Song of the witches: Toil and Trouble (Angelo De Augustine, 2023)

A qualcuno tra i miei lettori non sarà sfuggito il richiamo shakesperiano contenuto nel titolo di questo post: no, non abbiamo cominciato a scrivere di teatro elisabettiano, ma parlando del nuovo album di studio del cantautore americano Angelo De Augustine, intitolato Toil and Trouble e pubblicato per Asthmatic Kitty lo scorso 30 Giugno (dopo esser stato preceduto da tre singoli, Another Universe, The Ballad of Betty and Barney Hill e la titletrack, dei quali parlammo nei nostri RoundUp mensili, ovverosia qui, qui e qui), viene da domandarsi se effettivamente l’autore non si sia fermato a sua volta a riflettere di fronte ai versi della celebre Song of the witches: double, double toil and trouble, componimento che William Shakespeare inserì all’interno di una delle sue opere più note, il Macbeth. Che ci sia un che di stregonesco nel contesto che ispira il nuovo album di De Augustine (o, quantomeno, un elemento magico, di furente e libera immaginazione) lo conferma in fondo piuttosto direttamente anche l’artwork che lo accompagna: un pentolone minaccioso e ribollente, circondato di alambicchi e formulari, come se al suo interno si stesse preparando una pozione o un incantesimo. L’artwork è opera dell’artista ghanese Daniel Anum Jasper, lo stesso che aveva curato il progetto grafico relativo al bellissimo A Beginner’s Mind, album collaborativo tra De Augustine e Sufjan Stevens, pubblicato nel 2021 e che forse chi frequenta questo blog ricorderà. In fondo, Toil and Trouble (fatica e guai, letteralmente), è davvero un album che si regge su un compromesso di tipo alchemico o, se preferite, stregonesco: distillare la bellezza, il sentimento, a partire dal dolore e dalla rassegnazione. Come lo stesso cantautore ha infatti dichiarato, “This album came from thinking about the madness of the world right now and how overwhelming that can be. I used a sort of counter-world as a guide to try to gain some understanding of what’s actually going on here—I had to take myself out of reality in order to try to understand reality.”

Il percorso che ha condotto De Augustine ai quasi quaranta minuti di Toil and Trouble, articolati in dodici tracce, è stato in realtà estremamente lungo, e si è avviato nel corso del 2020, in piena emergenza pandemica: rispetto all’esperimento collaborativo e condiviso di A Beginner’s Mind, la realizzazione di Toil and Trouble ha rappresentato per il cantautore californiano l’occasione di ritornare al proprio modus operandi privilegiato, che prevede un lavoro prettamente solitario in fase di scrittura, composizione e registrazione dell’album (così era stato per i tre precedenti lavori solisti di De Augustine, ovvero Spirals of Silence del 2014, Swim inside the Moon del 2017 e Tomb, datato 2019). Soprattutto, la full immersion nel materiale che sarebbe confluito in Toil and Trouble ha garantito all’autore la possibilità di esplorare in pieno e fino alle estreme conseguenze la propria immaginazione, nel tentativo di ricreare un mondo alternativo, Another Universe, come recita uno dei singoli estratti, attraverso il quale poter criticare e comprendere la realtà nella quale viviamo. Un percorso dunque di febbrile produttività, sconfinato anche (leggenda vuole) in uno spaventoso periodo di visioni mistiche che avrebbe temporaneamente interrotto la realizzazione dell’album, pur contribuendo a determinarne fortemente l’atmosfera che i brani avrebbero infine tratteggiato: nel pieno rispetto di questa visione “solitaria” della creazione artistica, De Augustine ha quindi arrangiato e suonato le parti di tutti e ventisette gli strumenti utilizzati nell’album, compreso un bizzarro xylofono di vetro che si ascolta (suppongo) nello strumentale Healing Waters.

