The shape of jazz to come: Echoes to the Sky (Archipelago, 2021)

“I see my voice almost like an extension of the clarinet and saxophone. I’ve written songs at the piano my whole life, but it’s something I’ve always kept hidden because I felt it wasn’t allowed! I felt conflicted between the music I would play and what was actually coming out when I was writing, but lately I’ve been trying to keep songs in their raw, nucleus form – taking that leap of faith and being a bit more vulnerable.” (Faye MacCalman, Interview on NARC. Magazine Online)

Al secondo lavoro di studio degli Archipelago, trio londinese costituito da Faye MacCalman (clarinetto, sax tenore, sintetizzatori e voce), John Pope (basso e contrabbasso) e Christian Alderson (batteria e percussioni), e dedito a una profonda decostruzione e contaminazione del jazz con la psichedelia, il post-rock e un certo rumorismo elettronico, sono ovviamente arrivato tardi (come spesso mi accade): Echoes to the Sky, questo è il titolo dell’album, è infatti uscito per l’etichetta New Jazz & Improvised Music Recordings nel giugno dello scorso anno (ma registrato nel dicembre del 2020), seguendo la pubblicazione di Weightless, il lavoro di debutto, datato invece 2017. L’universo di contaminazioni che la band aveva già messo in mostra al primo lavoro di studio viene ulteriormente ampliato in questo secondo episodio: la vocazione ad attraversare i diversi generi musicali, così da conferire una profonda ricchezza di colori alla tavolozza proposta agli ascoltatori, ha spinto il trio a inserire dentro le proprie composizioni anche il songwriting e la voce della MacCalman. L’artista, improvvisatrice e compositrice londinese, da sempre interessata a spostare un passetto più in là gli angusti limiti che spesso imponiamo alla cosiddetta forma-canzone (Faye’s music is focused around pushing the boundaries of song forms, genres and improvisation by combining these musical worlds freely and experimenting with the kinds of emotion and honesty they can express together, come si legge qui), ha infatti recentemente iniziato a sperimentare con il songwriting e con la propria voce, e quindi la scelta di inserire questo nuovo strumento all’interno della palette del trio deve essere stata completamente naturale.
Non sorprende quindi che sia subito la sua voce a marcare questa nuova direzione guidando il trip di
Waiting, opening del disco sostenuto dai bassi incalzanti di John Pope e dalle ritmiche precisissime di Alderson: una piccola sinfonia di jazz psichedelico che come un’onda di marea si abbatte sulla spiaggia sparpagliandosi in una collezione di suoni fumosi e quasi post-apocalittici, dominati dal sassofono della stessa MacCalman. Gold comincia come un meraviglioso duetto tra il basso di Pope e il clarinetto della MacCalman, delicatamente cadenzato dagli interventi minimalissimi di Alderson ai piatti, che lavora di rimshot e lascia crescere la ritmica con calma; Pope ci mette una serie di piccole digressioni soliste che introducono alla sezione centrale del brano, dominata proprio dal basso (pulito e distorto, e accompagnato dai synth suonati sempre dalla MacCalman), e che sfocia in una sezione conclusiva affidata ancora ad un solo meditativo e affascinante del sax tenore, preludio alla ripresa del tema iniziale. Wake Up torna a proporci la vocalità della MacCalman accanto a un basso filtrato: il suono è ampio, variegato, a cavallo tra l’acid jazz e qualche reminiscenza di un pop-alt-rock un po’ tendente agli anni ’60, e il sassofono colora ancora il brano di atmosfere languidamente jazzy. Il songwriting della MacCalman è avvolgente, e in Wake Up il trio spinge la forma-canzone verso una completa decostruzione attraverso una serie di passaggi strumentali che mettono letteralmente a ferro e fuoco il materiale sonoro, aprendolo a contaminazioni e sperimentazioni a tratti quasi rumoriste, sospendendo il brano tra il puro suono e il silenzio prima di tornare a dargli una struttura più regolare nel finale. L’elegia di Wine Dark Sea emerge come da una profonda distanza, oceanica e sospesa: è il sassofono della MacCalman a dominare il panorama sonoro, distendendosi delicatamente su un accompagnamento soffuso del basso e della batteria. Wine Dark Sea è un gioco di timbri e tessiture sonore, un ombroso crescendo che ha l’andamento di un moto ondoso: ora bagna la spiaggia, ora si ritrae, timidamente, pronto a tornare ad abbattersi sugli scogli, un episodio di intensa ricerca melodica, imperniata su un preciso ostinato, una figurazione ripetuta fin quasi alla fine quando la ritmica si stacca dal binario percorso sino a quel momento per aprire ad una nuova, abbacinante divagazione. Wine Dark Sea si spenge sulla ripresa del tema iniziale, e lascia spazio al nervoso, brevissimo passaggio strumentale di Undercurrent: il brano sposa sonorità claustrofobiche, che scaturiscono dall’incontro tra le ritmiche ossessive di basso distorto e batteria e una linea di synth vicinissima al rumorismo (di quelle che segano le orecchie). Dalla melodia