Healing through music: Songwrights Apothecary Lab (Esperanza Spalding, 2021)

Premiato all’inizio del mese col Grammy Award come Best Jazz Vocal Album (il terzo riconoscimento per la sua autrice in questa categoria, dopo i successi del 2013 con Radio Music Society e del 2020 con 12 Little Spells), Songwrights Apothecary Lab è l’ottavo album di studio licenziato da Esperanza Spalding, bassista e contrabbassista jazz, cantante, cantautrice e compositrice di Portland (OR). Trattasi di uno di quei dischi dei quali si è lungamente parlato su queste pagine (ad esempio, qui e qui) ma per i quali non c’era mai stato il tempo di mettere online un’analisi completa e (per quanto possibile) esauriente: la complessità del progetto, e la ricchezza delle ispirazioni (e delle intenzioni) richiedono d’altra parte qualche considerazione preliminare. Innanzitutto, Songwrights Apothecary Lab (per semplicità qua e là lo abbrevieremo con il suo acronimo, S.A.L.) nasce dall’esperienza d’insegnamento portata avanti dalla Spalding dal 2017, quando le è stata assegnata la cattedra di Practice of Music presso la prestigiosa Harvard University: di fatto, S.A.L. è un laboratorio che si situa a metà strada tra la didattica e la sperimentazione sonora, incentrato sull’improvvisazione (il più classico dei tòpoi jazzistici) e sulla ricerca, nell’ottica dello studio dell’interazione tra i musicisti e del superamento dei generi, operando attraverso una mescolanza tra la grammatica del jazz, quella delle musiche contemporanee provenienti da ogni parte del globo e la scrittura vera e propria, che in Italia potremmo definire semplicemente cantautorato ma che è molto più evocativa se presa nell’accezione inglese di songwriting, la scrittura di canzoni come forma espressiva (non come semplice parola a uso e consumo di chi voglia darsi uno spessore “intellettuale”), come vera e propria forma conferita al flusso dell’improvvisazione, creta lavorata dalle mani dell’artista (o degli artisti, in questo caso) per raggiungere efficacemente uno scopo. Songwrights Apothecary Lab assume allora i contorni di un’esplorazione, del diario di bordo di un viaggio intrapreso nel tentativo di condensare e distillare in dodici formulazioni (le “formwela” che, numerate, costituiscono il titolo di ciascuno dei brani) il potere della musica e della parola come elementi di cura dello spirito e di studio e comprensione della natura umana. Per usare le parole della stessa Spalding, “[S.A.L.] seeks to respectfully dip into the healing seas of music/musicianship/song, and distill a few grains of piquancy which carry the life-renewing flavor of the unfathomable ocean of human resiliency, then work those grains into new musical formwelas, to enhance the healing flavors and intentions innate in all works of devoted creatorship”. Musica come luogo di cura dell’anima, quindi, per rispondere all’auspicio di John Coltrane secondo il quale If one of my friends is ill, I’d like to play a certain song and he will be cured: un’opera di amore e fiducia sconfinate nel potere della canzone come balsamo per alleviare il dolore e aiutare a superare le difficoltà. Dal punto di vista compositivo, il discorso di Songwright Apothecary Lab è sostanzialmente tripartito, e altrettanti sono i momenti quali l’album è stato pensato e registrato: una prima sezione che ha visto la luce durante una residenza a Wasco County (OR), una seconda sezione nata a Portland (OR) e un’ultima parte realizzata in studio a Lower Manhattan (NYC), coinvolgendo di volta in volta diversi artisti come membri di questo grandioso “progetto di ricerca sonora”. Ogni diversa iterazione del laboratorio è stata accompagnata da testi di riferimento e di ricerca, debitamente riportati e catalogati nel sito dedicato al progetto, così da restituire un’idea quanto più possibile aderente alla realtà dell’immenso lavoro di riflessione sotteso ad ogni realizzazione musicale.
