April Round-Up: framed and charmed in Moorestown

Questo mese la rubrica dei Round-Up compie tre anni (debuttava infatti il 29 maggio del 2020, proprio al termine del lockdown), e nel frattempo è diventata una tradizione consolidatissima che 1) permette a me (e spero anche a voi) di tener conto delle novità musicali e non solo che si presentano per ciascun mese dell’anno e 2) soprattutto mi consente (e in questo caso a me soltanto) di svarionare allegramente su ogni genere di argomento mi ronzi per la testa al momento. Per restare fedeli alla tradizione dello svarione libero, anche questo mese avremo un po’ di novità e un paio di perle ripescate dal passato.

Cominciamo subito con un salto nel passato. Visto che questo è a tutti gli effetti un riassunto di Aprile, vorrei principiare ricordando un album pubblicato esattamente quindici anni fa per la prima volta, il 1 Aprile del 2008, che questo mese lo porta anche nel nome: sto parlando di April, il terzo lavoro licenziato dal buon Mark Kozelek sotto il nome di Sun Kil Moon, l’ultimo (credo) realizzato dalla combo come una band nel senso proprio del termine (oltre a Kozelek alla chitarra e alla voce troviamo infatti Anthony Koutsos alla batteria e Geoff Stenfield al basso) prima che Sun Kil Moon diventasse un altro moniker della multiforme e ricchissima produzione solista dello stesso Kozelek. April è un disco che riprende e approfondisce le idee sonore già espresse dal suo autore nello splendido album di debutto dei Sun Kil Moon, Ghosts of the Great Highway, licenziato nel 2003 (ah, ecco: il prossimo novembre ricorrerebbe il suo ventennale, ma vi ricordo che ne avevamo già parlato approfonditamente qui), e segue l’intermezzo di Tiny Cities, disco di sole cover della produzione dei Modest Mouse, band (giustamente) idolatrata dal cantautore americano, e che era più che altro un album di “intenzioni” e “ispirazioni” (o come tale, ritengo, lo si dovrebbe leggere); laddove però Ghosts of the Great Highway lo si poteva considerare ancora profondamente debitore del sound dei Red House Painters, la prima band importante di Kozelek, April cambia del tutto le carte in tavola, ritagliando per la nuova incarnazione del songwriting del buon Mark un abito di foggia decisamente nuova (e personalissima), nel quale accanto al folk lieve e allo slow-rock degli esordi si respirano atmosfere più vicine al blues e una certa tendenza (questa non nuova, in realtà, ma qui declinata con rinnovato gusto per la ricerca e la sperimentazione) alla stesura di elaborate suite musicali che fanno da sfondo per il rimuginare ispirato e nostalgico del Kozelek autore/poeta. Quello che non cambia, come forse potrete intuire, è proprio la poesia, la cifra caratterista più peculiare del songwriting di Kozelek: essa trasuda nei versi di Lost Verses, sui quali si apre il lavoro, e innerva tutte le 11 tracce, riempiendole di un malinconico e tenerissimo senso di perdita, sconfitta, solitudine e profonda umanità. Lost Verses è, per l’appunto, la canzone dell’amor perduto di Kozelek: un folk rock melodicamente straziante, denso e profondissimo, scandito da alcuni tra i versi più belli dell’intera produzione del cantautore di Massillon, Ohio (cito i miei preferiti in assoluto: I see you well and clear/ Deep in the moonlight dear/ Your radiant august eyes/ They are the suns that rise/ They are the light that guides/ They are these lost verses), che esplode nel finale in una coda strumentale distorta di rara potenza e trasporto emotivo. Ma lungo l’intera tracklist sono incastonate perle di pari eleganza e splendore, dalle suggestive atmosfere notturne di Heron Blue all’altra dolcissima e delicata canzone d’amore e malinconia che risponde al titolo di Moorestown (in pochi sanno parlare dell’amore finito o irrealizzato con la stessa grazia con la quale sa farlo Kozelek), dal post rock di Tonight the Sky, insieme un’elegia elettrica e una tempesta di feedback, alla poesia dei viaggi racchiusa in Tonight in Bilbao, altra collezione di versi di accecante bellezza (sono un po’ estratti dal loro contesto, ma quanto sono belli i versi I left Berlin and I came home/ To sleeping potions and blue oceans/ Where my love so selflessly/ Awaited me?). Nella produzione dei Sun Kil Moon, vasta e piena di vette luminose, April si pone probabilmente come primo autentico monumento alla scrittura di Kozelek (poco prima dell’altra meraviglia incarnata da Admiral Fell Promises e con un certo anticipo rispetto a un altro opus maximum, quel Benji che, nel 2014, avrebbe meritatamente portato il lavoro dei Sun Kil Moon a tutto un altro livello di successo e attenzione), oltre settanta minuti che sono un fiume in piena di parole, composizioni piene di grazia e sospese tra un cantautorato lieve, folk e sognante, e sprazzi di graffiante violenza sonica, erede appunto di una tradizione slow rock alla quale i Red House Painters avevano dato un profondo contributo (soprattutto in termini poetici). Non mi dilungo inutilmente su un lavoro che merita di essere ascoltato con tranquillità e rispetto, e che anche a quindici anni di distanza continua ad emozionare e smuovere come il primo giorno: April è stato probabilmente il primo disco dei Sun Kil Moon che ho conosciuto e imparato ad amare, attratto forse da quella copertina che era un po’ sfocata e un po’ cinematica, come un fotogramma di uno sconvolgimento in pieno corso d’opera, un’istantanea di un qualcosa sospeso tra la nostalgia del passato e il frastuono del presente; di sicuro, un lavoro in miracoloso equilibrio tra lunghe digressioni, cantici poetici torrenziali e intensi (Lost Verses, The Light, le due Tonight, tutte con un minutaggio compreso tra i 7 e gli 11 minuti) e piccoli gioielli compresi e densissimi (la già citata Moorestown o le preziose Harper Road e Blue Orchid), di una profondità e complessità sia strumentale/compositiva (le derive bluesy, il rock elettrico, i feedback e le frequenti paratassi strutturali, o gli arabeschi di chitarre acustiche che incorniciano molti dei brani) che lirica quasi senza pari nel panorama di quei tempi e, tristemente, anche nel nostro. Ascoltate (o ri-ascoltate, nel caso lo aveste già fatto) dunque questo disco che è un po’ un inno all’aprile inteso come un modo di sentire, uno stato d’animo e uno sguardo attraverso il quale incontrare il mondo, e soprattutto un ricchissimo zibaldone di storie, sentimenti, idee, sensazioni: umanità, in una parola, brulicante e affascinante, piena di vita e morte e amore e tutto quello che ci ruota intorno. E, per citare un poeta contemporaneo, se la tempesta sonora che squassa il finale di Lost Verses non vi spezza il cuore, avete un bidone dell’immondizia al posto del cuore.

