“I am silver and exact”: Mirrors (Mirrors, 2021)

Prendete cinque musicisti durante una pandemia, teneteli a vivere e lavorare sotto lo stesso tetto in Alentejo (Portogallo) e lasciate che scrivano musica seguendo una sola regola, ovvero che ogni brano veda la luce dalla collaborazione tra almeno due quinti dell’ensamble: in questo modo Justin Stanton (polistrumentista e compositore, già parte degli Snarky Puppy) e la cantante portoghese di fado Gisela João hanno coinvolto Michael League (basso e leader degli stessi Snarky Puppy), Becca Stevens e Louis Cato nel progetto collaborativo Mirrors. Dalle sessions condotte dai cinque musicisti verso la fine di agosto del 2020 sono nati 10 brani oggi raccolti nell’album omonimo Mirrors, pubblicato lo scorso 12 novembre dall’etichetta di League & Co., GroundUP Music, dopo esser stato preceduto da un EP contenente quattro dei dieci pezzi che compongono l’album. Cinque artisti, tre paesi (USA, Cato e Stevens; Portogallo, Stanton e João; Spagna, League), e dieci brani costruiti come una risposta profonda alle limitazioni legate alla pandemia; ed è soprattutto una forte urgenza comunicativa quella che sembra di udire in questi 40 minuti scarsi di musica dal/del mondo, che è soprattutto musica globale, senza confini, multiforme come molteplici sono le sue influenze. In qualche modo, Mirrors sembra declinare in versione pop quelle che erano le premesse dell’ultimo lavoro di studio degli Snarky Puppy di League e Stanton, Immigrance: una musica fluida che riconosce nel movimento incessante, nelle sonorità provenienti dai quattro angoli del globo, la sua matrice, la sua essenza e il suo fine ultimo. Soprattutto, Mirrors è un lavoro di musica pop, anche se a prima vista può sembrare riduttivo definirla tale: ma stiamo parlando di un pop luminoso, elegante, a volte persino trasfigurato, irriconoscibile se ci si lascia irretire dalla facile equazione secondo la quale pop corrisponde ad ascolto distratto, disimpegnato; un pop fatto di strati, un discorso complesso che fonde in sé sonorità, movenze e sentimenti disparati in una sintesi di abbacinante splendore. Ecco, mi verrebbe da dire subito che le dieci tracce di Mirrors sono belle come un auspicio, una speranza: lasciano pensare al mondo come a una cosa sola, unica, unita, e sono la miglior medicina per una dimensione collettiva che oggi è resa tristemente molto più difficile dall’emergenza COVID-19; sono belle come una speranza perché ci ricordano, in maniera diretta, come solo nell’unione, nell’incontro e nel confronto l’essere umano si renda davvero capace di esprimere il meglio di sé, inequivocabilmente. La condizione umana, per quanto si voglia indorare la pillola, è sempre quella di chi è senza radici: ma anche quando è il vento, o un qualsiasi altro flusso, a trasportarci con sé, la responsabilità di ciascuno resta quella di trovare gli altri, conoscerli, accettarli, difenderli. “Io sono quel mare e sono venuto in una coppa”, scriveva il poeta persiano Baba Tahir: ed è difficile non pensare a questi brani, con tutti i loro colori e la ricchezza delle loro commistioni, come a qualcosa che tratteggi un ritratto meno che fedele, meno che affascinante proprio di quel mare, quel mondo complesso e multiculturale che dovremmo abitare (e, spesso inconsapevolmente, abitiamo) ogni giorno.
