La Gaia Scienza: Here We Go Jack (Vulfmon, Vulf Vault #6, 2022)

Per il sesto episodio su sette della serie Vulf Vault, Jack Stratton ha deciso di mettersi in proprio: col moniker di Vulfmon, l’eclettico deus ex machina dei Vulpeck ha licenziato, a metà della scorsa estate, Here We Go Jack, un picaresco trip a metà tra il funk più caldo e lo zibaldone intimista, tanto ricco di groove irresistibile (ma questo è un po’ il marchio della casa) quanto di uno stralunato romanticismo d’avanguardia. Arrivo un po’ tardi con questa recensione perché la vita è così, prende strade inattese (nel mio caso, la sequenza di post sugli Steely Dan, conclusasi a inizio dicembre, post che mi hanno portato via diverse settimane negli ultimi tre mesi): alcune cose sono rimaste indietro, e Here We Go Jack è una di queste. Ma non potevo esimermi dal parlare di questo album, come avevo promesso a suo tempo, perché la qualità del lavoro di Stratton/Vulfmon è troppo alta per sorvolare. Anche senza i suoi consueti compagni nella grande epopea low-volume funk (la band al completo è presente solo in Let’s Go! Let’s Go!, reprise dello strumentale Let’s Go! già incluso nel precedente Vulf Vault, il bellissimo Wong’s Café, con l’aggiunta del testo e della voce di un istrionico Mike Viola), Stratton dimostra di avere molto da dire: i brani di Here We Go Jack stanno in un limbo felice tra l’allegro autocitazionismo (si perde il conto dei piccoli furti e accenni che qua e là emergono tra i solchi, rimandi che gli affezionati dei Vulfpeck non potranno fare a meno di cogliere con un sorriso) e la profonda reinvenzione, dieci episodi baciati da una fantasia originale e sfrenata, che si tratti di piccoli momenti ricchi di pathos, abbondanti specialmente nei brani cantati, o di passaggi tutti incentrati sul groove, sempre rigorosamente minimale ma non per questo meno irresistibile.

L’apertura è affidata all’R’n’B lieve di How Much Do You Love Me?, con Stratton che accompagna al piano elettrico il cantato gigione e un po’ stravagante di un ottimo Jacob Jeffries. How Much Do You Love Me? è un brano teneramente stralunato, che si chiude con una reprise del famoso jingle introduttivo dei video dei Vulfpeck e lascia spazio al funky dub sornione di Boogie Man, cadenzato dalla ripetizione monotona delle uniche due parole del titolo e per il resto imperniato tutto su un intreccio delle chitarre baritone di Mason Stoops e Tyler Nuffer adagiate mollemente su bassi e piano elettrico suonati dallo stesso Stratton. La seguente Alone Again, Naturally è il primo vero colpo al cuore della scaletta: trattasi una cover del brano di Gilbert O’Sullivan (Millennials don’t know this song. Boomers think it’s John Lennon. Ryan Lerman’s version is the one I heard. Monica Martin is the latest to pick up this hitchhiker, commenta Stratton nella descrizione del video su YouTube) che il piano elettrico di Stratton/Vulfmon tramuta in una ballad sinuosa sulla quale danza dolcemente la voce meravigliosa di Monica Martin, protagonista di una performance davvero di un altro livello. Ad arricchire ulteriormente un piatto già prezioso, il solo delicato e azzeccatissimo del flauto di Hailey Niswanger. Nella breve Contrapunctus I, Vulfmon dirige il clarinetto di Michael Winograd in un madrigale incentrato sull’importanza del contrappunto (come da titolo: più didattico e didascalico di così…), l’ennesimo tributo pagato dal Stratton all’ormai noto amore per le tessiture armoniche bachiane (e non sarà l’unico nella scaletta di Here We Go Jack).

