La felicità come emancipazione politica: Il Sol dell’Avvenire (Nanni Moretti, 2023)

A 45 anni da Ecce Bombo (opera che ha molti punti di contatto con questo ultimo film) e dopo una sequenza di opere realizzate negli ultimi venti anni e conclusasi nel 2021 col film probabilmente meno “morettiano” (sull’odio viscerale del buon Nanni verso questo aggettivo non sto a dilungarmi, tanto lo conosciamo tutti: mi si passi il suo uso per amor di sintesi) di tutta la sua filmografia, Tre Piani, Nanni Moretti è tornato una decina di giorni fa con Il Sol dell’Avvenire, prodotto da Sacher Film insieme a Fandango e Rai Cinema. Il film, già selezionato tra quelli in concorso al prossimo Festival di Cannes (con ampie possibilità di vittoria, peraltro), ritorna alle ben note meta-narrazioni che hanno caratterizzato le opere più dense del Moretti cineasta, film quali appunto Ecce Bombo o Palombella Rossa. Il Sol dell’Avvenire è anche un film estremamente politico, come Nanni non ne realizzava forse addirittura dai tempi del racconto dell’epopea buffa (e travagliata) del Michele Apicella funzionario del PCI che perde la memoria in seguito a un incidente stradale proprio a cavallo della dolorosa crisi del Partito che avrebbe condotto al suo superamento e alla nascita del PDS: il panorama di oggi è totalmente diverso da quello di quasi 35 anni fa, e sempre più spesso le “passioni tristi” hanno rimpiazzato gli ideali e il desiderio di riscatto (sociale, culturale) che animava l’azione politica in quei tempi. In questo, Il Sol dell’Avvenire è un riuscito mix che tiene insieme le maggiori passioni del Moretti uomo e cineasta, ovvero la Politica e appunto il Cinema: le maiuscole non sono casuali perché, per restare sulla linea del nostro discorso, non si tratta davvero mai di “passioni tristi”, ma quanto meno di passioni di un “triste teatrale, vitale”, sempre giustamente opposto al grigiore di chi, per un motivo o per l’altro, abbia infine ceduto alle pressioni della società del consumo e del capitale (quelli che davvero “gridavano cose orrende e violentissime, e guarda come sono abbrutiti”).

La storia raccontata nel film (che è un film su un film, anzi su molti film: un meta-film, appunto) è quella di Giovanni (Moretti), regista che si accinge a realizzare il suo nuovo film dopo una lunga pausa (“ormai faccio un film ogni cinque anni, bisogna accelerare!”). Il film, come tutti i precedenti, è prodotto dalla moglie Paola (Margherita Buy): rispetto al passato, c’è però una novità. Paola è impegnata infatti, nello stesso momento, a produrre per la prima volta un film non realizzato dal marito; e, all’insaputa di Giovanni, ha cominciato a frequentare uno psicanalista (Teco Celio) per riuscire a mettere in fila le ragioni della crisi del rapporto tra i due e trovare il coraggio per lasciare, infine, Giovanni. Ben presto quindi le vicende produttive del nuovo film si intrecciano alla crisi del rapporto coniugale tra regista e produttrice, e i due aspetti tendono a influenzarsi vicendevolmente. Il film è incentrato sulla crisi ungherese del 1956, e racconta del dilemma morale che sconvolge la vita di Ennio (Silvio Orlando), segretario di un circolo romano del PCI e redattore dell’Unità, e di sua moglie Vera (Barbara Bobulova): proprio mentre l’Unione Sovietica decide di stroncare con la forza la Rivoluzione Ungherese, il circolo romano guidato da Ennio ospita nel quartiere il circo ungherese Budavari. Mentre Vera solidarizza immediatamente con i compagni ungheresi, scegliendo senza ripensarci da che parte stare, Ennio è attraversato dal dubbio tra seguire la propria coscienza andando contro la posizione sposata dallo stesso Partito, incapace di svincolarsi dall’influenza del PCUS, o, con riluttanza, adeguarsi alla linea politica indicata dalla Segreteria Nazionale. Le vicende del film, la cui realizzazione si rivela