I primi 35 anni delle tartarughe blu: The Dream of the Blue Turtles (Sting, 1985)

Una miriade di tartarughe blu che danzano a passo di jazz: quest’immagine onirica dà il titolo al primo album solista pubblicato da Sting (al secolo Gordon Matthew Thomas Sumner) dopo lo scioglimento dei Police, The Dream of the Blue Turtles, che ha compiuto 35 anni proprio nel luglio appena trascorso. Come ti reinventi una carriera dopo aver fatto parte di una band che, bene o male, è stata in grado di cambiare una buona fetta delle coordinate musicali del pop-rock a cavallo tra anni ’70 e ’80? Sting ha provato a farlo abbandonando la propria comfort zone con questo lavoro, registrato a cavallo tra il 1984 e il 1985, nel tentativo di coniugare il passato (ovvero il jazz, primo amore musicale della vita dell’ex maestro di scuola inglese) con il futuro (la ricerca incessante di una propria personale strada nel mondo della musica). Siccome le rivoluzioni, piccole o grandi che siano, non si fanno mai da soli, per portare a termine questa Sting si è circondato di un gruppo di musicisti che (francamente) ha pochi eguali nella storia della pop music, composto dallo strepitoso Omar Hakim (già batterista degli ultimi Weather Report, e per Miles Davis, Victor Bailey, Dire Straits, David Bowie…) dietro le pelli, Branford Marsalis (fratello del forse più noto Wynton) al sassofono, l’elegantissimo Kenny Kirkland alle tastiere e Darryl Jones, autentica forza della natura, al basso elettrico, riservandosi il ruolo di chitarrista e di contrabbassista (per il brano Moon Over Bourbon Street). Una band di musicisti neri, ma con un band leader bianco: anche questa una sinergia curiosa (e volontaria) che, per fortuna dei nostri occhi (e soprattutto delle nostre orecchie), è stata anche immortalata nello splendido documentario Bring On The Night di Michael Apted, uscito sempre del 1985, nel quale si possono ammirare le sessioni di stesura e registrazione dei brani di questo primo album e che, principalmente, racconta il tour che ne seguì (oggetto del secondo lavoro di Sting, il live album intitolato appunto Bring On The Night). Una band in stato di grazia che sopperisce anche a quello che è, a tratti, il più evidente piccolo difetto di questo The Dream of the Blue Turtles: pur nel coraggioso perseguimento di una direzione musicale nuova e personale, Sting deve infatti fare i conti con materiale che era stato pensato per i Police, e che deve quindi essere riletto e rivisto, filtrato attraverso la nuova sensibilità dell’autore e del suo nuovo gruppo di musicisti. Ma, come in ogni ciambella che riesce col buco, The Dream of the Blue Turtles trae il proprio punto di forza esattamente da questa debolezza: Sting abbandona palesemente (ammesso che vi abbia mai creduto) l’idea che la musica pop debba essere standardizzata e immutabile, qualcosa da riproporre sempre uguale a se stesso, e tenta di trasformare anche quei brani che, come la cover Shadows in the Rain, provengono direttamente dai lavori della band madre. Scegliere di riplasmare qualcosa che già funziona, che è noto e che metterebbe l’ascoltatore (o il fan) nel pieno della comodità della propria comfort zone diviene, per Sting, il sinonimo di un modo diverso di intendere la musica come qualcosa di vivo, dinamico, che si lascia respirare e che cresce e cambia con chi la suona (e con chi la ascolta), una strada difficile ma che promette di essere foriera di soddisfazioni. Il nuovo corso si apre con un pezzo sospeso tra il soul dei cori e gli arrangiamenti jazzistici, If you love somebody set them free, una miscela di sonorità distanti anni luce (volontariamente) dal sound dei Police. Love is the seventh wave sposa invece sonorità caraibiche, maggiormente vicine al reggae-rock della band madre, e si permette di sovrapporre al gusto smaccatamente pop, che trasuda dall’orecchiabilissima melodia, un po’ di sano autocitazionismo sulla coda finale (che ripesca giocosamente nientepopodimeno che quel testo sacro che risponde al titolo di Every Breath You Take); Russians propone invece un inedito crossover tra lo spirito pop del signor Sumner e la Romanza di Prokofiev, per un brano di potente drammaticità incentrato sul tema della guerra fredda (e presentato, peraltro, anche al Festival di Sanremo l’anno seguente), caratterizzato da un testo piuttosto importante che si schiera a favore del buonsenso sovietico nel tentare di evitare l’escalation atomica nei confronti del nemico a stelle e strisce (There’s no such thing as a winnable war/ It’s a lie we don’t believe anymore/ Mr. Reagan says “We will