Il teatro dei sogni e la conquista dell’inutile: Fitzcarraldo (Werner Herzog, 1982)

Ho deciso due cose: che farò sostituire il portante di sostegno, indipendentemente da quanto tempo ci vorrà, con una struttura sicura al cento per cento, e che a quel punto mi farò carico da solo di trascinare la nave fin sulla cima del monte. I dati fisici sono noti e di facile comprensione: peso della nave, pendenza del terreno, traduzione delle forze nel sistema di carrucole, perdita di attrito; ciò che resta di imponderabile deve escludere che il punto di sostegno non regga, e non dovranno mai esserci delle persone sopra o dietro la nave mentre viene trascinata su per il pendio. K. [Kinski] ha gridato che sono un pazzo e che quello che ho intenzione di fare è un crimine, e io gli ho detto soltanto che se la nave dovesse sganciarsi nessuno sarà in pericolo, che mi sarò limitato a fracassare una nave in un bell’evento cataclismatico. Ho aggiunto che questo però non è il mio scopo, sono qui per un altro tipo di visione e sto al suo servizio. (Werner Herzog, La Conquista dell’Inutile, trad. it. di Monica Pesetti e Anna Ruchat, ed. Mondadori)

Se nella lunga storia del cinema c’è un film che non necessita di presentazioni, quello è senza dubbio Fitzcarraldo: Werner Herzog iniziò a lavorare nel 1979 alla fatica che gli sarebbe valsa il premio per la miglior regia alla trentacinquesima edizione del festival del cinema di Cannes (1982), ritornando in Perù a sette anni dalle riprese di un altro classico della sua produzione, Aguirre, Furore di Dio (Aguirre, der Zorn Gottes, 1972). A trasportare la vicenda di Fitzcarraldo direttamente dentro la leggenda ci hanno pensato soprattutto gli eventi extra-filmici: avviato come una colossale produzione hollywoodiana, con budget milionario, cast di stelle (Jason Robards, ma anche Mick Jagger, alla prima prova davanti alla macchina da presa) e sotto l’egida di Francis Ford Coppola, il progetto di Fitzcarraldo si scontrò ben presto contro le meccaniche dell’industria dei sogni, di fronte alle quali Herzog scelse (in totale coerenza col proprio pensiero) di non piegarsi. A questo si devono aggiungere le difficoltà titaniche (queste sì) incontrate dalla troupe durante la pianificazione e lo svolgimento delle riprese, i rapporti difficili con le tribù indigene dell’Amazzonia, ulteriormente complicati dalle legittime rivendicazioni territoriali di molte di queste (le relazioni che Herzog cercò di stringere con la tribù degli Aguarunas, che viveva nella zona scelta per girare la maggior parte delle scene del film ed era all’epoca impegnata in una battaglia per ottenere il riconoscimento del proprio diritto su quei territori, portò le riprese di Fitzcarraldo all’attenzione dell’intera comunità internazionale, nonostante il sostegno da sempre dichiarato del regista alla causa degli indigeni), il numero altissimo di incidenti avvenuti sul set, in particolare durante la realizzazione della mitica sequenza nella quale il protagonista, insieme a centinaia di indigeni, issa il proprio vaporetto, la Molly-Aida, su per una montagna (probabilmente l’epicentro dell’intero film, sul quale chiaramente tornerò più avanti), i numerosi feriti, gli smottamenti del terreno causati da alluvioni e i successivi momenti di siccità: la vera e propria furia degli elementi, si direbbe, contro la quale Herzog marciò ad ogni modo spedito come uno dei molti personaggi delle sue storie, titanicamente, mostrando le consuete tenacia e forza di volontà granitiche. Le vicende (spesso rocambolesche) che hanno segnato la lavorazione del film sono oggetto anche di una raccolta di (non)diari di lavorazione, pubblicata in Italia da Mondadori col titolo di La conquista dell’inutile (titolo ispirato a una delle battute del film, con riferimento all’appellativo di conquistatore dell’inutile rivolto a Fitzcarraldo da uno dei ricchi baroni della gomma peruviani), dalla quale peraltro proviene la citazione posta in esergo a questo pezzo: un racconto fiume che procede tra spazi diaristici e improvvise aperture poetiche, scritto nello stile erratico e affascinante, sospeso a metà tra l’allucinazione del sogno e il delirio della veglia, che da sempre caratterizza la produzione letteraria del cineasta tedesco.