Affrontando l’ascolto del disco, le prime tre tracce,
Formwela 1, Formwela 2 e Formwela 3, che come detto sono state pensate, composte e registrate nella Wasco County in Oregon, sono intese come una risposta musicale agli stimoli offerti dal paesaggio locale e dagli incontri con gli abitanti della zona. Si tratta di tre movimenti strettamente legati, estremamente riflessivi, ipnotici e costruiti su splendide melodie vocali: Formwela 1 comincia proprio con la voce eterea della Spalding, una serie di stratificazioni che sembrano fluttuare sul Fender Rhodes suonato da PHOELIX. L’ingresso del contrabbasso contrappunta deliziosamente la melodia del cantato, e Formwela 1, raccolta e intensa come una preghiera, mi ha rimandato alla mente addirittura qualcosa della sacralità di certi passaggi di Spirit of Eden o Laughing Stock dei Talk Talk (la cosa più vicina al jazz, quantomeno nelle sue intenzioni, che sia mai stata suonata al di fuori del jazz inteso in senso stretto). L’intensità di Formwela 1 si accumula e cresce per andare a sciogliersi direttamente dentro Formwela 2: qui avviene come una metamorfosi, uno spostamento che conduce il brano a lambire sentori indianeggianti, incarnati dal duetto tra la voce della Spalding, impegnata a condurre la melodia, e i vocalizzi di Ganavya Doraiswamy. Anche Formwela 2 è un passaggio estremamente minimalista, nel quale bastano pochi elementi disposti sapientemente lungo il tessuto armonico per dare forma a un insieme di sensazioni profondissime, basate musicalmente sulla ripetizione di una semplice struttura armonica, reiterata attraverso minuscole trasformazioni, e sugli unisoni delle voci. Formwela 3 è invece un brano di natura chiaramente terapeutica, una sorta di risposta a un evento doloroso mentre si è costretti a restare lontani dai propri cari (se ci sentite qualcosa di vicino alla nostra condizione attuale o recente, non siete lontani dal vero): qui la voce della Spalding disegna orizzonti affascinanti su un accompagnamento delicato del piano, suonato da Leo Genovese e ancora da PHOELIX, e il brano ha un’atmosfera sospesa e delicata che sfocia nella splendida sezione conclusiva (Remember the works of sun/ Towering within the blue/ While we are stuck inside/ Wide atmospheres breathe and surround you, ah), nella quale alla voce si sovrappongono una linea colossale del contrabbasso, la leggerezza del piano e un drumming più deciso di Justin Tyson, preludio allo sfolgorante intervento solista di Sua Maestà Wayne Shorter, mentre il brano scivola verso un jazz sperimentale allo stesso tempo riconoscibile e futuristico. La seconda iterazione del laboratorio ha trovato forma invece a Portland, ancora in Oregon (città natale della Spalding, per l’occasione ribattezzata Portal Land), con l’intervento della chitarra acustica e della voce di Corey King: i tre brani risultanti, Formwela 4, Formwela 5 e Formwela 6, il primo dei quali composto dalla Spalding a quattro mani proprio con King, sono la risultante di una ricerca armonica raffinata che tenta apertamente di rispondere alla domanda sull’utilità della canzone (e più in generale della musica) all’interno di un processo di crescita personale o di guarigione spirituale. La risposta giunge sposando il jazz con un folk delicato, che dà luce in Formwela 4 a un inciso di abbacinante bellezza (Let me allow the beauty from above that made you that way/ To be known love and get it made/ To know you need it that way is to let me love you, babe), un ostinato per voce e coro adagiato su un semplice arpeggio di chitarra acustica. Formwela 5 è invece un duetto vocale di Spalding e King su una linea di piano suonata dalla stessa Spalding, in un crescendo di grandissima intensità che si esaurisce nel contrabbasso nervoso di Formwela 6, vero tratto distintivo del brano. Qui il duetto tra Spalding e King rassomiglia al racconto di una relazione appena nata, e allo stesso modo il brano sembra come sbocciare lungo la sua estensione: la ripetizione ossessiva della linea di basso genera un effetto risonante per il quale l’intensità cresce e cresce, e sembra davvero