Di un progetto coinvolgente la splendida voce di Giulia Galliani, ovvero l’album Birth, Death and Birth licenziato dal collettivo jazz MAG Collective, avevamo parlato su queste pagine solo qualche mese fa. Proprio all’inizio di Aprile, la stessa Galliani (impegnata stavolta alla voce ma anche ai synth e alla programmazione elettronica) si è ripresentata insieme ad altri due protagonisti di quel bellissimo lavoro, ovvero Andrea Beninati (batteria, violoncello e synth) e Andrea Mucciarelli (chitarra e voce), nelle vesti di un trio ribattezzato semplicemente GAL, pubblicando un video live di un primo singolo, I chose, che in qualche modo riesce a fondere il jazz con l’R’n’B, le derive elettroniche e alcuni elementi che sembrano provenire addirittura dall’estetica del rock, approfondendo in questo approccio una buona fetta della ricerca che era già alla base della proposta del collettivo di partenza. I chose è una cavalcata di grandiosa e trascinante potenza ritmica, dominata da una chitarra pesantemente carica di effetti, da una batteria secca e precisa e dalla voce della stessa Galliani, autentico valore aggiunto. Tanto per sostanziare quanto già scritto parlando di Birth, Death and Birth, Giulia Galliani si conferma come un’artista e una compositrice estremamente interessante, capace anche di circondarsi di musicisti in grado di dare forma a intuizioni musicali assolutamente non scontate: I chose è un ottimo biglietto da visita per questo progetto nella forma del trio, uno degli ensemble classici della storia del jazz, dedito alla proficua contaminazione delle armonizzazioni jazzistiche col sound della modernità elettronica. Restiamo alla finestra per ascoltare presto altri brani.