assai complessa anche a causa di una serie di idiosincrasie del suo autore, sono rese ancora più delicate dalle difficoltà produttive: il produttore francese Pierre (Mathieu Amalric) promette finanziamenti che non è in grado di portare, è costretto a vivere sul set e si dà molto da fare per ottenere un improbabile colloquio con i rappresentanti di Netflix, nel tentativo estremo di salvare la produzione. Mentre la crisi di coppia tra Giovanni e Paola esplode fragorosamente, con quest’ultima che riesce infine a lasciare il marito, e mentre la giovane figlia dei due, Emma (Valentina Romano), in carica della scrittura della colonna sonora del film, inizia a frequentare l’Ambasciatore polacco a Roma Jerzy (Jerzy Stuhr), di parecchie decadi più vecchio di lei, la produzione del film si incaglia definitivamente: Pierre viene arrestato, Giovanni sfoga la sua incomprensione per le dinamiche artistiche contemporanee sul set dell’altro film prodotto da Paola, sotto lo sguardo prima attonito e poi sconsolato della troupe guidata da un giovane, rampante regista (Giuseppe Scoditti), e dei suoi produttori coreani, in cerca di opere sempre più pulp e votate all’intrattenimento, prive di qualsivoglia riguardo per la delicatezza del Cinema come Giovanni lo intende; infine l’incontro con Netflix non va come sperato, ma proprio all’opposto. La produzione si ferma, e sarà solo l’intervento di Paola, che riesce a convincere i giovani coreani capitanati da un’intraprendente interprete (Sun-hee Yoo) a mettere nel film di Giovanni il denaro necessario a portare le riprese verso la conclusione, a scongiurare il fallimento dell’operazione. C’è però un ma: i coreani hanno accettato di produrre l’opera perché il tono disperato del racconto e la sua conclusione dolorosa, che avrebbe previsto il suicidio finale di Ennio, squassato dalla sofferenza morale e dalle tensione tra i propri convincimenti e la linea politica sposata dal PCI, li ha convinti che questo film sia un film che descrive “la morte, la fine di tutto”, un’opera oscura, nera, nella quale in qualche modo la violenza, seppure non esplicita, avanzi sotterranea fino a condurre il racconto verso una conclusione totalmente priva di speranza. Solo che Giovanni ha cambiato idea: preso atto che la sua vita è ormai andata a rotoli, non capisce più il senso di lasciare che il proprio protagonista si impicchi. Il Cinema gli fornisce la grande occasione di trasformare la realtà, come una vera forza politica: Giovanni decide quindi di stravolgere la conclusione della propria opera, raccontando tutta un’altra storia. Ennio sceglie così di non impiccarsi e sposare la causa di Vera, raggiungendo insieme a una piccola folla la casa del Segretario Togliatti. Lì i manifestanti sventolano orgogliosamente una copia de l’Unità sulla prima pagina della quale si legge l’improbabile titolo “Unione Sovietica addio!”, lasciando intendere come il PCI, differentemente da quanto avvenuto nella realtà, abbia deciso di abbandonare la linea filosovietica dell’epoca. Il culmine del racconto è quindi una marcia pacifica e colorata lungo i Fori Imperiali, dove al cast del film di Giovanni si uniscono attori, amici e compagni di viaggio che provengono da tante altre opere precedenti di Moretti. Tutte queste persone, vestite in stile anni ’50, portano in scena la più grande delle ucronie: l’intero PCI che marcia accompagnato dall’effigie di Trotskij, in un tripudio di bandiere rosse, a testa alta e col futuro negli occhi. È insieme un’esplosione di rimpianto e di nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere, e di speranza per qualcosa che non è ancora troppo tardi per cambiare: il tutto racchiuso nella scritta che compare a fine proiezione su schermo rigorosamente rosso, quel gancio lanciato «all’utopia comunista di Karl Marx e Friedrich Engels che ancora oggi ci rende tanto felici».