di assistere alla rappresentazione musicale di uno di quei timelapse di un fiore che sboccia e si apre. Gli ultimi 6 movimenti di questa sinfonia jazz hanno visto invece la luce in 12 giorni di lavoro di studio condotti a Lower Manhattan, New York City. I brani che fanno parte di quest’ultima sezione sono Formwela 7, Formwela 8, Formwela 9, Formwela 10, Formwela 11 e Formwela 13: in tutti questi brani la canzone assume la forma di un jazz per piccolo ensamble, con tutta una serie di divagazioni sperimentali davvero notevoli. Si comincia con Formwela 7 dove la melodia vocale, vicina parente dei cantati della prima sezione, avvolge l’ascoltatore adagiandosi su una figura ripetuta del pianoforte: il brano è presto squassato da una sezione largamente free, un crescendo per piano preparato, vocalizzi, sassofono impazzito (l’ottimo Aaron Burnett), chitarra elettrica graffiante e batteria colossale, dalla quale riemerge delicatamente il tema iniziale. Formwela 8 è invece l’apoteosi del minimalismo applicato al jazz: una figurazione ripetuta del contrabbasso e del piano (ancora Leo Genovese, anche autore del pezzo), sulla quale la voce sembra navigare dolcemente, spinta avanti da una splendida e delicata risacca sonora, che si accresce e reinventa a ogni passaggio. Anche dietro Formwela 8 c’è un’idea terapeutica, quella di una musica in grado di sciogliere l’ansia, di cullare e di far stare bene: una musica per curare lo spirito. La ripetizione in crescendo di questa semplice (e bellissima) figurazione ritmico-melodica produce un’immediata allegria nel cuore dell’ascoltatore, e il desiderio immediato di lasciarsi cullare dai suoni, abbandonandosi letteralmente al flusso sonoro: in questo senso l’esperienza di Formwela 8 è a metà strada tra il terapeutico e il religioso, se per religione si intende l’abbandono ad un senso del sacro, e in questo caso del Bello. In 11 minuti di beatitudine sonora, la Spalding e la sua band riescono a fermare il tempo, trasformandolo a proprio piacimento, e viene voglia che il brano continui a ripetersi e a crescere indefinitamente. In Formwela 9 assaporiamo invece un jazz notturno e cadenzato, scandito da un contrabbasso magmatico e da una voce affascinante e seducente, screziato ancora da sezioni potentemente free dominate dal sassofono di un Burnett più che ispirato, che sfociano sempre nella ripresa del giro iniziale. Formwela 10 è forse il brano più canonicamente strutturato del lotto: una ballad jazz quasi tradizionale, guidata dal contrabbasso e dalla voce della Spalding, mai come in questo caso stretti in un abbraccio lungo e profondissimo, e scandita dal piano di Genovese e dalla batteria, lieve ma essenziale, suonata da Francisco Mela. Il brano cresce dentro un ritornello delicato e in lieve sapore di bossa nova, e ha i caratteri di una canzone senza tempo, al tempo stesso classica e contemporanea, un episodio di raro splendore compositivo. Al pezzo forse più canonico (in senso lato) segue quello più peculiare, il piccolo fantasie impromptu di Formwela 11, un duetto tra i vocalizzi liberi della Spalding, che inseguono il puro suono, e un frastornante arpeggio della chitarra acustica di Matthew Stevens, che si tramuta in una specie di jazz dapprima in odore di dixieland, poi in una velocissima divagazione verso il bebop e infine quasi in un delicato notturno pianistico accarezzato da soffuse e prolungate note di sassofono. La complessità di Formwela 11 rompe, con il suo accentuato nervosismo ritmico, il clima disteso costruito da Formwela 10, e la seguente Formwela 13 cerca di riportare il movimento dentro la forma-canzone ma al tempo stesso la nega e la supera componendosi in realtà di diversi momenti, anche molto in contrasto tra loro, tenuti insieme dalla voce della Spalding: c’è la distensione del jazz, uno spirito free apocalittico e alcune derive quasi prog. Il pezzo è nervoso e composito, stratificato e complesso e va a spengersi delicatamente dentro una coda strumentale in cui la voce si fa puro suono, sublimando così un tentativo che è sempre presente in tutti i passaggi del lavoro.