“This was the first song I wrote with my friend, producer and songwriter – James Smith. We wrote it in one session, and we both instantly fell in love with it. It’s rare when you write a song and know right away that it’s ‘the one’. This song was written for my dad who grew up in between care before being adopted, and because of this difficult childhood, he rarely shows any sad emotions. The song is meant to be an ode to any people who find it hard to let their emotions go. The lyrics ‘If you’d just let go of the tears in your eyes, you might be able to look into mine’ – is a way to let people know it’s okay to show vulnerability and in lots of instances that can make you stronger.”

Anche di Alice Auer avevamo già parlato, per l’esattezza nello scorso RoundUp, a proposito del brano jazz-soul Unknown. La giovane artista sotto contratto con la label londinese Young Poets Records è tornata ad Aprile con Baby, Cry, un delicato pop-folk composto dalla stessa Auer assieme al cantautore e chitarrista James Smith, che fa da apripista per il nuovo EP della cantante, intitolato per l’appunto Baby, Cry EP, in uscita il prossimo 20 giugno. Qui Auer duetta proprio con Smith, e i due disegnano melodie deliziose e discrete sostenute dal lavoro d’ambiente dei synth di Conor Albert (di nuovo anche alla cabina di regia) e soprattutto dalla ritmica rotonda ed efficace del sempre grande Seth Tackaberry al basso e di Oscar Ogden dietro le pelli. Baby, Cry testimonia ancora di una grande ispirazione, musica scritta ed eseguita con gusto ed eleganza che è un vero piacere ascoltare.

(English Version) We talked about Alice Auer in our last Monthly RoundUp, and more specifically about the jazz-soul song Unknown. The young artist signed to the London label Young Poets Records returned during April with the new single Baby, Cry, a delicate pop-folk composed by Auer together with songwriter/guitarist James Smith that paves the way leading to the homonymous singer’s novel EP, Baby, Cry, out on June 20. Here Auer duets with the same Smith, and the two draw delicious and discreet melodies supported by the ambient work of Conor Albert‘s synths (who again also sits at the control room) and above all by the groovy and effective rhythmics laid down by Seth Tackaberry (bass) and Oscar Ogden (drums). Baby, Cry is a work of great inspiration, music written and performed with taste and elegance that is a real pleasure to listen to.

Dei Mezcla avevamo parlato brevemente qualche anno fa, senza però tornare sull’argomento. La band fusion scozzese, capitanata dal bassista e compositore David Bowden, è tornata ad Aprile con il singolo In My Mind, realizzato insieme al cantante Luca Manning, apripista per un nuovo EP in uscita a giugno per Ubuntu Music. Accompagnata dallo splendido artwork realizzato da Jamie C. Johnson, In My Mind è un tour de force che sposa la fusion e le ritmiche jazzy care alla combo scozzese con la vocalità pop e assolutamente non convenzionale di Manning, che canta un bel testo incentrato sull’idea del cambiamento (Change is a constant, recita l’inciso). In My Mind è soprattutto piena di fantastiche idee ritmiche, piccole coloriture strumentali che fioriscono senza sosta a ogni angolo, con un sassofono a tratti quasi à la Wynton Marsalis e un andamento che, come detto, fonde armonicamente il miglior jazz con il rock contemporaneo. Faccio mea culpa per non aver mai scritto del primo album dei Mezcla, e spero di riuscire a rimediare con l’occasione dell’uscita del prossimo EP. Intanto, godetevi questo bellissimo brano!

(English Version) A few years ago we spoke briefly about the band Mezcla, but we never return to the subject. The Scottish fusion band, led by bassist and composer David Bowden, returned in April with the single In My Mind, wrote together with singer/songwriter Luca Manning, a forerunner for a new EP due out in June for Ubuntu Music. Accompanied by the splendid artwork created by Jamie C. Johnson, In My Mind is a tour de force that marries the fusion and the jazzy rhythms dear to the Scottish combo with the absolutely unconventional pop voice by Manning, who sings a beautiful lyrics centered on the idea of change (Change is a constant, it reads in the refrains). In My Mind is above all full of fantastic rhythmic ideas, small instrumental colorings that flourish relentlessly at every corner, with a saxophone at times almost reminding of Wynton Marsalis and a performance that, as mentioned, harmoniously blends the best jazz atmosphere with contemporary rock-pop sounds. I apologize for never having written about the first Mezcla album, and I hope to be able to make up for it with the occasion of the release of the next EP. Meanwhile, enjoy this beautiful song!

