La voce umana: Antidawn EP (Burial, 2022)

Pubblicato lo scorso 6 gennaio per Hyperdub, la storica etichetta fondata da Steve Goodman (meglio noto come Kode9) che da sempre distribuisce i lavori di Burial, al secolo William Bevan, genio londinese della dubstep e artista tra i più schivi della scena elettronica internazionale, Antidawn EP è costituito da cinque tracce che coprono tre quarti d’ora scarsi di musica, ed è l’ennesima prova sulla breve distanza di un’artista che manca alla pubblicazione di un long playing dai tempi del fenomenale successo raccolto nel 2007 da Untrue, universamente acclamato come uno degli album più importanti del primo decennio di questo nuovo millennio (opinione più che condivisa da chi scrive questa recensione, ma avremo modo di riparlarne in questo 2022 nel quale ricorre il quindicesimo anniversario della sua pubblicazione). Da allora soltanto vari singoli, molti EP, come già detto, collaborazioni eccellenti (soprattutto con Massive Attack, Four Tet e Thom Yorke) e una ricerca sonora che è andata sempre più verso l’evaporazione degli elementi melodici e ritmici, tesa a rendere evanescente il tessuto stesso dei brani, spogliandoli e al tempo stesso cercando di restituirne appieno la forza delicata e sotterranea. Quando penso alla scena elettronica, sempre più spesso mi torna in mente una sequenza di The Lobster di Yorgos Lanthimos (ne parlai qui): nel film, le persone che vogliono restare single si rifugiano nel bosco e si danno alcune regole, che comprendono anche il divieto di flirtare con altre persone. Nella sequenza di cui sto parlando, i single vengono mostrati mentre ballano, ciascuno per conto proprio e tutti con le cuffie in testa: come spiega una splendida Léa Seydoux all’esterrefatto protagonista della storia, “Nella nostra comunità è vietato flirtare. Si può ballare. Ma da soli. Per questo ascoltiamo solo musica elettronica” . Una rappresentazione plastica della solitudine dei nostri tempi, della quale la musica elettronica costituirebbe un effetto e uno strumento. Credo tuttavia che sarebbe ingeneroso applicare questo paradigma all’opera di Bevan, perché di fatto Burial produce musica dance che semplicemente non si può ballare (ha sempre e solo fatto questo, e avrei numerosi aneddoti da raccontare al riguardo) e con lo scopo di riflettere sul reale criticandolo, non certo di assecondarlo o esserne banalmente il prodotto: adesso, in più, il nostro ha scopertamente iniziato a strappare via dai propri brani la loro ossatura, come se vi avesse estratto la colonna vertebrale, lasciandocene soltanto intuire i contorni, nel tentativo di restituire con più forza questo stesso messaggio, come rimuovendo tutto ciò che possa distrarre chi ascolta. Antidawn EP rappresenta in questo un autentico apice di un percorso che affonda le radici molto lontano nel tempo, almeno da quel glorioso 2007.
L’apertura con
Strange Neighbourhood mette in musica il simulacro di una canzone: le atmosfere sono quelle, indimenticabili, di Untrue, ma qui siamo di fronte a 11 minuti di abbozzi melodici, tentativi di fuga soffocati dal suono malinconico della pioggia, voci campionate e rumori che entrano nel campo sonoro mescolandosi irrimediabilmente col lirismo dei pad, nella pressoché totale assenza di elementi percussivi, qua e là appena accennati e sempre in guisa di un tentativo di riprendere fiato ma come strozzato a metà del gesto. Bevan nega in qualche modo al brano di aprirsi, lasciandolo indefinitamente sospeso, carico di una tensione non destinata a sciogliersi. La title-track Antidawn si regge su voci rese spettrali dagli effetti, ed è un po’ come se Bevan anche qui avesse volutamente rimosso ogni riferimento alla scansione ritmica, così da dilatare all’infinito il tempo trasformando il brano in un lungo spazio largamente vuoto: a confermare i presupposti, Antidawn riflette l’idea che sia il non-detto a costituire l’elemento centrale del lavoro, che si configura essenzialmente come un lavoro di sottrazione. Qui le voci si rincorrono su un substrato di crepitii e pad glaciali, tentando un dialogo che appare immediatamente come impossibile: la solitudine che avvolge gli interventi vocali è completamente aliena, frastornante, un po’ come se ascoltassimo dei suoni provenienti da un altro mondo. Antidawn è insieme pianto ed elegia, lungo la quale risuonano le sirene della polizia, i suoni di un mondo alla deriva, il