Ho avuto il piacere di assistere, lo scorso 11 gennaio, all’ultima proiezione in lingua originale sottotitolata della versione rimasterizzata in 4K di Fitzcarraldo (con la supervisione dello stesso regista), ospitata presso il Cinema della Fondazione Stensen di Firenze (che peraltro a fine mese chiuderà per permettere il restauro della sala, che verrà realizzato attraverso un finanziamento in arrivo su fondi PNRR che la Fondazione ha ottenuto partecipando al bando con il proprio progetto di riqualificazione dello spazio culturale che ospita). Erano circa vent’anni che non vedevo questo film, non ricordo esattamente ma credo di averlo visto una sola volta e ai tempi del liceo, su una vecchia VHS che ho ancora a casa, edita da l’Unità Multimedia (proprio altri tempi): l’impressione che mi hanno fatto queste oltre due ore e mezzo di proiezione, anche a distanza di vent’anni dalla prima volta ma forse soprattutto perché godute in un cinema, è stata letteralmente enorme. Fitzcarraldo è tutt’oggi, a quarant’anni dalla sua uscita, un’opera di una pregnanza e di una forza visionaria enormi, caratterizzata da una densità di contenuti, estetici e non, alla quale duole ammettere di non essere più abituati; un’opera letteralmente totale, un film-mondo a tutti gli effetti (uso spesso quest’espressione, me ne rendo conto mentre la scrivo, forse perché penso a ogni film come a un piccolo ecosistema con le sue leggi, la sua grammatica, la sua coesione, e cerco sempre, quando ne guardo uno, di trovare questi elementi al suo interno; eppure forse qui mi sento di stare usandolo in maniera davvero onnicomprensiva, pervasiva, piena, senza abusi né forzature).

Le vicende narrate da Herzog in Fitzcarraldo prendono ispirazione da una vicenda reale, che coinvolse Carlos Fermin Fitzcarrald, barone peruviano della gomma di caucciù che, nel 1894, decise di disassemblare una delle proprie barche e trasportarla attraverso un istmo di terra di circa 11 km tra i fiumi Urubamba e Madre de Dios in Perù, lembo di terra che oggi ha preso il suo nome (Istmo di Fitzcarraldo), permettendogli così di abbattere i costi del trasporto fluviale e soprattutto velocizzando lo spostamento della preziosa merce (di lì a pochi anni il boom della gomma si sarebbe esaurito ma il Fitzcarraldo storico non avrebbe visto la fine di quell’età dell’oro, incontrando la morte nel 1897, poco prima del collasso dell’industria). Herzog riprende l’idea dell’istmo e ci costruisce intorno la vicenda del suo Fitzcarraldo (interpretato da un come-al-solito-mai-meno-che-straordinario Klaus Kinski): Brian Sweeney Fitzgerald (Fitzcarraldo è la storpiatura che gli indigeni danno del suo nome, incapaci di pronunciarlo) è un eccentrico imprenditore di origini irlandesi che ha perso tutto tentando di realizzare un folle progetto per una ferrovia transandina in grado di collegare le regioni interne del Perù al mare (una vera ferrovia transandina ovviamente esiste, anche se ormai dismessa, e venne realizzata intorno al 1874). Fitzcarraldo è però soprattutto un accanito melomane: Herzog ce lo presenta mentre, insieme all’amata Molly (Claudia Cardinale), raggiunge a remi il teatro dell’Opera di Manaus, in Brasile, per assistere alla messa in scena dell’Ernani di Verdi con Enrico Caruso nel ruolo del tenore e Sarah Bernhardt sul palco, doppiata da una cantante d’opera. Fitzcarraldo e Molly sono partiti da Iquitos, in Perù, e hanno navigato il Rio delle Amazzoni fino a Manaus, in Brasile, prima a motore e poi, dopo che questo si era danneggiato, remando. Fitzcarraldo è sfinito, le mani consunte della sforzo, ma con la compiacenza di uno degli uscieri del teatro i due singolari viaggiatori, pur sprovvisti di biglietto, riescono ad accedere alla sala: per Fitzcarraldo poter ascoltare dal vivo Caruso è l’obiettivo dell’intero viaggio, strettamente legato al sogno/pensiero fisso che alberga nella mente dell’uomo, quello di costruire un grande teatro dell’opera a Iquituos, la