This month the song is i/o and i/o means input / output. You see it on the back of a lot of electrical equipment and it just triggered some ideas about the stuff we put in and pull out of ourselves, in physical and non-physical ways. That was the starting point of this idea and then trying to talk about the interconnectedness of everything. The older I get, I probably don’t get any smarter, but I have learned a few things and it makes a lot of sense to me that we are not these independent islands that we like to think we are, that we are part of a whole. If we can see ourselves as better connected, still messed up individuals, but as part of a whole, then maybe there’s something to learn?’ i/o as a potential album title has long-been known within fan circles, and is now the name of the current project, the album and the forthcoming tour, but as Gabriel says, ‘It’s been around for a long time as a title for this project. I always knew I was going to write a song called i/o, but the title came first.

Il singolo di aprile di Peter Gabriel, nell’attesa dell’uscita ufficiale del nuovo album i/o e, per chi scrive, anche del concerto del 21 maggio prossimo al Mediolanum Forum di Milano, è proprio l’omonima i/o, una canzone che Gabriel stesso definisce come incentrata sull’idea dell’interconnessione tra gli esseri umani (un tema che sembra già essere ricorrente nell’intero tessuto di questo ultimo lavoro). Il 7 aprile, con la luna piena, Gabriel ha condiviso con il pubblico la versione Bright Side Mix del brano, realizzata da Mark “Spike” Stent, mentre il 21 aprile, in occasione del novilunio, è stata la volta del Dark Side Mix di Tchad Blake. i/o è un brano più breve dei precedenti estratti dal nuovo album, ha qualcosa della preghiera ma è soprattutto un’elegantissima ballad pop, con echi melodici che rimandano alla miglior produzione del Gabriel solista e un tono che, complessivamente, si potrebbe definire malinconico, sebbene i ritornelli alzino repentinamente il ritmo grazie soprattutto al drumming di Manu Katché. Da segnalare che il bellissimo artwork che accompagna il brano si deve al ben noto artista islandese Olafur Eliasson: l’opera, intitolata Colour experiment no. 114, è stata realizzata nel 2022 e, con la sua forma contemporaneamente definita ed enigmatica, si sposa meravigliosamente con un brano semplice ma sfaccettato come appunto questo quarto singolo. Non resta che aspettare con ansia il concerto di Milano, e poi la pubblicazione definitiva dell’album; ma è comunque già chiaro come lavori di questa qualità e ambizione non siano assolutamente comuni nella nostra epoca.

Cosa succede quando la psichedelia incontra il soul-funk-R’n’B? Succede quello che si può ascoltare nei cinque minuti di No More Lies, brano realizzato da Thundercat (al secolo Stephen Bruner, vecchia conoscenza di questo blog) con i Tame Impala (progetto solista del cantautore e polistrumentista australiano Kevin Parker). No More Lies comincia come un pezzo classico di Thundercat, con atmosfere soul e un groove continuo e incalzante del basso, che non avrebbe affatto sfigurato negli ultimi album del buon Bruner, ma si apre circa a metà nel classico sound che ha reso noto al grande pubblico il sodale Parker, un magma fatto di suoni dilatati, atmosferici e, appunto, psichedelici. Di fatto, siamo di fronte all’ibrido perfetto tra tentazioni nu-soul e psychedelic rock, una cavalcata affascinante nella quale Bruner e Parker si inseguono senza sosta lungo i saliscendi ritmici ed emotivi del brano un po’ come fanno i rispettivi animali guida nel video che accompagna il brano (e che trovate qua sotto): No More Lies è il più classico degli esperimenti riusciti, insieme nostalgico e futurista, con un piede nell’età dell’oro del funk/R’n’B e uno in un futuro fatto di inevitabile, affascinante e promettente commistione di generi e mondi musicali; per racchiudere il brano in un giro di parole, lo definirei un autentico esempio di fusion.