Dopo questo intermezzo, Vulfmon ci guida dentro Take Me To A Higher Place, un piccolo trip magicamente sospeso tra funk anni ’70 e psichedelia acida: il brano è uno strumentale irresistibile sul quale Stratton suona TUTTO (batteria, basso, pianoforte e voce), accompagnato da Mocky ai synth e alle voci filtrate, costruendoci attorno un video completamente delirante che racconta la creazione di un culto (Jack has finally accepted his role as this fandom’s cult leader), culminante in una massima che è già passata alla Storia (le maiuscole sono volute), ovvero quel “better a sore ass than a tattered soul” che campeggia in sovrimpressione nel video durante il ritornello, in una sequenza nella quale Vulfmon infligge una pacchiana punizione corporale ad uno dei suoi adepti. Come ammesso candidamente da un fan in uno dei soliti, fulminanti commenti YouTube, “Better a sore ass than a tattered soul” is going to be put on my grave stone; d’altra parte, quando si parla di Stratton lo spessore musicale si confonde (volutamente) con la stravaganza artistica e il piacere della provocazione giocosa, e parlare di banale talento diventa fatalmente riduttivo: occorre scomodare la categoria del Genio. La successiva Never Can Say Goodbye è un R’n’B felpato, una ballad delicata sulla quale a incidere è la chitarra magica di David T. Walker, sostenuta da un tappeto di morbidi bassi (Solomon Dorsey) e da una batteria che crea pura atmosfera. Let’s Go! Let’s Go! esplicita le vibe AOR già palesi nella sua versione strumentale, Let’s Go!, inclusa (come già detto) nel Vulf Vault numero cinque, Wong’s Café: il brano procede tra incastri funk nel più tipico stile Vulfpeck (d’altra parte qui ascoltiamo la band al gran completo), portentosi riff di chitarra distorta che suonano come una risposta diretta al celeberrimo riff di The Power of Love, opus magnum di Huey Lewis and The News (chi, come me, è fan di Ritorno al Futuro non faticherà ad avvertire l’assonanza), e citazioni di altri brani della scaletta calate misticamente dentro l’arrangiamento del brano (ad esempio, la melodia di Rutgers, che fa capolino a un certo punto verso la fine). Al duo dei compositori dello strumentale originale (Stratton e Wong) si aggiunge Mike Viola, che ci mette voce e liriche (un po’ surreali, come da copione, ma decisamente trascinanti, nel rispetto del contesto energetico del pezzo). Il secondo tributo bachiano porta direttamente il nome del celebre compositore: Bach Pedal è una rilettura dell’opera del Maestro tedesco eseguita da Rich Hinman alla Pedal Steel, trenta secondi di fragorosa ieraticità, una sorta di oasi nel flusso sonoro che sgorga diretto dentro la title track. Here We Go Jack è una ballad per chitarre strascicate e bassi corposi, con delle vibes che la fanno sembrare suonata un minuto dopo l’alba, con gli occhi ancora gonfi di sonno, e sulla quale abbiamo addirittura il piacere di ascoltare per la prima volta la voce solista dello stesso Stratton. Il buon Jack la presenta così: I’m finding my voice. Songs are the most important part of a song. I filmed an entire music video in reverse. I live like a dog. I eat from a bowl. In pratica un gigantesco, nietzscheano Ecce Homo, “come si diventa ciò che si è” ma in salsa low-volume funk. Manco a dirlo, i commenti su YouTube si sprecano, concentrandosi sugli elementi più disparati: qualcuno si concentra sugli aspetti tecnici, “Crazy they got all these bicyclists to ride backwards for this video”; qualcun altro decide di accodarsi a una formula sempreverde, sottolineando come “I can’t believe Jack’s parents named him after this song”; in mezzo al profluvio di post inneggianti all’evidente e indiscutibile genio di Stratton, c’è anche chi decide di lanciarsi in un commento squisitamente tecnico e mettere una buona volta i puntini sulle i: “The song alone speaks for itself, but to memorize the timing and phonetics in reverse is impressive to say the least, Jack. Jack Go We Here”. I quattro minuti di Here We Go Jack, un po’ come tutto ciò che riguarda l’universo Vulfpeck, incrinano pericolosamente la barriera tra l’Arte e la sua rappresentazione (nell’era della sua riproducibilità digitale o, se preferite, web), facendo tracimare la vita vera dentro suoni insoliti (oserei dire inattesi), accompagnati da una voce ancora più strana e inaspettata, eppure meravigliosamente adatta ad accompagnare il brano. Per chi fosse rimasto confuso, un chiarimento è necessario: il video non è davvero girato in reverse, ma le espressioni facciali di Stratton sì; d’altra parte, un Genio può questo e altro. A chiudere l’album arriva il funk strumentale e ciccionissimo di Rutgers, puro groove costruito su una linea di basso strepitosa e sugli svolazzi dei synth e accompagnato da un bizzarro (ed esilarante) videoclip incentrato sul concetto di monetizzazione (e su quello di insegnarvi a ballare il pezzo, ovviamente): come chiosa qualcuno nei commenti, “So, how did you fall for the Ponzi scheme?”, “Well… there was this funky grove… and this dance… and he told me to monetize…”