Quello contenuto nelle dodici tracce di
Songwrights Apothecary Lab è un jazz sorprendente, di una forza e un’eleganza che hanno pochi eguali nel panorama contemporaneo: musica che riesce ad essere minimalista e magniloquente al tempo stesso, metafisica ma anche incarnata, seducente e fisica. Da una parte, tutte le vibrazioni degli strumenti riescono magicamente a toccare le corde giuste nell’animo dell’ascoltatore, e spingere a una laicissima comunione sonora in cui sia il musicista che chi fruisce diventano parte del magma sonoro, e del processo che porta alla luce armonie e melodie: la vibrazione delle corde, la propagazione dell’onda sonora, diventano un veicolo (fisico) per una comunione spirituale. D’altronde, la fisicità dell’intero processo risiede essenzialmente nella natura di questi brani, tutti assolutamente suonati: sembra un parossismo, ma in un’epoca nella quale una bella fetta di musica tende a essere sempre più programmata che non effettivamente eseguita fa una differenza fondamentale. In questo contesto, il pizzicato delle dita sulle corde del contrabbasso diviene l’epitome ideale di un modo di intendere la performance artistica, nel quale non si suona banalmente con le sole mani, ma principalemte con la testa e il cuore: l’espressività della Spalding e dei suoi musicisti è quasi commovente, l’interplay tra i protagonisti gioioso e profondo, la resa complessiva stupefacente. Songwrights Apothecary Lab è un disco che solleva letteralmente l’ascoltatore da terra, come alleggerendolo: fornisce le ali non solo a chi lo suona, ma anche a chi ne diventa parte semplicemente prestando la propria attenzione. Le dodici tracce di questo lavoro costruiscono, nella loro successione, una strepitosa progressione a metà strada tra il jazz intimista, le ritmiche diseguali, l’invocazione (quasi)religiosa e un senso di laicissima meraviglia di fronte all’umano e al suo posto nel mondo; una successione benedetta dalla voce meravigliosa della Spalding, che sembra provenire proprio da un altro pianeta. Anche l’approccio dell’artista di Portland (classe 1984, una mia coetanea) al contrabbasso, che sta a metà tra il virtuosismo, la ricerca di una “vocalizzazione” del suono e la sostanza quasi mingusiana di alcune soluzioni (penso all’accompagnamento diseguale e al tempo stesso pieno di groove di Formwela 3, ma sono innumerevoli i passaggi del disco nel quale vengono alla mente le composizioni e lo stile unico del grande contrabbassista americano, di cui è ricorso peraltro pochi giorni fa, il 22 aprile, il centenario della nascita), è il manifesto gioioso di un modo di intendere l’esecuzione e lo strumento come estensione della propria anima, estensione che consente di esprimere con maggiore profondità sensazioni e sentimenti che resterebbero impossibili da esprimere con l’ausilio delle sole parole. Ecco, nella performance della Spalding c’è la sensazione di una forza che si accresce nella comunione della voce e delle linee di basso, come se nessuna delle due componenti potesse fare a meno dell’altra: due voci, in qualche modo, che si completano a vicenda, si sostengono, riescono a dire più di quello che ciascuna delle due, da sola, riuscirebbe a fare. Anche in virtù di questo splendido lavoro della sua autrice, Songwrights Apothecary Lab regala un’ora tonda di pura beatitudine musicale (e non solo): suoni e atmosfere che fanno bene allo spirito, un flusso inesausto di invenzioni, idee ed emozioni. Musica allo stato puro, di un romanticismo quasi primigenio, per quanto assolutamente e irriducibilmente contemporanea, piena di una vitalità contagiosa che pesca tanto dalla tradizione del jazz quanto dalla musica nera più moderna, tenendo insieme un mondo che affonda le radici in un tempo lontano ma resta ancora tutt’oggi il vero cuore pulsante dell’innovazione musicale: stiamo parlando di un’esperienza, prima ancora che di un semplice ascolto, qualcosa che spinge i limiti un po’ più in là, qualcosa di davvero, profondamente innovativo: queste dodici tracce rappresentano lo sforzo di mettere in musica e plasmare l’esperienza, totalmente e irriducibilmente personale, attraverso la quale ascoltiamo e sentiamo (con le orecchie e con lo spirito) il potere curativo della musica. Avendo recentemente cominciato ad ascoltare con maggiore attenzione i grandi contrabbassisti della storia del jazz, sicuramente per interesse dato che ho da poco approcciato lo studio serio dello strumento, mi è venuto immediatamente da identificare in Esperanza Spalding l’erede di una tradizione musicale che viene da lontano (da Paul Chambers, appunto dal già citato Charles Mingus, da Ron Carter) e che getta un ponte verso un futuro luminoso: per una musicista attiva da ormai almeno 15 anni, niente di cui stupirsi. C’è solo da studiare, continuare a crescere, essere curiosi, porsi domande, saper improvvisare: tutte lezioni che la musica di Songwrights Apothecary Lab insegna con un’eleganza e una leggerezza rare, e quindi assolutamente preziose in un tempo, come il nostro, sempre meno pronto allo stupore e mortiferamente avvinghiato alle proprie (spesso tristi) certezze.

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