al rumore: il duetto Wine Dark Sea- Undercurrent mostra in maniera plastica la capacità del trio di attraversare tentazioni e ispirazioni anche lontanissime tra loro, creando un universo sonoro composito e assolutamente svincolato dall’idea di “genere” (proprio perché capace di attraversarli tutti). Chemical è un inatteso scambio tra la delicatezza jazzy del sassofondo della MacCalman e un background ritmico che riecheggia vagamente il prog prima di subire improvvise impennate quasi punk: i bassi di Pope sanno ondeggiare in modo convincente tra il puro groove e il fraseggio in un proficuo botta e risposta coi fiati, che restano comunque protagonisti indiscussi. In Silhouette un clarinetto nervoso tratteggia una melodia spezzettata su un sottofondo sulfureo di synth e rintocchi della batteria: un notturno acido e urbano, che sconfina ancora quasi nel rumorismo, creando una peculiare sensazione di sospensione. La tensione epidermica di Silhouette prelude al cantato di Burn On, che scioglie la tensione accumulata lungo l’episodio precedente in una ballad lentissima e ispirata: la melodia vocale cristallina della MacCalman guida l’ascolto attraverso un crescendo che accompagna la traccia a spengersi in un piccolo oceano di rumori elettronici attraverso un accumulo caotico di fraseggi del clarinetto e del basso, sostenuto dal nervosismo ritmico di Alderson.
Oscillando tra il songwriting della leader e l’attitudine da power-trio dedito a un jazz audace, contaminato, sperimentale e con chiare tinte psichedeliche, la ditta MacCalman/Pope/Alderson produce un piccolo miracolo musicale la cui vera forza risiede, oltre che nell’incredibile qualità strumentale e compositiva, soprattutto nelle coraggiose performance vocali della MacCalman. Nei brani cantati, la voce dell’artista inglese emerge in tutta la sua forza e in tutta la sua fragilità: come ogni voce il cui potere si sia appena scoperto, anche quella della MacCalman splende di luce propria per la sua schiettezza e la capacità (e il coraggio) di accettare ed esporre la propria fragilità. Alla fine, il cantato della MacCalman è cristallo prezioso, delicatamente intarsiato e fragile come sul punto di spezzarsi: al pari degli interventi solisti della stessa al sassofono e al clarinetto, strumento tra gli strumenti e autentico veicolo d’emozione. Accanto alla scoperta della forza di questo strumento aggiunto, accompagnato da un songwriting intimista e affascinante, c’è il suono del trio che crea letteralmente lo spazio, scolpendolo: a più riprese ci troviamo di fronte alla creazione di nuove forme, una musica che si dà e si costruisce continuamente dentro lo spazio, anzi, dalla quale lo spazio stesso sembra in qualche maniera scaturire a sua volta.
“Shape shifting sound”, è stato definito altrove: e in effetti le forme, i contorni, tutto quanto sembra materiale eppure al tempo stesso sfuggente in questi otto brani, come colto dentro un flusso che costantemente lo rimodella, quasi fosse l’azione inesausta delle acque che leviga la pietra. Il risultato sono otto brani la cui resa è scintillante, altrettante visioni di mondi possibili, nelle quali si incontrano (e si scontrano) la levità del cantautorato folk, le asprezze e le digressioni psichedeliche, la scomposizione ritmica del prog, la misteriosa ricchezza delle divagazioni elettroniche e tanto, tantissimo jazz, che trasuda dalla tendenza all’improvvisazione di tutti i musicisti e soprattutto dal suono ora rotondo e morbido, quasi liquido, e ora secco e diseguale del tenore e del clarinetto della MacCalman. C’è una ragione se la musica jazz è tutt’oggi la musica più viva, vitale e contemporanea che esista, e di questa piccola (ma grande) verità Echoes to the Sky potrebbe essere un ideale manifesto: jazz inteso come re-inventare, ri-scrivere, ri-cominciare, e tutto a partire sempre da un atteggiamento di totale apertura (alla contaminazione, alla sperimentazione, alla pura e semplice bellezza). Il trio guidato da MacCalman riesce nell’impresa di fondere le ispirazioni più disparate in una forma mutevole eppure magicamente definita, propria di questo trio e di nessun altro: MacCalman, Pope e Alderson portano dentro il calderone dell’unica musica colta del nostro tempo un’attitudine e una volontà espressiva che tracimano nel rock (Thinking of how to use what we have in a way that’s not obvious has become something which we as a band have become really conscious of. I think it’s something that’s grown from this collection of material especially: How do we make this thing rock without being ‘rock?’ How do we make something that’s intense, but also really quiet? , si domanda Pope nella stessa intervista citata all’inizio del pezzo), gettandosi senza timore verso l’ignoto, alla ricerca del suono e della meraviglia. Ascoltando Echoes to the Sky penso allora soprattutto a uno splendido manifesto, a una dimostrazione di forza, vitalità e maturità di una band meravigliosa e di tutto un modo di intendere la musica.

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