degrado urbano della grande città resa spettrale dall’incuria degli uomini. Lo spettro della canzone che Antidawn avrebbe potuto essere resta confinato sullo sfondo, un’immagine opaca e distante, appena percettibile nel finale, che cede per un momento alla melodia. La sfida qui è quasi quella di fare musica senza musica, cioè lasciare al silenzio il compito di dire tutto ciò che può esser detto con la maggiore efficacia possibile: anche Shadow Paradise non è che l’ombra di un brano vero e proprio, nel quale il suono degli organi sembra edificare uno spazio sacro, religioso, che però crolla quasi immediatamente travolto dal rumore, dai piccoli glitch, dagli effetti che stravolgono le voci che assomigliano più a pianti che non a veicoli melodici. Let me hold you for a while è il verso che si riconosce, ripetuto, all’inizio del brano, ed è ancora una solitudine annichilente quella che trasuda da questi brandelli di suono. In effetti qui si assiste al dispiegarsi di una canzone desertificata, la cui esecuzione è totalmente frammentaria, calante come se fosse riprodotta da uno stereo con le batterie quasi esaurite: i vari momenti che si affastellano lungo la traccia sono come passaggi sconnessi di una lunga suite notturna, raggelante nella sua decomposizione. Come nel caso dei brani precedenti, nessuna apertura viene concessa all’ascolto: la malinconia della tracce si chiude ad anello su se stessa, e alla fine l’elegia per organo che traspariva a sprazzi all’inizio lascia spazio ad un canto per voce filtrata, aliena, una progressione di bellezza ferita, esplosa, gelidamente disadorna. New Love prosegue sul percorso tracciato nei primi tre brani: tutto è accennato, presente eppure sospeso. Nel taglia e cuci operato da Bevan sulle sovraincisioni e i campionamenti pare quasi di sentire la batteria nei vuoti, nell’assenza di suono, negazione stessa di un ritmo che pure, nell’incedere apparentemente erratico delle stratificazioni sonore, è sempre ben presente, interno, interiorizzato, qualcosa che non necessita più di essere esplicitato. Procedendo nell’ascolto pare di intuire come Antidawn EP contenga musica per dancefloor senza dancefloor: cosa sarebbe la dance se si potessero indossare delle cuffie in grado di escludere tutti i bassi e gli elementi percussivi? O, se preferite, che cosa provereste (e sentireste) osservando il dancefloor da una prospettiva diversa, lontana, distante? Alla fine, lo scopo di Bevan< sembra essere quello di raccogliere le voci di una quotidianità asfissiante, incomprensibile, mescolandole sapientemente con l’evocazione dell’umanissimo desiderio di conforto, comprensione, amore: New Love è pertanto una canzone d’amore destinata ad esser fruita in spazi ai quali l’amore è negato, così come Bevan< nega l’apertura melodica al brano lasciandoci intuire una drum machine che però resta appena un’ombra cinese di se stessa, senza mai poter realmente imprimere il proprio solco sul brano. L’amore è negato, inattingibile nello spazio abitato da questo brano, così come sembra esser negato nella società all’interno della quale New Love è stata scritta. Upstairs Flat, di contro, è chiaramente scandita da un beat, per quanto sottile e appena percettibile: Bevan ce lo lascia ascoltare solo all’inizio, un ritmo pari ma un po’ sgangherato di cassa, il marchio di fabbrica di Untrue, a ben vedere; poi però anche Upstairs Flat si avvolge su se stessa, come una carta che bruci lentamente, una piccola sinfonia di interventi ora elettronici ora concreti che prova a fare della negazione del tempo il proprio tempo, e che continua a sabotare volutamente ogni tentativo di apertura melodica. Eppure anche qui è paradossalmente più quello che il brano dà rispetto a (o a dispetto di) ciò che toglie: nei grovigli di questi ultimi 6 minuti si respira tutta l’assenza che è la matrice dalla quale la musica di Burial sembra essersi sviluppata in questi anni, fino ad arrivare a racchiudere un mondo intero, il nostro, che davvero non sembriamo più in grado di comprendere completamente; un mondo nel quale anche la forma-canzone non è più completamente se stessa, è come un’immagine sfocata, indistinta, enormemente ricca e proprio per questo non così semplice da assimilare. Il particolare soccombe infine al colpo d’occhio, alla visione d’insieme: sottraendo al mondo tutto ciò che da esso distrae resta soltanto il mondo, la fredda realtà, aliena e distante.
