July Round-Up: Joe, James e Norah

Per chi scrive, tristemente, il buon James Blake non ne azzecca una da un po’: fortuna vuole però che il nostro si sia dato parecchio da fare nel corso della quarantena, e durante questo luglio abbia dato alle stampe un nuovo brano, Are You Even Real?, che ha riacceso qualche speranza anche nei cuori più duri, tipo il mio (bum). D’altronde, non c’è cosa migliore che cambiare idea quando si tratta della voce meravigliosa del caro James, che sparpaglia delicatamente note di synth e, con la grazie e l’ispirazione dei giorni migliori, le ricompone in un pezzone come da queste parti non se ne ascoltavano da un po’: sarà il testo, enigmatico e malinconico (There’s no five years/ There’s no ten years/ Only this/ Queen of, queen of, queen of queens/ There’s no knife/ ‘Cause there’s no tension/ Only this/ Lucid dream of, dream of dreams […]), saranno le note centellinate come ai tempi del suo miglior minimalismo neo-soul ibridato con le consuete ritmiche dubstep, sarà quale violino che incide dolorosamente il magma dei loop sintetici, oppure ancora il ritornello che ti prende quanto basta, fatto è che ti viene voglia di sperare che il futuro ci riservi un album migliore degli ultimi. Forza James, sei tutti noi!

Nel frattempo, i Vulfpeck continuano imperterriti nella loro (lenta) opera di disseminazione dei brani che, verosimilmente, faranno parte del nuovo album (si intitolerà davvero The Joy of Music, The Job of Real Estate?). Stavolta tocca a Radio Shack, brano scelto per il lancio della compilation antologica Vulf Vault #2: Inside the mind of Woody Goss (ed in essa incluso, un po’ come avvenuto per 3 on E nell’analoga compilation Vulf Vault dedicata all’immenso Antwaun Stanley), e sono i Vulfpeck che non ti aspetti: se fosse un nuovo genere, lo chiamerei surf Vulf. Questa composizione del Maestro Prof. Woody Goss riprende infatti una serie di elementi classici del surf-rock, con batteria-basso-chitarra-piano (Stratton-Dart-Wong-Dosik) che corrono come treni sui binari ritmici e Theo Katzmann e Goss a disegnare melodie di estiva e solare leggerezza. Insomma, come al solito da queste parti non si sbaglia un colpo, anche se nel piccolo garage del video c’è appena lo spazio necessario a permettere al collo di Dart di “grooveggiare” liberamente (il segreto, come sempre, non è nelle dita, ma nel collo).

Credo che ormai Tailwinds, la prima prova sulla lunga distanza dei Fearless Flyers, lo abbiamo ascoltato quasi tutto, eppure ogni nuovo pezzo sorprende: Kauai è un po’ “in fondo al mar” (e infatti torna alla mente la versione di Under The Sea inclusa nel primo EP della band), un po’ irresistibile ballad scandita dai fiati, cullati dalla linea ritmico-melodica dipinta dall’inarrivabile Joe Dart, che sfrutta per l’occasione la sua classica tiny big guitar (che è un Fender Precision “baby”, a scala corta) e conferma l’attuale (e duraturo, probabilmente permanente) stato di grazia. In questa Kauai il succo sta tutto nel groove, che ovviamente è da tutte le parti: nel drumming serrato ma discreto di Nate Smith (recita il solito, immancabile commento su YouTube: “Nate Smith has more groove in his shaker than most bands”) e nell’accompagnamento di Wong (anche compositore del brano) e della baritona di Lettieri, nell’interplay irresistibile della Delta Force (come abbiamo fatto finora senza la Delta Force nella nostra vita?) e soprattutto in ogni singolo suono che esce fuori dai polpastrelli (e dal collo, ovviamente) di Joe Dart. Kauai è senz’altro una ballad, dicevamo, ma una ballad di quelle che ti spingono a muovere il piede, e ovviamente la testa, con un incedere tutt’altro che piatto (una rarità per moltissime band, la normalità per tutto ciò che ruota attorno all’universo Vulfpeck), ma soprattutto è un brano che ti entra nel cervello e sembra volerti cullare, come le onde, come la luce di un caldissimo sabato pomeriggio: vale quanto scritto per Radio Shack, si sentono molte summer vibes, e non è affatto un male, anzi, avercene di estati così.