protect you”/ I don’t subscribe to this point of view/ Believe me when I say to you/ I hope the Russians love their children too). Children’s Crusade ha la levità del valzer e si giova del meraviglioso interplay della sezione ritmica di Hakim e Jones (in particolare quest’ultimo, in totale stato di grazia), con Sting che deve solo preoccuparsi di dipingere la bellissima melodia vocale: consiglio di ascoltare a volume altissimo per non perdersi un solo passaggio della linea di basso di Darryl Jones (in particolare dopo il verso che comincia per Midnight in Soho…), che era (ed è) un musicista dalla grandiosa potenza espressiva, devastante negli up-tempo quanto incisivo nelle ballad come questa. Shadows in the Rain, come già accennato, ripesca invece dal repertorio dei Police (il brano faceva parte del terzo album della band, Zenyatta Mondatta, pubblicato nel 1980), ma lo fa per reinventare il passato attraverso le lenti deformanti del presente (e del futuro), figlio dell’idea che niente sia intoccabile e tutto resti vivo, rimodellabile, reinterpretabile, proprio quel rifiuto di considerare la musica come qualcosa di fisso e immutabile, sposandone piuttosto l’aspetto del divenire, della mutazione, del cambiamento, che guida questo intero lavoro. We work the black seam torna a far capolino dalle parti dell’impegno sociale, sposando la causa dei minatori inglesi (all’epoca alle prese con le disgustose politiche thatcheriane) e aprendo ad atmosfere più rarefatte che divengono più frequenti nella seconda metà del lavoro. Consider Me Gone è un piccolo gioiello jazz-pop, incastonato nella tracklist prima dello strumentale che dà il titolo al lavoro, altro sfoggio di grandiosa maestria musicale della band tutta. Su Moon Over Bourbon Street, come detto, Sting imbraccia il contrabbasso e torna a ispirarsi alla letteratura, come già accaduto con Tea in the Sahara per l’ultimo album dei Police, Synchronicity: stavolta l’ispirazione giunge da Intervista col Vampiro, romanzo di Anne Rice, per un brano di denso jazz scuro, fumoso e notturno. Chiude il lavoro Fortress Around Your Heart, che torna a sconfinare in territori maggiormente à la Police, e a rialzare un po’ il ritmo.
Ad oggi il pop-jazz di
The Dream of the Blue Turtles, che all’epoca era forse un ibrido un po’ più inconsueto di quanto non lo sia ai giorni nostri, può apparire abbastanza distante dallo spettro sonoro mainstream cui siamo abituati: eppure, udite udite, questa qua 35 anni fa era musica pop, e di qualità francamente imparagonabile a tante cose che si ascoltano ancora oggi. Badate bene, non si tratta di un discorso di conservatorismo musicale, né di una variante del classico “si stava meglio quando si stava peggio”: questo album, certamente al pari di molti altri che si potrebbero citare, testimonia di un’attenzione alla scrittura dei brani e alla loro esecuzione che oggi una larghissima fetta della musica pop ha completamente smarrito. Sting non si circonda qui di un po’ di musicisti a casaccio, ma sceglie i suoi compagni di strada avendo ben chiaro in mente quanto un certo artista possa aggiungere alla sua proposta musicale: il prodotto che ne esce non è qualcosa di conforme a uno standard, ma piuttosto una raccolta di brani pop suonati con l’eleganza del jazz da un gruppo di musicisti eccezionali, non soltanto da un punto di vista tecnico, ma proprio per delicatezza ed eleganza esecutiva, i quali riescono, da un punto di vista dell’espressione, ad aggiungere toni e sfumature sempre inattese e stimolanti. Non sono tanti, nel 2020, gli artisti pop che tentano di mettere insieme un progetto del genere, mentre molti di più sono quelli che si accontentano di un accompagnamento strumentale anonimo sul quale inanellare una raccolta di ritornelli radiofonici. Recuperare The Dream of the Blue Turtles, magari insieme al bellissimo documentario di Michael Apted Bring On the Night e all’omonimo album live, permette in primo luogo di gettare uno sguardo sugli inizi di una carriera solista che, pur tra tentennamenti e passi falsi, avrebbe condotto Sting fino al giorno d’oggi in un percorso di intensa ricerca strumentale e musicale; ma, a 35 anni di distanza (portati benissimo), questo album consente soprattutto di assaporare dieci brani pieni di eleganza, scritti bene e suonati meglio, una gioia per le orecchie di ogni ascoltatore attento. Fate gli auguri a queste tartarughe blu, una delle band più sensazionali che dal jazz abbiano mai sconfinato nella musica pop e radiofonica, e godetevi questa bella musica.

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