città in cui vive, nel bel mezzo della foresta amazzonica, e farlo inaugurare dallo stesso tenore. Durante la performance, Caruso volge lo sguardo alla platea e incontra quello, allucinato e adorante, di Fitzcarraldo: Molly sostiene che Caruso abbia guardato proprio verso di lui, e Fitzcarraldo non fatica a convincersene. La decisione è presa: la costruzione del teatro non può attendere. Tuttavia il percorso verso la realizzazione del sogno è irto di ostacoli: sia dal colloquio col direttore del teatro dell’opera di Manaus, sia da quelli, tutti infelici, con i baroni della gomma peruviani presso i quali cerca credito per poter finanziare la propria impresa, Fitzcarraldo ottiene solo umiliazioni, scherno e nessuna fiducia. A poco serve l’intervento di Molly, che tenta di guadagnargli un po’ di attenzione “interessata” facendosi invitare alle feste dei baroni della gomma in compagnie dalle ragazze della sua agenzia, che prepara giovani donne da dare in sposa ai ricchi possidenti peruviani. Nemmeno la macchina per produrre ghiaccio, l’invenzione con la quale Fitzcarraldo pensa di poter rientrare in gioco nel mercato e che gli attrae la simpatia di tutti i bambini del villaggio, sembra interessare i ricchi possidenti terrieri: a che cosa mai può servire il ghiaccio in Amazzonia? Il sogno dell’opera sembra destinato a restare confinato alla capanna dove Fitzcarraldo vive e lascia risuonare i dischi di Caruso sul suo magnetofono, circondato dal suo pubblico composto da decine di bambini curiosi e un maiale. È Molly a convincerlo a parlare un’ultima volta con l’odioso Don Aquilino (José Lewgoy): e proprio in questo colloquio, Don Aquilino offre a Fitzcarraldo lo spunto per mettere in cantiere un’enorme impresa, mai tentata prima. Si tratta di raggiungere e reclamare per primo il possesso di un vasto appezzamento di terra contenente migliaia di alberi della gomma: il terreno non è ancora stato sfruttato perché raggiungerlo via fiume è oltremodo complesso. Per giungervi occorrerebbe infatti percorrere il Rio Uyacali e superare le terribili rapide del Pongo das Mortes: ma ad attrarre l’attenzione di Fitzcarraldo è la presenza, in vicinanza dell’Uyacali, di un secondo corso d’acqua, il Rio Pachitea. In un punto del loro percorso, i due fiumi sembrano quasi toccarsi, separati da uno strettissimo istmo di terra: Fitzcarraldo intuisce di poter percorrere il Pachitea fino a quel punto e da lì, dopo aver in qualche modo “trasportato” la nave al di là dell’istmo, entrare nell’Uyacali senza dover affrontare le rapide del Pongo das Mortes. È un piano folle e quasi impossibile da realizzare, ma una speranza è sufficiente per Fitzcarraldo: convince Molly a prestargli la somma necessaria all’acquisto di un vecchio battello a vapore, lo fa restaurare e allestire da una squadra di operai, lo rinomina Molly- Aida (per unire così i due grandi amori della sua vita) e, messo insieme un equipaggio sgangherato che comprende tra gli altri un capitano, Orinoco Paul (cui presta il volto Paul Hittscher), con qualche problema di vista ma un’impareggiabile conoscenza dei corsi d’acqua che il battello dovrà affrontare, un cuoco ubriacone, Huerequeque (Huerequeque Enrique Bohorquez), un povero diavolo apparentemente poco affidabile ma che resterò a fianco di Fitzcarraldo per tutto il viaggio, un primo meccanico, Cholo (Miguel Ángel Fuentes), che è in realtà una spia di Don Aquilino ma sposerà ben presto la causa e un manipolo di altri personaggi locali, parte per tentare l’impresa. Gli unici ad essere a conoscenza dei reali propositi di Fitzcarraldo sono Molly e Orinoco Paul: quando la Molly- Aida lascia gli ormeggi e inizia a risalire il fiume per dirigersi verso il Pachitea, molti (sia a bordo, come Cholo, che a terra, come il suo committente Don Aquilino) si chiedono sbalorditi cosa Fitzcarraldo abbia realmente intenzione di fare. Fitzcarraldo, fedele all’impresa e alla propria visione, mantiene le redini del vaporetto con