A differenza di quanto mi spinse a scrivere di The Moon & Antarctica nel Round-Up dello scorso Giugno, qui non si parla di anniversari particolari, ma solo dei casi della vita. 16 anni fa, a Luglio, ricevetti in regalo il secondo album di Norah Jones, Feels Like Home, e proprio questo album mi è capitato di riascoltare recentemente, mentre pranzavo in un agriturismo. Qui si parla di cantautorato, ma ibridato con il jazz, il blues e il folk più lieve, e di una voce quasi troppo bella per essere vera, allora come oggi (e non a caso a scommettere sulla cantautrice newyorchese c’era la Blue Note, non esattamente l’etichetta degli ultimi arrivati…). Si sa che il secondo disco è sempre il più difficile, ma bisogna riconoscere come la Jones, accompagnata dalla sua fantastica Handsome Band, se la cavi assai egregiamente: nella tracklist viene infatti snocciolata un’autentica antologia di gemme musicali, a partire dal piccolo gioiellino di Sunrise, con la voce di Norah Jones che si dondola sul contrabbasso di Lee Alexander; il blues graffiato di What Am I To You?, in aria di rock on the road da pura tradizione americana; la ballad Those Sweet Words, un lento shuffle dalla melodia sempre affascinante, sul quale emerge ancora l’ottimo lavoro di Alexander (che del brano è anche co-autore) al basso; e poi ancora il lento Carnival Town, un folk delicato e introspettivo. Alza un po’ il ritmo In the Morning, che introduce lo slow blues crepuscolare Be Here to Love Me e lascia spazio al duetto con Dolly Parton, icona vivente del country, sull’up-tempo Creepin’ In, altro brano scritto da Lee Alexander che recupera e omaggia la grande tradizione musicale americana. Toes torna al folk elegante e lieve che caratterizza la maggior parte delle opere degli esordi di Norah Jones, qui anche nella vesta di autrice ancora assieme a Alexander, ai tempi anche compagno nella vita; Humble me si avvita come una filastrocca attorno alla chitarra resofonica di Kevin Breit (autore del brano), per poi allargarsi in un ritornello ampio come l’orizzonte; segue Above Ground, composizione sotterranea di Andrew Borger, batterista della band, in odore di alternative rock (ma quello di una volta, non quello che va oggi) e tagliata a metà dall’assolo di chitarra di Adam Levy. Ci si cimenta anche (con successo) con la cover di un autentico mostro sacro, il Tom Waits di Long Way Home, prima di tornare al blues per The Prettiest Thing, un brano scritto durante un volo aereo sul Midwest che, come a volta capita, incoccia in una tempesta di fulmini: per usare le vive parole della Jones, “It was frightening, but also very beautiful. I started singing, ‘The prettiest thing I ever did see was lightning from the top of a cloud…’”, mentre per il resto basta l’assolo vagamente jazzistico del pianoforte, che cuce insieme la prima parte del pezzo e il suo finale sognante (vi lascio qua sotto una versione live del brano). La chiusura è affidata al pianismo jazz raffinatissimo di Don’t Miss You At All, scritta in proprio dalla Jones riadattando largamente varie parti di Melancholia, standard per piano solo del grande Duke Ellington, pubblicato nel 1955: un finale splendido in un’atmosfera da jazz club per un lavoro pieno zeppo di grazia, intuizioni e grande musicalità. Per chi scrive, Norah Jones negli anni si è un po’ persa, inseguendo una declinazione del pop che l’ha portata a flirtare più col rock da classifica che con i territori nei quali potesse dare il meglio di sé, appunto quelli delle composizioni jazz, blues e folk (e però nel mezzo c’ha pure piazzato un ruolo da protagonista in My Blueberry Nights, di cui parlavo qui una dozzina di anni fa, e quindi diciamo che in parte la perdono, ma solo perché Kar-Wai è il Maestro): eppure è stato illuminante riascoltare questo disco e ritrovarci dentro tanta qualità e tanta grazia, sia nella scrittura che nell’esecuzione, ed è stato sorprendente pensare che, soltanto 16 anni fa, un disco del genere, malinconico, fatto di episodi lievi e delicati, potesse stare in classifica e starci bene. Se non l’avete mai ascoltato, potete cogliete l’occasione di queste poche, inadatte parole per scegliere di fare un giro su questo carosello musicale elegante, colmo di musica scritta e suonata col cuore, con un’ispirazione fuori del comune; se invece lo conoscevate già, magari vi verrà voglia di rimetterlo sul piatto. In ogni caso, non avrete di che pentirvi.

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