L’idea alla base della scrittura di
Mirrors non è tuttavia nuova, ed è stata ispirata a Stanton da uno dei dischi che il musicista più ha amato in gioventù, The Telluride Sessions, un LP del 1989 realizzato da un supergruppo di musicisti bluegrass seguendo lo stesso pattern, ovvero quello che prevede che i brani vengano ogni volta composti a quattro mani da due membri del collettivo: nelle parole dello stesso Stanton, “[That] album was very enlightening for me, it had a big impact on my musicality”. Sono le percussioni tribali di Can’t Stop Moving ad aprire Mirrors: la voce eterea di Becca Stevens e quella di Louis Cato, coautori del brano, si mescolano a disegnare melodie sulle fondamenta edificate dai bassi tellurici del buon Michael League e dal drumming inquieto e funky dello stesso Cato in congiunzione con delicati tappeti delle tastiere. Louis Cato è anche coautore, insieme a Gisela João, della splendida traccia successiva, The Call: un duetto in parte in portoghese e in parte in inglese per una love song affascinante, una ballad costruita sulla ripetizione di una semplice, malinconica figura ritmica. Michael League e Justin Stanton sono gli autori della successiva Say It, una traccia fatta ancora di ritmiche percussive e che ricorre ad elementi melodici ed armonici chiaramente debitori dell’esperienza degli Snarky Puppy (in particolare per l’arrangiamento dei fiati): League ci mette anche la voce, come nel suo recente album solista, So Many Me, oltre ai consueti, meravigliosi pedali bassi. A League e Cato si deve la splendida Sleep, un rock-pop incernierato sul basso distorto del leader degli Snarky Puppy, con un ritornello nel quale la voce di Cato viene doppiata da una geniale sezione d’archi e che riserva nel bridge, subito prima dell’ultimo chorus, una luminosissima apertura di marca quasi beatlesiana. La ballad Una Rosa, scritta da League insieme a João, seduce con le sue malinconiche tinte sudamericane e l’unico testo in spagnolo del lotto, e soprattutto con la voce meravigliosa della sua autrice, incrinata da un sentimento profondissimo e trasparente come cristallo al tempo stesso: un brano semplicissimo eppure pieno di trasporto emotivo. Il singolo di lancio Over The Line, opera ancora di League e della meravigliosa Becca Stevens, rappresenta appieno il clima che ha fatto da substrato alla stesura di Mirrors: è una gemma di un pop luminoso arricchito da una linea di basso perfettamente incalzante di League (difficile attendersi di meno, d’altra parte), suonata su un cinque corde, dalle african-vibes latenti (ma non troppo) dei cori e da un solo strepitoso di Stanton alle tastiere. La voce della Stevens mette i brividi e vola come sempre altissima e il testo del brano (anche questo scritto a metà dall’artista americana con League) mette in versi proprio la necessità di trovare l’unione che consenta di combattere in modo vincente le battaglie veramente importanti: The seed of this song came from a desire to inspire our male counterparts to do their part in advocating for gender equality. When Mike and I were writing the lyrics, we were addressing this theme from a perspective of two people working together at a common goal, and that through this kind of teamwork progress is made. In the creative process we addressed this idea of teamwork from different angles; sometimes working side by side, sometimes holding the other up, and sometimes sitting back and just listening. Cato e Stanton firmano il pop elettronico di Weary, una splendida digressione quasi ambient sul tema delle relazioni interpersonali (Sometimes we become blindly devoted to our relationships with others. We become unhappy; we are mistreated; we feel trapped. Still, we soldier on, ready to serve the person that betrayed, neglected, or abandoned us, dice Stanton parlando del brano): la voce di Cato, morbidamente soul, scivola sul sinuoso tappeto sintetico del brano, accarezzata da grappoli di note del pianoforte, per un altro episodio di disarmante semplicità, intriso di un pathos struggente. Di tutt’altra pasta I don’t blame the wind, scritta a quattro mani da Stevens e João, che si producono in un imperdibile duetto vocale (non capita tutti i giorni di godere di uno spettacolo di questa portata): si tratta di un brano pop quasi cinematico, sinfonico, magniloquente nel suo incedere per quanto sintetico ed esatto nella sua composizione, basato quasi integralmente sull’afflato romantico e sull’affiatamento tra le due performer, splendide per tutto il brano e in particolare nell’ultima sezione strofa-ritornello, veramente da pelle d’oca. João firma anche Tempestade, stavolta con Stanton: altro brano cantato in portoghese, pieno di nostalgica saudade, debitore del fado e insieme classico esempio di duetto piano e voce, Tempestade è una ballad intrisa di un romanticismo senza tempo, che chiede di essere ascoltata in un silenzio quasi religioso, contemplativo (tra virgolette, altra performance vocale di livello assoluto della João). Justin Stanton e Becca Stevens sono infine coautori dell’ultima traccia di Mirrors, Life is Fine: la Stevens ci mette una voce talmente bella da lasciare a bocca aperta, adagiata su un tappeto minimale di drum machine, piano e bassi ondeggianti, e a lei risponde ancora Cato, col brano che raggiunge un climax di intrecci vocali di luminoso splendore, prima di un solo di chitarra che lo taglia letteralmente a metà, aprendolo nell’ultima sezione cantata a tentazioni sonore/melodiche che rimandano alla mente perfino qualcosa dei Radiohead.