Toil and Trouble, che è come già detto un album pieno di magia e di libera immaginazione, si apre tuttavia sulla realtà più cruda: il folk di Home Town scaturisce infatti da una riflessione ispirata a un fatto di attualità, una tragica sparatoria avvenuta il 7 novembre del 2018 nel locale Borderline in prossimità di Thousand Oaks, città dalla quale De Augustine proviene (e dove tuttora risiede), costata la vita a 13 persone. Il brano, delicato e doloroso, riflette sull’assurdità di questa violenza (molto americana, ma non solo) e stabilisce l’atmosfera che sarà propria dell’intero album, che si sviluppa come un lungo discorso attorno alla follia del mondo che ci siamo costruiti (There’s no sense anymore/ And no one left to blame). The Ballad of Betty and Barney Hill sposta invece il tono verso il fantastico: in bilico tra sci-fi, racconto in prima persona e poesia, il brano racconta la storia di una coppia del New Hampshire che dichiarò di essere stata rapita dagli alieni nei primi anni ’60 del secolo scorso. It’s a bizarre story, and of course nobody knows if it’s true, but it’s probably the UFO abduction story that’s got the most credibility, racconta De Augustine, una storia ancora oggi nota come l’incidente di Zeta Reticuli, probabilmente il più celebre (e celebrato) mistero di questo tipo tra le molte testimonianze che affollando la storia dell’ufologia. Non è stata tuttavia soltanto la nota fantascientifica a interessare De Augustine verso questa vicenda: la storia di Betty e Barney Hill presenta infatti i tratti sia dell’esperienza puramente mistico-esoterica sia quelli di una ben più comune (ma non meno dolorosa) storia di trauma e profonda alterità rispetto al tessuto socio-culturale dell’epoca. Betty e Barney Hill erano infatti una coppia interrazziale, forse una delle prime a divenire universalmente nota (a causa proprio dell’incidente) in un momento di intenso dibattito attorno al tema dei diritti civili negli Stati Uniti d’America. Erano membri di spicco della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) e della Chiesa universalista unitaria e la pubblicità negativa scaturita dal racconto dell’abduzione spinse molti commentatori dell’epoca a considerarli semplici isterici in cerca di facili attenzioni. I coniugi Hill si trovarono quindi a dover mantenere un qualche equilibrio tra la rivendicazione della veridicità del loro racconto e la necessità di proteggere la propria posizione sociale (il proprio lavoro), ma anche e soprattutto la propria reputazione e quella delle cause e delle organizzazioni che rappresentavano o delle quali facevano parte. Quando la storia dei coniugi divenne pubblica, il fatto che Betty e Barney Hill avessero un matrimonio interrazziale fu adotto da molti come prova inconfutabile di instabilità psicologica (nel caso ci fossimo dimenticati di cos’erano gli Stati Uniti d’America una settantina di anni fa: ma sono poi cambiati così tanto?). Musicalmente, The Ballad of Betty and Barney Hill è per l’appunto una ballata piena zeppa di tutta una serie di deliziosi suoni e rumori concreti (motori di automobile, rane, teiere) che conferiscono al racconto un piacevole realismo e creano un perfetto sfondo per le tessiture strumentali, affidate a strumenti consueti e meno (come ad esempio il sintetizzatore DG-1 Stepp Guitar inventato negli anni ’80 dal designer inglese Stephen Randall). Il gusto per l’uso di strumentazione esotica persiste anche in Memory Palace, che intesse un delicato inno al potere della scrittura: qui, accanto al brulicare del mellotron e a un lieve strato di percussioni, possiamo ascoltare il suono squillante di una Celesta (un tipo di piccolo piano ideato da Auguste Mustel nel 1886), strumento al quale De Augustine si dice molto affezionato sin dalla prima volta che ebbe l’occasione di ascoltarne una, durante una rappresentazione de Lo Schiaccianoci. Il breve strumentale Healing Waters, nel quale si ascolta lo xylofono di vetro di cui poc’anzi, crea un intermezzo liquido che conduce a The Painter, altro brano nel quale De Augustine torna a riflettere sulla creazione artistica (Run far away from your kind/ As you carry the life that you left far behind/ Lost for words to convey/ As the artist relies on the eyes to relay): The Painter è un indie-folk delicato, vicino alle atmosfere già ascoltate in A Beginner’s Mind, ed è soprattutto una bizzarra canzone senza ritornello, portatrice di una tensione destinata a non esaurirsi o stemperarsi mai, assolutamente priva di soluzione catartica. I don’t want to Live, I don’t want to Die è un brano popolato da una messe di personaggi della fantasia (dalla Miss Havisham del Dickens di Great Expectations a Peter Pan, dal Cristopher Robin di Winnie the Pooh a Frau Blucher, che molti cavalli e non solo probabilmente ricorderanno), che racconta soprattutto della difficoltà di ritagliarsi uno spazio del mondo e della paura, che probabilmente è il sentimento che ognuno di noi prova più spesso nella propria vita: versi come Oh, my brother you’ll soon be a man/ Next to you, I’m just a boy/ Trapped like Peter Pan o anche Oh, my mother, I’ve got nothing left/ Send for me to greet the king/ And turn myself in raccontano proprio questo genere di disagio esistenziale, acuito dagli ultimi dolorosi anni di incertezze che stiamo affrontando.