C’è un uso estensivo e brillante del cinema bello, lungo la proiezione de Il Sol dell’Avvenire: Moretti si rifà a tanti suoi tòpoi, a se stesso e al suo Cinema, apertamente e in maniera divertita, ma anche a tanto Cinema altro con il quale confrontarsi. Si assiste così a intere sequenze che sono summe di idiosincrasie dell’autore e rimandi al suo immaginario filmico (la coperta di Sogni d’Oro, i sabot di Barbara Bobulova che lo infastidiscono e che ne fanno osservatore di scarpe come ai tempi di Bianca, i numeri in libertà di fronte ai produttori di Netflix che rimandano alla memoria l’esame di maturità di Ecce Bombo e quel “quanto fa due alla meno uno” che ancora grida vendetta, il dialogo a bordo piscina come in Palombella Rossa, o le canzoni stonate cantate in auto, lo stesso nome del circo ungherese, Budavari, che rimanda subito alla mente l’immarcabile pallanuotista del “Marca Budavari!” di Silvio Orlando nello stesso Palombella Rossa; ma anche il sopralluogo notturno di Giovanni e Pierre in un Roma deserta, attraversata stavolta non in vespa, come accadeva in Caro Diario, ma su due più contemporanei monopattini elettrici), ma accanto a queste auto-citazioni si respira l’amore per il mezzo cinematografico, e l’immenso rispetto che l’autore nutre per esso. Va quindi in scena il rituale della proiezione di Lola di Jacques Demy, omaggio a Max Ophüls interpretato da Anouk Aimée, da replicarsi rigorosamente prima di iniziare le riprese di ogni nuovo film (piccola nota di colore: il film è citato anche da Wong Kar-Wai come riferimento primario per la seconda storia del suo Chunking Express); c’è il Breve film sull’uccidere di Krzysztof Kieślowski che spinge Giovanni alla riflessione sull’uso della violenza come intrattenimento nel cinema contemporaneo, e San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani (“film politico ma anche poetico”) indicato come ideale riferimento narrativo; ci sono le ciabattine rosa di Aretha Franklin mentre canta Think nei Blues Brothers e c’è La Dolce Vita di Federico Fellini col circo e i suoi artisti, tanto vicini all’immaginario del grande regista riminese; ma, perché no?, forse quel circo Budavari è memore anche della levità dei circensi di opere come Il Cielo Sopra Berlino (proprio Moretti mostrava nel suo Mia Madre la fila al cinema Capranichetta per accedere alla proiezione del film, come raccontavo qui), ideale metafora di un mondo sospeso tra la grazia del desiderio e la gravità delle scelte che tutti siamo chiamati a compiere.

Non bisogna però scambiare tutto questo per un banale capriccio, un gioco cinefilo e autoreferenziale: quella che Moretti mette in scena è in realtà una dichiarazione di appartenenza, di militanza. Appartenenza a un cinema che non deve necessariamente avere un turning point al minuto 7 (“le parole sono importanti”), un cinema che non ha necessità di un momento what the fuck?, un cinema che sa coniugare l’estetica e l’etica, che è consapevole del suo ruolo come forma d’arte e d’educazione (alla politica, alla vita, alla bellezza). In altre parole, una dichiarazione d’amore per le immagini belle e il riconoscimento che se un’immagine non è bella non ha alcun senso girarla, mostrarla, offrirla alla riflessione degli spettatori. È qui che si innesta la continua re-invenzione che è il leitmotiv dell’intero racconto.