Quando penso a musica realmente contemporanea, tipicamente non riesco a pensare a qualcosa di definito, racchiuso dentro un genere, un recinto preciso, con coordinate note e invariabili; penso invece a qualcosa che vada a pescare da esperienze anche distantissime e apparentemente inconciliabili, geograficamente e musicalmente. Credo si possa parlare in ogni caso di un concetto di tipo geografico, o se vogliamo cartografico: un’ideale mappa del nuovo mondo, che è il nostro mondo, quel mondo che abitiamo e che si trasforma ogni giorno sotto i nostri occhi, me la immagino fatta di intenzioni e sensazioni che ho ritrovato tali e quali in questi dieci, splendidi brani. Sebbene stiamo parlando un disco sostanzialmente pop, non stupisce che dentro
Mirrors si ritrovino così tanti elementi a comune con il linguaggio musicale del jazz, cioè il linguaggio che meglio rispecchia e stimola il confronto con i tempi mutevoli nei quali viviamo: non si tratta semplicemente del background di questi musicisti, che pesca a piene mani proprio dal jazz e dalla fusion (pensiamo solo a League e Stanton), ma dell’approccio attraverso il quale queste dieci tracce sono state concepite, scritte e incise. Mirrors è un lavoro chiaramente orientato al pop, inteso qui (banalizzando) in termini di musica accessibile all’ascolto, ma nel quale i dettami della popular music si ibridano con numerosi altri linguaggi (che dalla popular music non sono poi così distanti, anzi…): dalla musica tradizionale portoghese, il fado, la cui ombra malinconica si proietta su brani come The Call, Una Rosa o Tempestade, al funk di Can’t Stop Moving e alle poderose esplosioni ritmiche di marca africana che si possono ascoltare ad esempio in Say It; dai fiati in odor di jazz della stessa Say It al pop luminoso di Over the Line e a quello beatlesiano di Sleep, fino al romanticismo cinematico di I don’t blame the wind e ai flirt con l’elettronica di Life is Fine e Weary; tutti questi elementi concorrono a comporre un testo complicato, ricco di riferimenti, colori e sapori sapientemente miscelati dal lavoro di Nic Hard dietro la console per trarne quello che si potrebbe definire un album di pop-music totale, quasi l’album pop definitivo, sicuramente una delle vette di questo 2021: una cosa che negli anni ’80 avremmo liquidato col termine/etichetta di world music (l’hanno fatta in tanti, da Brian Eno a Peter Gabriel a Paul Simon, tanto per citarne alcuni) e che oggi chiamerei invece, semplicemente, Musica; e la maiuscola, come sempre quando si parla di musicisti di questo livello, non sarebbe affatto casuale.

Nota: il titolo di questo post cita metà del primo verso di una splendida poesia di Sylvia Plath, Mirror, che potete leggere cliccando qui.

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