Another Universe apre la seconda metà del disco ed è probabilmente il brano che racchiude la maggior parte del senso di questa operazione immaginifica di re-invenzione del mondo nel tentativo di trovargli un senso: lungo questo gioiello di pop sognante e vagamente stralunato, De Augustine ci accompagna in un viaggio dentro un mondo di sogno che è anche, soprattutto, un mondo fatto di poesia (e d’altra parte versi come What would it take to break the curse?/ I found another universe/ One who would have me/ One I would belong/ I’m growing tired of the offense/ Fateful design, omnipotence/ Whether to use both my hands for love non lasciano assolutamente spazio a dubbi). Dal punto di vista strettamente musicale, Another Universe conferma quella strepitosa capacità del suo autore di fare molto, moltissimo col poco: il brano è semplicissimo dal punto di vista strutturale e assolutamente lo-fi nella sua concezione, ma contiene tutto quello che serve per coinvolgere l’ascoltatore e trasportarlo dentro le riflessioni esistenziali che ne costituiscono il nocciolo. Anche qui si ascolta uno strumento peculiare, che contribuisce a dare al brano quel suo senso di fantasia sci-fi, ovvero l’Unisynth XG-1, un altro bizzarro sintetizzatore inventato stavolta in Giappone e piuttosto diffuso negli anni ’80. Come nel video che accompagna il brano, diretto dallo stesso De Augustine e realizzato con le animazioni di Owen Summers, il cantautore americano ci accompagna in questa immersione in un mondo di fantasia a bordo di un non casuale Yellow Submarine, per raggiungere le profondità di un’immaginazione lasciata libera di ricreare il mondo seguendo unicamente sentimenti d’amore: If I created my own world/ Minds would be open and unfurled/ I’d navigate our way out of the storm/ There would be no more hurt or pain/ Deliverance wouldn’t assuage/ The galaxy would be a guide for love. Se vogliamo, Another Universe può essere considerata un po’ come una sgangherata e tenera richiesta di utopia, qualcosa di cui avremmo maledettamente bisogno in un mondo che ha ormai da tempo più a cuore la propria rabbia che la propria immaginazione. La fascinazione sospesa del folk lieve di Song of the Siren accompagna a un’altra riflessione sulla parola e sul canto (Wise and new/ Lived my whole life/ Just to make out the tune) che si arricchisce di un coro etereo e di bassi profondi sul ritornello finale, prima di lasciar spazio a Blood Red Thorn, che affronta più direttamente il tema della solitudine spirituale. Ricca di riferimenti che spaziano dall’archeosofia alla religione, Blood Red Thorn è soprattutto un’aggraziata ballad scandita da baluginii di sintetizzatori dal suono alieno e che contiene anche versi sul progresso tecnologico e la crisi climatica (You fly so high/ In a steel bird burning the sky/ Now your eyes work overtime/ Arranging oceans and watching them dry), rimandando alla mente una celebre frase di Michael Ende, secondo il quale gli uomini andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che avrebbero dovuto presto sostare un attimo per consentire alle proprie anime di raggiungerli. Oscuri presagi, confinati dentro un altro delicato involucro folk, affollano invece i versi di Naked Blade, un racconto a metà tra il dolore e quella paura di cui parlavo poc’anzi (I cannot explain it to you or anyone/ In the tub with a naked blade/ Oh, is that my blood?/ Oh, God is that my blood?), una coraggiosa dichiarazione di fragilità che fa il paio con la visione del mondo scurissima che emerge dalla seguente D.W.O.M.M. (Hoping this pain will pass as bodies shall decay/ The mirror revealed two eyes scattered and far away/ What once was thought of as the past is present time/ Life was only a revision, death was on my mind), altro brano di spiritato e tesissimo folk, notturno e vagamente inquietante. Questa discesa nel dolore si conclude nella title-track, Toil and Trouble, che trasforma in filastrocca l’orrore di un mondo ormai incomprensibile (I’ll believe in anything/ If you take away all this pain/ Oh god is this the end?