Ad Aprile è stata anche la volta del ritorno di Angelo De Augustine dopo il doppio singolo 27/Hologram dato alle stampe lo scorso novembre e del quale avevamo abbondantemente parlato qui. Il cantautore statunitense ha pubblicato lo scorso 25 aprile Another Universe, singolo di lancio per il nuovo album Toil and Trouble, in uscita il prossimo 30 Giugno come sempre per la Asthmatic Kitty Records di Sufjan Stevens. Il brano, accompagnato da un video diretto dallo stesso De Augustine con le animazioni di Owen Summers, è un altro gioiello di pop sognante e vagamente stralunato: a bordo di un (non casuale) yellow submarine, De Augustine ci accompagna in un viaggio dentro un mondo di sogno che è anche, soprattutto, un mondo fatto di poesia (e d’altra parte versi come What would it take to break the curse?/ I found another universe/ One who would have me/ One I would belong/ I’m growing tired of the offense/ Fateful design, omnipotence/ Whether to use both my hands for love non lasciano assolutamente spazio a dubbi). Dal punto di vista strettamente musicale, Another Universe conferma quella strepitosa capacità di De Augustine di fare molto col poco: il brano è semplicissimo dal punto di vista strutturale e assolutamente lo-fi nella sua concezione, ma contiene tutto quello che serve per coinvolgere l’ascoltatore e trasportarlo dentro le riflessioni esistenziali del suo autore. Semplice, quindi, e maledettamente efficace: non vedo l’ora di ascoltare l’album intero!

(English Version) In April it was also the turn of Angelo De Augustine‘s return after the double single 27/Hologram released last November and about which we had talked abundantly here. On April 25th, the American singer-songwriter released Another Universe, the launch single from the new album Toil and Trouble, due out on June 30th as always for Asthmatic Kitty Records, the label led by Sufjan Stevens. The song, accompanied by a video directed by De Augustine himself with animations designed and realized by Owen Summers, is another jewel of dreamy and vaguely bewildered pop: aboard what I could only guess is a non-randomly yellow submarine, De Augustine takes us on a journey inside a dream world which is also, above all, a world made of poetry (and on the other hand verses like What would it take to break the curse?/ I found another universe/ One who would have me/ One I would belong/ I’m growing tired of the offense/ Fateful design, omnipotence/ Whether to use both my hands for love leave absolutely no room for doubt). From a strictly musical point of view, Another Universe confirms De Augustine‘s amazing ability to do a lot with a little: the piece is very simple from a structural point of view and absolutely lo-fi in its conception, but it contains everything needed to involve the listener and transport him into the existential reflections drawn by the author in his verses. So simple and so moving: I can’t wait to listen to the whole album!