delirante caparbietà: la nave ormeggia due volte, prima per parlare con alcuni missionari (raccogliendo maggiori informazioni sugli indios tagliatori di teste che abitano le zone circostanti al Pachitea, e che costituiscono la maggiore incognita della spedizione, nonché il principale motivo per il quale nessuno o quasi aveva mai tentato di risalire il corso del fiume), e poi presso una delle stazioni dismesse della ferrovia transandina che Fitzcarraldo aveva tentato di costruire. Fitzcarraldo viene accolto con molta gioia dal custode della stazione, convinto che il progetto possa finalmente ripartire: ma l’eccentrico protagonista in realtà si trova lì soltanto per fare incetta di materiale, smantellando i binari della ferrovia e caricandoli sul vaporetto, perché gli torneranno utili per la seconda parte del suo ambizioso piano. Il maggior pericolo del viaggio lungo il corso del Pachitea è rappresentato, come detto, dalle tribù indigeni locali, note per non intrattenere rapporti particolarmente amichevoli con l’uomo bianco (i missionari raccontano dei loro fratelli, i cui corpi decapitati sono stati restituiti dalla corrente); la decisione, apparentemente folle, di andare incontro a un tale pericolo getta la discordia sulla nave, con l’equipaggio che, sentendosi accerchiato, inizia a percepire segnali sinistri provenire dalla vegetazione. Al risuonare dei tamburi che scandisce in modo inquietante il viaggio dell’imbarcazione e alle frecce che provengono dalle sponde del fiume, scoccate da archi invisibili, per andare a piantarsi nei paramenti della Molly-Aida, a un passo dalle teste dei membri dell’equipaggio, Fitzcarraldo ordina di non rispondere col fuoco dei fucili (che in passato aveva causato la veemente reazione degli abitanti di quei luoghi), ma preferisce replicare con la voce di Caruso, accendendo il suo magnetofono e diffondendo l’opera lungo il fiume. Questa mossa sembra sorprendentemente placare gli animi degli indios ma l’equipaggio decide comunque, quando la tensione generata dall’attesa dell’attacco diventa insostenibile, di ammutinarsi. Sulla Molly-Aida restano soltanto Fitzcarraldo e i suoi tre uomini più fedeli, ovvero Orinoco Paul, Cholo e Hurequeque: quando il fallimento della missione e un opportuno ritorno alla base sembrano inevitabili, la Molly-Aida si trova la strada sbarrata dalle imbarcazioni dei Culi Nudi, gli indios tagliatori di teste. Gli indigeni salgono sulla nave, e qui avviene qualcosa di inatteso: non sembrano ostili, restano sul vaporetto e seguono la spedizione. C’è una leggenda, cara alla tribù, che vuole che il Dio sarebbe giunto tra loro in un grande carro bianco: Fitzcarraldo capisce che può sfruttare questa credenza a proprio vantaggio, e così il viaggio può proseguire. La Molly-Aida raggiunge il punto in cui il Pachitea sfiora l’Uyacali: col contributo delle centinaia di indios raccolti lungo il fiume, Fitzcarraldo ripulisce la collinetta dell’istmo di terra, la spiana un po’ e allestisce l’enorme sistema di carrucole che, azionate dagli indios, trascineranno la nave fino in cima al pendio per lasciarla poi scivolare delicatamente nell’Uyacali. L’impresa procede non senza inghippi, compresa la morte di alcuni uomini della tribù, rimasti schiacciati in un primo, fallimentare tentativo di sollevare l’enorme mole del Molly-Aida su per il pendio scosceso. La tribù sembra considerare un cattivo auspicio queste morti, si traveste coi colori di guerra e, improvvisamente, tutti gli uomini spariscono. Quando la sorte sembra aver voltato le spalle alla spedizione, i Culi Nudi ricompaiono improvvisamente, senza fornire alcuna spiegazione per la loro temporanea, misteriosa assenza, e l’impresa può ricominciare: un metro alla volta, Fitzcarraldo riesce a realizzare la propria visione, facendo scalare al battello un’intera montagna, e riportandolo in acqua dall’altra parte. L’impresa è enorme, la conquista del territorio mai sfruttato ricco di alberi della gomma a