/ I’ve seen it before on CNN […] You will do anything/ If I numb away all your pain/ The poppy field and the Golden Gate/ The dragon’s fire/ A fall from grace), come a dire che l’antidoto allo smarrimento esistenziale possa essere sintetizzato proprio a partire da quel dolore che affolla le vite di ciascuno di noi, a patto di mescolarlo nell’ordine giusto insieme agli altri ingredienti in quel pentolone stregonesco che, con sguardo antropomorfo e torvo, ci osserva dalla copertina dell’album. Toil and Trouble si chiude comunque su un verso che lascia poco spazio all’illusione di una catarsi purificatoria, quel I don’t know where I went wrong che costituisce un’altra formidabile dichiarazione di fragilità, il riconoscimento della reale incapacità di riprendere in mano un discorso ormai impazzito.

Toil and Trouble è chiaramente un album che proviene dal dolore e che si è sviluppato attraverso un processo creativo emotivamente molto intenso, come lo stesso Angelo De Augustine non ha mai nascosto, qualcosa che ambisce a travalicare in qualche modo la limitatezza di un’esperienza individuale per alludere a uno spazio più ampio, autenticamente universale (When I made the album I was so disheartened by the world that I needed to use an alternate world to get away from it. But even though it’s a very personal record, it also feels more broad than that—like something bigger than just me and my story). È però anche (e soprattutto) un album pieno di grazia, quella stessa grazia che gli deriva dal suo debordante immaginario, dal gusto per la parola, da un songwriting delicato ed ispiratissimo, oscuro ed enigmatico quanto affascinante: un flusso ininterrotto, sonoro e poetico, che riesce a sospendere (e sorprendere), a rapire e portare con sé chi ascolta, un delicato tributo al potere di quella fantasia che, sola, può aiutarci a riscoprire quello che ci rende umani, a dare nome alle cose che ancora non ne hanno (e alle sensazioni, e ai sentimenti) e, forse, a ri-creare mondo, plasmandolo da nuove e più giuste fondamenta. In fondo, un oscuro e magmatico inno alla bellezza dell’immaginazione, che forse può ancora salvare il mondo, a patto che scegliamo di affidarle le nostre speranze rinunciando a quella rabbia che sempre più, giorno dopo giorno, sembra essere l’unico motore delle nostre azioni. Toil and Trouble crea un contro-mondo misterioso e affascinante nel quale sia davvero possibile tornare a perdersi; e il desiderio di perdersi non viene meno neppure quanto il disco si spenge su quel suo verso finale, I don’t know where I went wrong, che tradisce più di ogni altro la sensazione di aver smarrito la propria strada senza riuscire davvero a rendersi conto del dove o del come: come scrivo spessissimo (me ne rendo conto), viviamo in regioni pericolose, ma resta sempre vero che laddove aumenta il pericolo/ cresce anche ciò che salva. Toil and Trouble, con la sua buffa, sgangherata e sgargiante immaginazione, è senz’altro una di queste ancore di salvezza, sotto forma di dolorosa (e dolente) dichiarazione di incompiutezza, fragilità e debolezza, e al tempo stesso di inno al potere salvifico dell’invenzione, della magia, dell’immaginazione. Un incantesimo, a tutti gli effetti: una stregoneria folk che avvolge il cuore nel tentativo di proteggerlo dall’assurdo che circonda le nostre vite e soprattutto che tenta, coraggiosamente, l’invenzione di nuovi mondi abitabili, nei quali poter tornare infine ad essere umani.

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