Burial dà in pasto all’ascoltatore quasi tre quarti d’ora di musica senza nessun elemento ritmico: quella di Antidawn EP è una musica che si ascolta rigorosamente di notte, in cuffia, guardando fuori dal finestrino del metrò (ma anche quella di Untrue lo era, a ben vedere). Ascoltare questi cinque brani è un po’ come ascoltare una poesia, una filastrocca della quale sembri di intuire il ritmo, la struttura, ma recitata in una lingua ignota fatta soprattutto di spazi, di silenzi, di parole che restano strozzate sulla punta della lingua. Ormai ogni uscita discografica di Burial, quale che sia la sua estensione, crea un’attesa spasmodica, figlia dell’incredibile successo raccolto quindici anni fa proprio da Untrue: negli anni, il producer londinese sembra aver fatto i conti con l’improvviso e incontrollabile successo del suo lavoro più noto, spingendo la propria musica verso una progressiva, ulteriore e dolente desertificazione che prende le mosse dalla volontà ferrea di creare suono, di creare mondi a partire da tutto ciò che resta non detto, taciuto, a volte indicibile. Considerando l’influenza che la scena dubstep tutta (e la musica di Burial in particolare) ha avuto anche su una bella fetta del pensiero critico inglese degli ultimi vent’anni (penso a Mark Fisher), viene difficile liquidare l’opera di Bevan e quindi anche questo Antidawn EP come “semplice” musica, ed è quindi chiaro quanto sia riduttivo discuterla unicamente in questi termini: si tratta anche un trattato socio-culturale, socio-musicale o etno-musicale, se vogliamo, la rappresentazione in musica di un mondo esploso, confuso, che si trova a fronteggiare disarmato un futuro incomprensibile e all’apparenza del tutto ostile; un trattato di semiologia, anche, una semantica della solitudine e dell’alienazione; la ricerca e la costruzione di una koiné, un linguaggio che sia umano, caldo, vibrante, che possa allentare per un attimo la morsa del gelo. Quando ripenso a Untrue mi vengono in mente certo brani come Archangel o la stessa title-track, ma non posso dimenticare che quell’album non sarebbe la stessa cosa se non contenesse piccole elegie luminose ed eteree come la splendida In McDonalds o soprattutto quel miracolo musicale che è Shell of Light: la rappresentazione artistica di un mondo di mezzo, la periferia cruda e disadorna della Metropoli che tutto inghiotte, la carne da cannone inviata al macero della società post-industriale che tutto macina e digerisce, risputandolo fuori solo dopo averne succhiato l’essenza. La ricerca del senso: la musica di Burial è quindi anche (forse soprattutto?) un lungo discorso sulla società post-industriale, sulla solitudine e la sensazione di impotenza che accomunano molti di noi in un mondo che non sembra riservarci alcuno spazio reale. Antidawn EP prosegue questa ricerca del senso in una società che del senso sembra aver prosciugato ogni traccia, lasciando dietro di sé solo scheletri e ossa, un deserto inospitale e freddo. Si potrebbe parafrasare una nota massima, e dire che “fanno un deserto e lo chiamano casa”: ecco, Antidawn EP espone senza filtri le vestigia di un tempo che fu, erose dalla violenza del tempo che è, dell’oggi, ovvero ciò che il presente ha saputo fare dell’umanità, delle relazioni tra gli uomini, dello spirito. È ovviamente musica disperata, largamente sfigurata, spesso ostica e difficile da riconoscere: eppure è un gesto di vitalità quello di raccoglierla, un atto di coraggio quello di condividerla, e una dolorosa scelta di campo quella di affidare alla voce umana, che la attraversa in lungo e in largo in questi 45 minuti, una posizione preminente, per quanto questa voce sia distorta, irriconoscibile, violentata. Se la tempesta perfetta è passata e il danno ormai fatto, in questo apocalittico post-mondo che abitiamo William Bevan sembra volerci ricordare come l’unica traccia rimasta dell’umanità, l’unica traccia che potrà infine ricondurci a casa, sia proprio la voce umana: ora interrotta, ora stravolta, ora resa spettrale, eppure fulcro fondamentale di ogni possibile comunicazione, di ogni possibile incontro. L’insistenza di Antidawn EP sugli intrecci delle voci, a scapito di ogni veicolo armonico e armatura melodica, è come la ricerca di un segno, e questo stesso breve percorso come un vero e proprio piccolo trattato di semiotica per i tempi irriconoscibili che stiamo vivendo (e che ci apprestiamo a vivere): un trattato sulla fragilità, anche, sul dolore e la solitudine, un’odissea spettrale e livida come il cielo di quella Londra che da sempre è al centro delle composizioni di Bevan e che, non è più un mistero, funziona da perfetta sineddoche del nostro intero mondo che marcisce.

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