un passo (e così il sogno di poter finanziare la costruzione del grande teatro dell’opera nella giungla) e la felicità degli uomini comprensibilmente incontenibile: ciò che Fitzcarraldo ignora, però, è il reale motivo per il quale gli indigeni hanno accettato di aiutarlo. Nelle loro profezie, infatti, il solo modo per poter annullare la maledizione che condanna la tribù, quella delle rapide del Pongo das Mortes, è placare la collera degli dei del fiume sacrificando loro il grande carro bianco del Dio. Dopo aver ubriacato l’equipaggio della Molly-Aida, i capi indios ordinano di mollare gli ormeggi: la nave, senza controllo e con tutti gli uomini a bordo, l’equipaggio di Fitzcarraldo e la tribù, viene inghiottita dalle rapide. Quando Fitzcarraldo si sveglia e riesce a radunare i suoi uomini è ormai troppo tardi: la Molly-Aida è sbattuta come un albero morto, inerme, tra i flutti turbolenti delle rapide. La barca sopravvive miracolosamente, nonostante i danni ingenti patiti nel Pongo das Mortes: l’impresa è però irrimediabilmente fallita, e il denaro impegnato per realizzarla verosimilmente perduto. La Molly-Aida fa quindi rotta verso Iquitos, mentre Fitzcarraldo è ormai schiacciato dal peso del fallimento. Al suo ritorno, tuttavia, Don Aquilino si offre sorprendentemente di ricomprargli la barca, mosso dalla simpatia per l’impresa titanica fallita per un soffio, o forse soltanto per riaffermare la propria superiorità su Fitzcarraldo, incarnata nella sua concretezza di uomo d’affari: il denaro, e la promessa di poter tenere la barca per altre due settimane, permettono comunque a Fitzcarraldo di realizzare, almeno parzialmente, il proprio folle sogno di portare la grande opera nel bel mezzo della foresta Amazzonica. Da Manaus giungono l’orchestra, i cantanti, i coristi e le scenografie de I Puritani, e l’opera viene allestita direttamente sul ponte della Molly-Aida, sotto lo sguardo compiaciuto di Fitzcarraldo, infine felice per essere riuscito a portare la sua amata opera nella città di Iquitos, anche se per un solo giorno.

Al bizzarro anti-eroe protagonista della vicenda, sconfitto eppure in qualche modo vincitore, presta il volto come già accennato uno straordinario Klaus Kinski, che ha lo sguardo allucinato del pazzo e la dolcezza infinita dell’innamorato, vestito completamente di bianco con i biondi capelli tagliati corti e un cappello a tesa larga già di per sé iconico: la follia del grande attore sposa meravigliosamente la maschera di Fitzcarraldo, al punto che diventa difficile immaginare come sarebbe stato vedere altri (Robards, che inizialmente aveva ottenuto la parte) in questo ruolo. Fitzcarraldo è forse il più autentico eroe herzoghiano: un uomo che è molte cose, un folle, un invasato, un individuo pieno di passione, un sognatore, un grande conquistatore, il più grande di tutti, perché conquistatore dell’inutile, come lo appella per schernirlo uno dei baroni della gomma di Iquitos durante una festa nella quale Molly sperava di poter aiutare il suo amato a raccogliere finanziamenti per realizzare il proprio sogno. Un visionario e un folle che ha capito che esiste qualcosa che i soldi non possono comprare: la forza del sogno, che è in grado di spostare le montagne. “I sognatori riescono a spostare intere montagne” (Träumer können Berge versetzen), replica Molly ai possidenti che si prendono gioco del sogno di Fitzcarraldo: l’eroe di Herzog ha una Visione, ed è pronto a tutto per realizzarla. Il parallelo con la figura del regista risulta pertanto automatico: come non vedere nella lotta e nell’impresa titanica di Fitzcarraldo un’eco della caparbia volontà del suo autore di realizzare il proprio Cinema contro tutto e tutti, rifiutando ogni compromesso? In fondo, le vicende produttive del film potrebbero tranquillamente suggerire questo paragone. Ma l’identificazione tra Herzog e Fitzcarraldo è più profonda, e incrina il confine stesso del visibile, del reale. Tutto il film è avvolto da