C’è una sequenza particolarmente indicativa ne Il sol dell’avvenire, ed è quella nella quale Moretti nuota in piscina discutendo con i suoi sceneggiatori del film sul nuotatore (ispirato all’omonimo romanzo di Cheever) che vorrebbe realizzare, un film nel quale il protagonista, appunto un nuotatore, attraversa tutta Roma per mezzo delle piscine disseminate nella città: “lo spostamento non deve avvenire nello spazio”, dice Moretti mentre percorre le sue vasche, “deve avvenire nel tempo”. Ecco, Il Sol dell’avvenire compie esattamente questo percorso: si sposta nel tempo, più che nello spazio. Se è vero (come è vero) che nessuno cambia mai sul serio, altrettanto vero è che le scelte che compiamo determinano il corso degli eventi a venire in maniera profonda e sempre decisiva. Se davvero mai, nell’opera di Nanni Moretti, la separazione tra Vita e Cinema è stata completa, in questo ultimo film gli argini cedono definitivamente, e l’una (la Vita) deborda nell’altro (il Cinema), e il suo contrario. I piani della realtà sono molteplici e continuamente intersecantesi: c’è la vita reale, la famiglia attraversata dalla profonda crisi di coppia, Paola in procinto di lasciare il marito, la figlia Emma che si fidanza con un uomo di molti decenni più anziano, il backstage di un film tanto desiderato e importante quanto complesso da realizzare; c’è il film stesso (ma bisognerebbe dire i film, quello girato e quelli guardati e riguardati, quello, violentissimo, prodotto da Paola, e anche quelli solo fantasticati da Giovanni); e tra questi ultimi c’è anche una storia mezzana, che si interseca alle altre, un terzo piano che è un po’ un film e un po’ una nostalgia di un tempo che fu e di ciò che avrebbe potuto essere, una memoria elastica e malleabile, una vicenda della quale lo stesso Nanni è in qualche modo protagonista e ogni volta, in maniera sempre diversa, artefice. Giovanni dichiara apertamente di voler realizzare un film d’amore accompagnato da belle canzoni italiane (proposito che d’altra parte trova un parallelo molto calzante anche nella lettura che Silvio Orlando e Barbara Bobulova danno del copione del film su Ennio e Vera, da loro immediatamente interpretato come una storia d’amore mascherata da storia di passione politica, e che diventerà il pretesto per il divampare della passione tra i due stessi attori) e arriva così ad immaginarlo, lasciando tracimare l’immaginazione nel sogno a occhi aperti. Proprio della storia d’amore tra i due giovani ragazzi, nata al Cinema davanti all’opera di Fellini e che sembra doppiare le dinamiche della vicenda di coppia di Giovanni e Paola, Nanni è come ogni volta insieme il protagonista e l’autore, e la loro storia una storia che si ripete sempre, ma può ancora cambiare: egli suggerisce le battute alla ragazza, ha già visto la fine di quel film e ha già imparato che la fine non è per forza la fine di ogni cosa. Nelle ragioni della re-invenzione, nel re-immaginare e ri-scrivere una storia sta il senso di voler ampliare lo sguardo, allargare l’orizzonte. “La storia non si fa con i se. E chi l’ha detto? Io invece la voglio fare proprio con i se”, annuncia Giovanni dopo aver deciso, una volta compreso che tutto si può riscrivere, come il finale inizialmente pensato per il film sia in realtà un finale impietoso, dis-umano, un finale che racconta “della fine di tutto”, come recita, in palese estasi da onnipotenza tardo-capitalista, l’entusiasta inteprete/produttrice del team coreano il cui ingresso nel progetto consente al film di essere concluso. Allora il finale giusto è un finale esploso, un finale fatto coi molti “se” che accompagnano la nostra Storia e le nostre vite: una manifestazione nella quale l’ubriacatura stalinista è stata sconfitta dall’utopia della rivoluzione permanente, nella quale il partito che sono gli uomini e le donne, i proletari e i contadini, gli attori del film dentro il film e gli attori che hanno accompagnato la carriera di Moretti, porta in trionfo il socialismo come avrebbe dovuto essere, le bandiere rosse che incorniciano il volto di Trotskij. Forse non è un pasticcere il protagonista di questo film, quel pasticcere trotzkista del quale siamo tutti innamorati, ma a dare il volto a questa utopia è comunque un personaggio interpretato dal grande Silvio Orlando: e magari il film non sarà un musical, ma è un ibrido strano nel quale uno dei molti modi con i quali la realtà tracima nel Cinema (e viceversa) è attraverso il canto collettivo (sulle note di Sono solo parole di Noemi) o un ballo tanto goffo quanto liberatorio (mentre sullo schermo echeggia la voce eterna del Franco Battiato di Voglio vederti danzare, e la memoria vola a quell’altra celebre interpretazione morettiana, quella E ti vengo a cercare intonata sul finale dell’altro film che più esplicitamente sembra legarsi a quest’ultimo, ovvero Palombella Rossa). Proprio durante sequenze come queste capisci quanti senso possa avere una canzone, magari sensi ai quali non avevi mai pensato: e quanto possa essere ingarbugliata la matassa, tra quello che si è vissuto e quello che si è immaginato. E però (e si vede proprio lì un raggio di sole tagliare lo schermo, e il cuore) non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta: e non è mai troppo tardi per cambiare le cose, o anche solo qualcosa.

