dato alle stampe una seconda fatica, intitolata Vulfnik. Ci starebbe bene un’analisi del titolo, approfondita quasi quanto quella del moniker: l’unica cosa che mi viene in mente, però (forse è che sono poco fantasioso), è che si tratti di un gioco di parole con quel termine, beatnik, che il giornalista americano Herb Caen (del San Francisco Chronicles) coniò per riferirsi un po’ spregiativamente ai beats, gli esponenti della Beat Generation. Il suffisso -nik, che ricordava da vicino quello dello Sputnik (quando la temporanea inferiorità dimostrata dagli americani nella corsa allo spazio faceva ancora molto male), serviva a sottolineare la distanza della cultura beat dalla tradizione americana, e la sua supposta vicinanza a idee socialiste e comuniste. Non saprei dire se il termine Vulfnik (sia come significante che come significato) c’entri davvero qualcosa con il termine beatnik, ma è certo che l’immagine che stavolta Stratton vuole darci di Vulfmon è un po’ diversa da quella messianica dell’esordio Here We Go Jack e più simile a quella bohemienne che campeggia sulla copertina dell’album, un Vulfmon che smette i panni esoterici del santone per indossare quelli del poeta maledetto, o se volete dell’intellettuale in aperto contrasto con la società.

Rispetto all’album di debutto Here We Go Jack, Vulfnik si presenta molto di più come il risultato del lavoro di un insieme di cervelli: molti dei momenti più azzeccati dell’album, infatti, portano la firma di Stratton e del brillante sodale Jacob Jeffries (già ascoltato nel primo album, e coi Vulfpeck stessi). È questo il caso di I Can’t Party, che apre l’album: scritta a quattro mani dal duo, è un funk serrato e molto anni ’70, con un testo ovviamente delirante (I saw a cute fluff ball at the coffee shop/ I asked, “Can I pet it?” she said, “Me or the dog?”/ I said, “Whoa, quick wit,”) e una prima, massiccia dichiarazione d’intenti tutta racchiusa in quel I can’t party che risuona nei ritornelli e che è un po’ il mantra della condizione di contrasto tra Vulfmon e il reale (I can’t party/ I wish I could but you know I can’t). In qualche modo, l’incapacità di cedere alla cultura del partying rappresenta un limite invalicabile, anche di fronte a un incontro amoroso potenzialmente perfetto come quello raccontato nel testo. La successiva UCLA è uno strumentale vicino a certe divagazioni funk più tipiche dei Vulfpeck, accompagnato da un esilarante video animato di Louie Zong, ancora incentrato sulla sensazione di essere fuori posto: protagonista, un simpatico orsetto che desidera danzare ma non sa se ne sarà all’altezza. Bonnie Wait (scritta a quattro mani con Ryan Lerman) pesca a piene mani dal blues, con un giro di chitarra magnetico (e geniale) e un testo che sembra parlare di una rottura, dei suoi prodromi e delle sue ragioni; il brano è nobilitato dal lavoro di Aaron Kruziki ai fiati. A ruota, segue il funk poderoso di harpejji I, suonata ovviamente su un harpejji: e se c’è qualcuno che sia in grado di rendere groovy qualsiasi strumento, costui non può che essere Vulfmon, profeta del Low-Volume Funk (pescando a caso dalla come di consueto ricchissima sezione dei commenti di Youtube, si potrebbe chiosare che It’s Superstition to say that you cannot get funk out of harpejji). James Jamerson Used One Finger è invece qualcosa a metà strada tra lo spoken word e un bizzarro funk per sola voce: in questi quasi quattro minuti, Vulfmon parla dei tools, gli strumenti che ciascuno usa per la propria arte (in senso lato), criticando quella cultura (sempre più diffusa) che coltiva i mezzi più che i fini, la strumentazione più che il talento, la fatica, l’esercizio. I toni assunti da questa declamazione, che poi mette in scena un’immaginaria intervista a un Vulfmon scrittore/intellettuale, assumono a tratti l’aspetto di certe litanie che si possono ascoltare nei reading di poeti come Allen Ginsberg (nel tempo e nel respiro dell’esecuzione), in qualche modo validando l’assonanza Vulfnik/beatnik. A questo proposito, il video che accompagna il brano è molto esplicativo: in esso, Vulfmon, nei succitati panni dello scrittore, viene intervistato da Evangeline Barrosse. La discussione tra i due verte sugli strumenti dell’arte, e abbonda di esempi che vanno dal funk (e James Jamerson, appunto) al tennis (John McEnroe, Pete Sampras) alla poesia (Donald Hall). Il discorso, va da sé un po’ delirante, merita di essere seguito con la giusta attenzione, ma soprattutto si chiude su un’esilarante scambio di battute tra scrittore e intervistatrice: – I kinda like that! – Were you able to follow that? – No. Sempre per restare sul “non prendersi sul serio”, ma con una punta di strisciante malinconia.