un’aura quasi onirica: inizia con una panoramica della foresta amazzonica, oscura e aliena, viva e pulsante, avvolta da una nebbia enigmatica. Le immagini sono accompagnate da una scritta in sovrimpressione che evoca una leggenda secondo la quale gli indigeni chiamerebbero queste terre “il paese dove Dio non riuscì a portare a termine la Creazione”, con la convinzione che il Dio avrebbe fatto ritorno per completare la propria opera soltanto quando gli uomini fossero infine scomparsi: introdotto da questa dichiarazione enigmatica, il film viaggia sul confine sottile tra realtà e sogno, mettendo in scena la lucida follia visionaria del suo protagonista come se fosse, appunto, un percorso onirico. È un po’ la stessa cornice mitologica che rende speciali tutte le opere migliori del cineasta tedesco: è una visione delirante, iperrealistica e quindi stordente (la pianura piena di pale eoliche che producono uno spettacolo sonoro e visivo surreale) a far precipitare gli eventi per il soldato Stroszek in Segni di Vita; sono visioni inquietanti (le zattere sospese sulle cime degli alberi) a preconizzare la follia di Aguirre; sono visioni avvolte nella bruma metafisica del sogno ad accompagnare lo scivolamento del reale nel fantastico in Nosferatu; e sono sempre visioni del delirio, accompagnate da voci oscure, a spingere il soldato Woyzeck alla follia e all’omicidio. In Fitzcarraldo la visione-sogno è quella di un battello a vapore issato su una montagna, che la percorre fino in cima e la scavalca per gettarsi di nuovo nel fiume: e non è un effetto speciale, non è un modellino (come quello che Coppola voleva far costruire negli Studios per realizzare senza rischi e contenendo i costi la sequenza centrale del film), non può in alcun modo esserlo. È un’imbarcazione reale, deve essere un’imbarcazione reale, trascinata su per la montagna con un complesso sistema di argani a corda dalla nuda forza degli uomini: è insieme Realtà e Sogno, qualcosa di incarnato, tangibile; e allo stesso tempo Visione Assoluta, immagine pura, avvolta anch’essa nella bruma onirica della rugiada del primo mattino. L’illusione poggia interamente sulla Realtà: l’immagine-sogno esiste, incarnata, nel mondo che esperiamo, e la linea di demarcazione tra la certezza illusoria del tangibile e l’illusione serpeggiante del delirio si fa magicamente sottilissima. La Molly-Aida è il reale centro dell’azione: rappresenta sia fisicamente che metaforicamente l’illusione, l’illusione di riuscire nell’impresa, accarezzata e quasi realizzata prima dell’imboscata degli indios, che rispediscono al mittente la titanica caparbietà di Fitzcarraldo, spinto dai suoi sogni. Fitzcarraldo che, in questo gioco sospeso tra Sogno e Realtà, è lo sconfitto più grande di tutti: eppure, nella sua portentosa, immane sconfitta, resta l’uomo che è riuscito a trasportare la sua barca oltre la montagna, e lascia ora risuonare le note de I Puritani nella baia davanti a Iquitos. C’è chiaramente una nota di speranza nel finale del film, ed è Herzog stesso a dichiarare di aver voluto realizzare un film “incoraggiante” (la dichiarazione è riportata nel bellissimo volume monografico Werner Herzog, edito da Il Castoro Cinema e scritto da Fabrizio Grosoli e Elfi Reiter, un libro al quale sono affezionatissimo perché è stato il primo mezzo attraverso il quale ho conosciuto e compreso l’opera di Herzog, uno dei libri che ho più volte preso in prestito in biblioteca e consumato a forza di rileggerlo prima di possederne una copia solo mia, e forse il testo che mi ha davvero insegnato come si guarda un film e come lo si racconta, cercando di lasciarne emergere le peculiarità e il senso, come si analizzano le immagini, e i movimenti di camera: chiedo perdono per la digressione, ma credo che questo volume sia il libro al quale sono più legato nella mia vita): Fitzcarraldo è il Grande Sconfitto che pure conserva la speranza di poter realizzare pienamente la propria Visione, in un domani