Niente di tutto ciò che il finale de Il Sol dell’Avvenire ci mostra è reale, eppure lo è lo spirito che emerge dal racconto, la voglia di alterità, la forza delle idee. Così questo, proprio questo, è uno dei film più politici di un regista che politico lo è sempre stato, perché è un film di idee, di utopia, di passione. È una storia d’amore, in fondo, perché dell’umanità si può essere innamorati, e allora non si può non essere di sinistra, oppure temerla, ed essere qualcos’altro: non è sempre semplice da capire, è difficile anche per chi vorrebbe essere sempre senza macchia e senza paura, ma tant’è. Il finale de Il Sol dell’Avvenire realizza l’idea (questa sì, autenticamente rivoluzionaria) che la felicità sia una forma di emancipazione politica, riuscendo cioè ad essere film politico e insieme anche poetico: non molto diverso da ciò che Karl Marx ci ha insegnato. Rifare la storia, tutta la storia con i “se” diventa allora un sinonimo di speranza: e alla macchina dei sogni, il Cinema, cos’altro dovresti chiedere se non di “fare bei sogni”? Ha ragione il personaggio di Pierre, quando urla dal suo monopattino rivolto a Giovanni che “il tuo è un film rivoluzionario”: “è una metafora del cinema oggi, sospeso lassù come il trapezio del circo”, impegnato in un’evoluzione difficilissima, minacciato dal rischio, nient’affatto metaforico, di cadere. Allora anche il Moretti apertamente (e in maniera molto divertita) didascalico che, in una sequenza esilarante, coinvolge Renzo Piano, Corrado Augias, Chiara Valerio e tenta persino di contattare Martin Scorsese (ricevendo però risposta solo dalla segreteria telefonica) per cercare di spiegare al giovane regista quanto la scena finale del suo film faccia male al cinema è in realtà qualcosa di più di un boomer con preoccupazioni da boomer: è un autore che sa come “unhappy end con un buco in testa alla vittima” non sia più una risposta alla domanda di felicità che attraversa il nostro tempo. Se è vero, come scrisse Calvino a proposito del suicidio di Pavese, che “Cesare Pavese si è ammazzato perché noi imparassimo a vivere”, è giunto il tempo di imparare a vivere: d’altra parte, come lo stesso Giovanni ripete più volte, “bisogna accelerare”, perché il tempo corre e non aspetta nessuno, e comunque “due o tre principi nella vita bisogna averli” e ben saldi, aggiungerei. La storia fatta con i se ci riconsegna così per intero la potenza dell’Utopia: c’è Trotskij, certo, apparizione eclatante per un contesto politico, quello italiano, mai tanto vicino alle correnti trotskiste e molto più “fedele alla linea”; ma c’è anche molto, moltissimo Walter Benjamin, laddove si recuperano “le ragioni dei vinti”, si sviluppa una nuova empatia con gli sconfitti, si riconosce al passato il diritto al proprio tempo e al proprio senso. Si compie un vero e proprio salto dentro il passato per recuperare il presente: farà inorridire i tanti che si sono nutriti acriticamente del comunismo togliattiano che il film mette alla gogna (il poster di Stalin strappato nella sezione del PCI guidata da Ennio, dove resta solo l’effigie di Lenin; lo stesso Togliatti che è un burocrate silenzioso e distante, nascosto dietro le finestre della sede del PCI), e respirare i molti che a una rivoluzione permanente hanno creduto davvero (non è affatto causale il siparietto divertente sulle acque minerali presenti negli anni ’50 che coinvolge il regista e i suoi scenografi, con la scelta di Moretti di mettere sui tavolini nelle inquadrature del film un’immaginaria Acqua Rosa, ispirata alla figura di Rosa Luxemburg). La storia fatta con i se alla fine serve a questo: è un’opportunità per ripensare il futuro, non rassegnarsi alla sconfitta o alla fine di tutto. E questa scelta, profondamente poetica e intrinsecamente politica, fa de Il Sol dell’Avvenire un grande, grandissimo film.

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