Per The Lord Will Make A Way, a dar supporto a Vulfmon (qui al Rhodes e al basso) troviamo due vecchie conoscenze dell’universo Vulfpeck, ovvero Joey Dosik al sax (con un gran bel solo) e soprattutto il grande Antwaun Stanley alla voce: il brano, originariamente scritto da Thomas Dorsey, cantato da decine di artisti nei generi più disparati ma reso celebre soprattutto da una versione R’n’B offertane da Al Green nell’album omonimo del 1980, è una vibrante ballad funk con ampie ascendenze 70’s e Motown, forse in ossequio a quel James Jamerson di cui al brano precedente. La successiva Harry’s Theme (Lite Pullman), composta da Jacob Jeffries ed Harrison Whitford, è anche l’unico brano del lotto suonato da una vera e propria band (Vulfmon dietro le pelli, Whitford alla chitarra, Mason Stoops al basso, Cole Petersen allo shaker e Jeffries alla voce): una specie di ibrido tra un pop-folk dal sapore dell’alba, venato di nostalgie da road movie, e un delirante rap urbano gestito dalla vocalità sempre sopra le righe di Jeffries, con un altro testo abbastanza delirante (Taking one down in Calcutta/ Taking one down in Duhai/ Taking one down in Azerbaijan, Iran/ Now the whole world belongs to Lite Pullman). E, come dicevo all’inizio, è proprio sull’asse VulfmonJeffries che avvengono le cose più belle dell’album, esattamente come accade nel trittico di brani chiude la scaletta, ovvero Nice To You, Blue e il remix di How Much Do You Love Me. Nice To You è il buffo e tenero racconto di un amore non corrisposto, voce e piano elettrico a disegnare quella che qualcuno, nella solita sezione commenti di YouTube, ha potuto definire the best minimalist low-volume emo pop punk funk song I have ever heard: il brano è letteralmente adorabile, e la vocalità sguaiata e stravagante di Jeffries gli conferisce una forza emotiva davvero invidiabile (per quanto volutamente e scopertamente “strana”). Blue è invece il brano più introspettivo del lotto: scritta a sei mani da Jeffries, Stratton e Whitford, e accompagnata da uno splendido videoclip animato opera di Miles Senzaki/Point Lobo, è una ballad interamente strumentale, malinconica e sospesa, costruita su una melodia dolcissima e difficile da dimenticare. A chiudere i giochi arriva invece il remix del brano che apriva Here We Go Jack, altro divertissement per rhodes (Vulfmon) e voce (Jeffries), ovvero How Much Do You Love Me, che Ellis si diverte a trasformare in un disco funk stravagante e a metà strada fra gli anni ‘70 e la musica house, cassa dritta e voci distorte a farla da padrone.

C’è una sottile (ma nemmeno troppo) vena anarcoide che percorre le dieci tracce di Vulfnik, accompagnata dalla sensazione latente che qualunque cosa possa succedere, musicalmente parlando, in questi brani: e Vulfmon è un artista che mantiene le promesse, perché quando si arriva in fondo ci si accorge che molto di ciò che poteva succedere è puntualmente successo, insieme a tutta una serie di altre cose alle quali non avremmo minimamente pensato. Così dentro queste dieci canzoni c’è spazio per il beneamato Low-Volume funk che ha fatto le fortune della casa, disseminato giustamente un po’ ovunque, ma anche per l’R’n’B di taglio Motown/70’s (The Lord Will Make a Way), per un blues sgangherato e lapidario (Bonnie Wait), per un episodio art-rock e visionario molto bohemienne, delirio jungle/vocale a parte (Harry’s Theme con la sua coda Lite Pullman), per un brumoso indie-pop quasi venato di ambient (Blue) e persino per la disco (How Much Do You Love Me in versione remix che flirta con la house). La cosa che veramente sorprende, però, è l’ormai attestata capacità di Jack Stratton di mantenere a fuoco tutto questo magma sonoro, facendo apparire come assolutamente consequenziale e logica una scaletta che, in mano a qualcun altro, avrebbe significato un naufragio quasi certo. O forse no, ormai non sorprende, perché siamo abituati a quello che il buon Jack sa fare: potere del dáimōn, probabilmente.
La domanda che alla fine rimane, a questo pungo più che legittima, riguarda invece il futuro di un progetto tanto folle quanto geniale. Cosa ci attende dalle prossime mosse di
Vulfmon? Quello che è certo è che, in continuità con la sua corrosiva verve iconoclasta, il buon Stratton ha già iniziato a sperimentare con le AI, regalandoci recentemente (tanto per fare un esempio) una versione di Nice To You nella quale la voce di Jacob Jeffries (che per l’occasione veste i panni di Little Yacov) è filtrata attraverso un algoritmo che la rende simile a quella del Michael Jackson versione Jackson Five. Questo ci ricorda che non ci sono limiti alla Gaia Scienza, né tantomeno al Low-Volume Funk: aspettatevene delle belle (anche se ancora non sappiamo quali).

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