forse non così lontano. Ma la chiave di lettura che fa della sovrapposizione tra le figure di Fitzcarraldo visionario/avventuriero e Herzog cineasta prometeico, pioniere delle immagini mai viste, è in realtà riduttiva, perché il vero livello sul quale il regista si confonde col suo personaggio è quella dell’agognata mimesi con lo Spirito della Natura, l’altra grande forza che plasma le immagini del film (e l’intera storia umana), l’agente che con la sua potenza si oppone allo sforzo titanico dell’uomo (sia esso il protagonista della storia o il regista che ne narra le imprese). Come gli indigeni che vivono sulle sponde del Pachitea non possono essere curati dall’idea fissa che la vita sia soltanto un’illusione dietro la quale si cela l’unica realtà, quella dei sogni (parole pronunciate da uno dei missionari di fronte all’equipaggio della Molly-Aida), così Fitzcarraldo avverte un’immediata consonanza con questi uomini, dichiarandosi a sua volta uomo del sogno, perché appassionato dell’opera. Il mondo dietro al mondo: la rappresentazione scenica strappa il velo di Maya che copre le pudenda delle piccolezze della nostra realtà, scoperchiando lo sguardo su un abisso di sogni visionari, con la stessa pregnanza con la quale la tribù di tagliateste sembra vivere in una realtà onirica, che sta al di là del nostro mondo, in una dimensione inesplorata eppure tangibilmente presente, sensibile. Fitzcarraldo il visionario è quindi anche, in un certo senso, un grande maledetto, forse il più grande, perché come tutti i maledetti (parafrasando Pessoa e il suo Libro dell’Inquietudine) non potrà mai fare a meno di pensare che sognare sia più che vivere: ogni impresa del protagonista di Herzog è una fabbrica del sogno, ognuna fallimentare a proprio modo, ma tutte grandiose. È questo il motivo per il quale la Molly-Aida è il centro della narrazione: essa è la Visione e il mezzo attraverso il quale realizzarla, l’illusione e il suo superamento, il Sogno e lo strumento che trasporta il Sogno. Non è un caso che Fitzcarraldo, nel finale del film, viva il suo trionfo proprio con la rappresentazione dell’opera sulla barca in movimento lungo l’Uyacali: il battello è autenticamente lo strumento che trasporta il sogno, che permette al sogno di darsi nel reale, fecondandolo (allo stesso modo in cui il vascello con il quale Nosferatu giunge a Wismar portava la peste fantastica dentro il reale, fecondando la realtà con la potenza senza limiti dell’immaginazione, avvenimento rappresentato scenicamente dalle sequenze dell’invasione dei topi che portano una metaforica peste nella cittadina).

Tuttavia, inevitabilmente, la Natura sconfigge l’Uomo, ne travolge l’impeto, e lo Spirito della Natura trionfa: al folle progetto di Fitzcarraldo si sovrappone l’altrettanto folle proposito degli indios, distruggere il battello per placare l’ira degli dei del fiume. La dicotomia tra la Molly-Aida e la giungla è il secondo motore della narrazione: l’imbarcazione che trasporta il sogno folle di Fitzcarraldo, la sua Visione, è un elemento alieno, che scivola dentro la Natura ostile. Pare placarla, senza riuscire a scalfirla: accade quando risponde con l’arma del canto, diffuso dal magnetofono di Fitzcarraldo, al minaccioso rullare dei tamburi degli indios, che sono un tutt’uno con la loro giungla. La poesia, il romanticismo, che tentano una sintesi con la forza cieca della natura: la Molly-Aida appare continuamente accerchiata, e i movimenti circolari della macchina da presa sottolineano questo suo essere al centro del fuoco, minacciata da ogni parte (a conferire a queste sequenze un’atmosfera realmente minacciosa sono anche le sonorizzazioni, inquietanti e sospese, operate dai fidati Popol Vuh di Florian Fricke: alla musica della band tedesca si alternano i suoni misteriosi della natura selvaggia, e il rullare incessante e carico di tensione dei tamburi). La fascinazione emanata dallo spazio selvaggio della giungla non è nuova per Herzog, la