Chiudo questo riassunto di Aprile incastonandolo nella seconda perla dal passato, che riguarda stavolta un album che, nella sua interezza, ho imparato a conoscere solo di recente: si tratta di Glee, successo planetario del collettivo canadese dei Bran Van 3000. Glee fu pubblicato per la prima volta, sul solo territorio canadese, il 15 Aprile del 1997, prima di una riedizione al di fuori dei confini patri che data l’anno seguente, il 17 Marzo del 1998, e che avrebbe condotto il lavoro al grande successo anche nel nostro paese, soprattutto sull’onda del singolo estratto, la fortunatissima Drinking in L.A. Ecco, può darsi che il nome Bran Van 3000 vi dica poco, ma se schiacciate play sul video di Drinking in L.A., che trovate qua sotto, sicuramente capirete di chi/cosa stiamo parlando: diciamo che il 1998 non era esattamente uguale alla nostra contemporaneità, e ai tempi la maggior fetta di successo di un brano arrivava ancora dalla sua rotazione nelle radio e soprattutto nella programmazione di MTV, che all’epoca aveva ancora un grosso peso. Se ripenso alla mia prima adolescenza (in fondo avevo scarsi 14 anni), il video di Drinking in L.A. è una delle cose che ricordo più vividamente di quel 1998: in rotazione svariate volte al giorno, un video buffo e molto lo-fi che raffigurava una specie di comune di artisti vagamente nerd, con gli occhi gonfi dal sonno (e, chiaramente, dalla sbornia), realizzato in un’ambientazione insieme seventies e high-tech, con bizzarri effetti speciali vagamente psichedelici e una chiosa luddista che gli faceva una sega Beppe Grillo intento a spaccare PC sul palco dei suoi spettacoli dei tempi. Drinking in L.A. è un po’ un esempio di instant classic, qualcosa che ti esce fuori talmente bene che forse non sai nemmeno tu perché, ma così è: una combinazione magica di elementi, baciata dalla grazia, e rievocata ad esempio in questa bellissima intervista celebrativa pubblicata lo scorso anno in occasione del vero venticinquennale del disco. Attorno a Drinking in L.A., tuttavia, c’è un intero album, Glee appunto: si trattava del primo album del collettivo hip-hop/elettronico dei Bran Van 3000, fondato dal DJ James Di Salvio e da E.P. Bergen, un supergruppo dedito alle jam session e affascinato dall’idea di fondere gli elementi cardine del rock e del rap con la strumentazione elettronica e, più in generale, tentazioni sonore vicine al mondo del dancefloor. I Bran Van 3000 potevano vantare ai tempi un terzetto di voci femminili di valore assoluto, costituito da Stéphane Moraille, Sarah Johnston e Jayne Hill (le cui armonizzazioni conferiscono ai brani di questo album una bella parte del loro fascino), a cui doveva aggiungersi la presenza di artisti come Steve “Liquid” Hawley. Glee è un irresistibile miscuglio di kitsch pop, alternative rock, trip hop, rap e lounge music, insieme un canzoniere pieno di melodie assolutamente pop e una specie di trip sotto acido in un’elettronica divertente e vagamente psichedelica: comincia con le schizofrenie assortite di Gimme Sheldon (che comprendono anche un affascinante e del tutto inatteso solo di tromba in pieno stile jazz), un po’ canzone e un po’ l’effetto che doveva faceva ruotare la manopola di sintonizzazione della radio nei tardi anni ’90, scivola elegantemente nel pop elettronico vagamente dreamy dell’adorabile Couch Surfer (sì, anche a me quella cosa che si sente verso la fine pare proprio un kazoo) ed esplode nel già citato inno generazionale di Drinking in L.A. (che si allunga nella coda strumentale di Problems); attraverso il breve e spettrale intermezzo jazzy di Highway to Heck si spinge nel groove solido e matematico di Forest, electro-pop con ampie dosi di rap, e poi nel folk-pop d’avanguardia di Rainshine, dominato dagli intrecci meravigliosi delle voci di Moraille, Johnston e Hill, ora ballad e ora schizofrenico delirio funk; dall’R’n’B futurista di Carry On, messo a mollo nel reggae e che sembra scritto oggi, alla dance retrò e incalzante di Afrodiziak, dall’alt-rock lo-fi di Lucknow al folk psichedelico e catchy di Cum on Feel the Noize; a queste segue l’alternative sognante di Exactly Like Me, intarsiato da una tromba che ne scandisce i ritornelli ma forse non è nemmeno una vera tromba, solo l’ennesimo suono elettronico che tenta di mimare e superare la realtà; e poi l’up-tempo irresistibilmente pop di Everywhere, la digressione di Une Chanson, l’assurdo ibrido dance-metal-rap di Old School, in anticipo di qualche anno sulle commistioni di metal e rap che avrebbero dominato le classifiche agli inizi dei duemila, la delicatezza folk di Willard che lascia presto spazio all’elettronica up-beat, o l’R’n’B lazy di Supermodel che sfocia all’inattesa elegia di Oblonging, accompagnata da una voce sintetica che manda alla mente la coeva Fitter, Happier, canzone manifesto del ben più celebre Ok Computer dei Radiohead, preludio alla conclusione affidata alle schitarrate da (ultima) spiaggia di Mama Don’t Smoke, quasi dylaniana con le sue coloriture di armonica a bocca. Glee è un lungo e complesso pastiche dentro il quale Di Salvio & Co. frullano di tutto, un caleidoscopio bizzarro e divertente (e divertito) di idee, scampoli di melodie, ossessioni ritmiche, suoni alieni o semplicemente strani, cucito insieme con sapienza e impreziosito soprattutto dalle melodie, tutte ricercate e irresistibili. Uno di quegli album che, con naturalezza e disarmante semplicità, sembrano essere in grado di incarnare un intero zeitgeist, restituendocelo per intero, con immediatezza e stordente efficacia e senza smettere di stupire, con una palette ricca di colori e suggestioni sempre ben vivide e affascinanti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.