Nella filosofia greca, il dáimōn (δαίμων) aveva la funzione di intermediario tra la natura umana e quella divina: sarà forse un abbaglio, ma il moniker Vulfmon condivide con dáimōn il suffisso, e la sensazione che si insinua nell’ascoltatore è che i due termini non debbano essere tra loro scorrelati. Potremmo vederla così: Vulfmon fa da intermediario tra i Vulfpeck e gli adepti, un po’ come nel video che accompagna Take Me To A Higher Place; è il messaggero, lo spiritello alato, dispettoso e stralunato che porta il verbo del low-volume funk all’ampia platea dei seguaci. La Gaia Scienza della quale Stratton/Vulfmon si fa portatore non richiede che questo: non prendere niente sul serio, a parte la Musica. Può far ridere, ma in fondo Here We Go Jack ha le dinamiche di un vero e proprio trip: oscilla tra passaggi irresistibilmente groovy (Boogie Man, Take Me To A Higher Place, la fantastica Rutgers), ballad strappacuore con tutta la potenza del soul e dell’R’n’B (la splendida How Much Do You Love Me? , Alone Again, Naturally, dominata dalla vocalità profonda e calda della sempre bravissima Monica Martin, ma anche la title track, col suo andazzo svogliato da lazy on a Sunday afternoon, che si appiccica alle orecchie e al cuore), spericolati ibridi funk- AOR (Let’s Go! Let’s Go!) e strumentali che hanno il sapore del classico, dai contrappunti e dalle mini-suite bachiane al rock/blues/R’n’B della meravigliosa Never Can Say Goodbye. Quando ho ascoltato per la prima volta Wong’s Café nella sua interezza ho pensato che sarebbe stato molto difficile tirare fuori un Vulf Vault di valore paragonabile a quello (lo avevo anche scritto, con la consueta verbosità); come al solito, Stratton mi ha smentito su tutta la linea. Indossando i panni di Vulfmon, il nostro geniale amico ha licenziato un disco pericolosamente perfetto, privo di qualsivoglia caduta di tensione o stancante lungaggine: un lavoro teso, concentrato, diretto, al quale non manca assolutamente nulla. Faccio mia la massima di Vulfmon, “better a sore ass than a tattered soul”, per ricordare che frequentare la perfezione costa fatica, specialmente quando lo si fa con questa serietà, e anche se la si sta approcciando dal lato più lo-fi (è chiaro come le produzioni di marca Vulf da sempre si adagino un po’ su queste atmosfere low fidelity, sposandole apertamente: fanno parte del fascino di questa musica), ma ripaga arricchendo l’anima. Here We Go Jack è un piccolo capolavoro, sicuramente uno dei dischi più significativi di questo 2022 che volge a conclusione: se non l’avete ancora ascoltato, correte a recuperare!

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