si potrebbe anzi definire un topos pienamente multimediale, che attraversa tanto la sua produzione cinematografica (Aguirre, o Cobra Verde) quanto quella letteraria (penso al romanzo Il Crepuscolo del Mondo, edito da Feltrinelli e ad una presentazione del quale ho avuto la fortuna di assistere durante lo scorso Maggio alla Fiera del Libro di Torino: in un ricco e splendido dialogo con Tiziana Lo Porto, Herzog ha ricostruito le radici della propria scrittura partendo dal racconto del proprio cinema. Conservo nel cuore soprattutto una frase, che potrei citare in maniera scorretta perché sto andando a memoria, ma che credo racchiuda tutto il senso di un percorso autoriale tanto profondo e sfaccettato: “Cinema is my voyage but language, poetry is my home”): anche in questo senso Grosoli parla, nell’opera già citata, di Fitzcarraldo come di un Cuore di Tenebra al rovescio. Fitzcarraldo rappresenta un po’ il ribaltamento dell’esperienza del Colonnello Kurtz di Coppola, l’altro lato dell’opera di Conrad: “laddove aumenta il pericolo, cresce anche ciò che salva”, scriveva Hölderlin, e laddove ci sono il mistero, la violenza, la magia nera, nelle profondità della giungla inesplorata (che è, di nuovo, luogo reale e incantato, grembo materno e fonte primigenia del pericolo), lì possono trovare spazio anche la speranza, il sogno, l’incanto. Così, se da una parte la vittoria della Natura è scontata e fragorosa, e l’impresa titanica di Fitzcarraldo si rivela davvero, come preannunciato, la conquista dell’inutile, dall’altra il viaggio del protagonista dentro una giungla che è “dimora dei demoni e delle allucinazioni” (Grosoli) apre lo spazio a un’improvvisa, altrettanto fragorosa emersione della leggerezza, raffigurata e ricomposta nella sequenza finale nella quale il regno musicale di cartapesta, la rappresentazione scenica, traversa il fiume e si staglia per un momento contro l’oscurità magmatica della Natura, che resta silente sullo sfondo. È un trionfo effimero, ma permette all’uomo, a Fitzcarraldo, di tornare a sognare. La mimesi (imperfetta) è compiuta, il viaggio di Fitzcarraldo, scivolando dentro i silenzi ostinati di una Natura ostile, lo ha condotto solo a un passo dalla meta, ma gli ha comunque consentito di combattere per la propria Visione, e infine di proclamare un trionfo, per quanto caduco, sull’elemento spirituale connaturato alla Natura stessa; la poesia (nella forma del canto) che trasforma la realtà, trasfigurandola. Il contatto tra questa Realtà e quella del Sogno è lieve, come delicato è l’incontro tra Fitzcarraldo e la tribù indigena lungo il Pachitea: quando gli uomini salgono sulla Molly-Aida, Fitzcarraldo va loro incontro e, affidandosi al silenzio, lascia che essi sfiorino la sua mano. La vera natura del personaggio si rivela in quegli istanti: la stessa apertura, la stessa disponibilità che fa sì che egli, nella sua capanna di Iquitos, arredata del solo magnetofono (anch’esso tramite del sogno), sia circondato da bambini e animali, un po’ saggio e un po’ folle, quasi un pifferaio magico, quella stessa disponibilità è l’arma con la quale si fa strada tra i pericolosi indios del fiume. L’unica arma che userà, assieme all’opera: “Questo dio non arriva coi cannoni ma con la voce di Caruso!”, proclama al vertice dell’estasi, quando ancora cerca di domare lo spirito della natura con la forza dirompente della poesia. Quasi non importa che la sua resterà una vittoria di cartapesta, tanta è la potenza della Visione della quale si fa portatore: lo stupore dei bambini nei confronti del magnetofono e il silenzio ammutolito dei tamburi di fronte alla poesia sono fatti della stessa materia dell’immagine-sogno di una barca che traversa una montagna, tirata su dalla solo forza di volontà degli uomini e destinata inevitabilmente a conquistare nient’altro che l’inutile, che a ben guardare è quanto di più necessario ci sia a questo mondo.

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