Laddove aumenta il pericolo, cresce anche ciò che salva: The Ascension (Sufjan Stevens, 2020)

And to everything, there is no meaning, a season of pain and hopelessness
I shouldn’t have looked for revelation, I should have resigned myself to this
I thought I could change the world around me, I thought I could change the world for best
I thought I was called in convocation, I thought I was sanctified and blessed
But now it strengthens me to know the truth at last
That everything comes from consummation, and everything comes with consequence
And I did it all with exultation, while you did it all with hopelessness
Yes, I did it all with adoration, while you killed it off with all of your holy mess

Per qualche motivo, dopo aver schiacciato play su The Ascension, l’ottavo album di studio pubblicato dal cantautore americano Sufjan Stevens, uscito lo scorso 25 settembre, mi è tornato in mente quasi subito lo splendido Perils from the Sea, licenziato nel 2013 da Mark Kozelek e Jimmy LaValle: due dischi diversissimi tra loro, sia come intenzioni che come realizzazione (senza contare che per Kozelek quella era un’assoluta “prima” volta elettronica, mentre lo stesso non si può dire per Stevens, uno che con la commistione di generi e anche con l’elettronica flirta un po’ da sempre), che pure hanno qualcosa in comune nella volontà (ingenua?, potente?, affascinante?) di traghettare l’intimismo della dimensione cantautorale dentro un universo timbrico da essa abbastanza distante, quello dei suoni sintetici ed elettronici. La principale differenza, però, sta nell’insistita cornice politica nella quale questi 15 brani di Sufjan Stevens si vanno ad inserire: in qualche modo, The Ascension parla di un personale che torna ad essere politico, di disgregazione, di promesse deluse, della difficoltà di ritrovarsi e riconoscersi nel mondo circostante, nel proprio mondo, nel volto dei propri simili. D’altra parte la strada verso il disco è stata aperta dal singolo America, una dichiarazione d’intenti che altro non è che un ritratto di un paese lacerato, sfibrato, sull’orlo di una crisi di nervi: la rappresentazione musicale dello Stato dell’Unione, una collezione di disillusioni, solitudini, incomprensioni. Appare chiaro dai versi di Stevens, da questa ora e 20 di musica ma anche, ovviamente, da una rapida scorsa ai giornali, telegiornali, siti web, per capire che non sarà sufficiente la recente sconfitta elettorale di Donald Trump e la schiacciante vittoria democratica a ricucire e suturare le ferite di 4 anni di devastazione spirituale, culturale, economica, sociale. Non è questo il luogo nel quale tirare le somme su cosa questi 4 anni abbiano significato per gli Stati Uniti, e forse non è nemmeno giusto gravare un disco di musica pop di una responsabilità tanto grande; eppure sono certo che Sufjan Stevens non si tirerebbe indietro da questo compito, perché pur riconoscendo di aver ormai perso fiducia in ogni cosa (come succede nella splendida preghiera intitolata Tell me you love me, dove canta My love, I’ve lost my faith in everything/ Tell me you love me anyway, Tell me you love me anyway/ My love, I feel myself unravelling/ Tell me you love me anyway, tell me you love me anyway/ My love, I feel the darkness on my back/ Something inside me like a wave), che è già qualcosa di profondamente doloroso per uno spirito un po’ cattolico-millenarista come il suo, non gli viene mai meno la speranza di un nuovo incontro, la volontà di sentire ciò che sente l’altro, di aprirsi (che poi è proprio quello che resta alla fine di questi 15 brani). La speranza di non essere solo, in ultima analisi: ed è proprio lì, in questa volontà di non restare soli, di avvicinarsi, di comprendersi, che ritorna a fiorire il seme della società, la capacità di sentirsi vicini, prossimi, accomunati da qualcosa che valga la pena difendere.
The Ascension si apre con Make me an offer I cannot refuse, una piccola piece di ambient, glitch e IDM che è al tempo stesso un brano “arrabbiato”, la richiesta di un segno della presenza di un dio, che possa alleviare la devastazione e il caos portati dall’uomo sulla Terra. Run Away sorge lentamente dalle macerie del primo brano come una specie di litania fatta di suoni soffusi che inizia dalla fine, dal ritornello, per dipingere un paesaggio fumoso e caldo. Il terzo brano in scaletta, Video Game, ha una ritmica più definita ed è a tutti gli effetti una pop-song elettronica che parla della cultura del like, della volontà di riconoscere il proprio essere al di là dell’approvazione che si riceve dagli altri. Il corto-circuito è creato qui dalla scelta di far interpretare il video della canzone a una star di Tik Tok, quando quello che si critica è proprio quel modello di relazione e di fruizione del messaggio:
It’s unfortunate that we live in a society where the value of people is quantified by likes, followers, listeners and views. So many people are seeking attention for the wrong reasons. I think we should all be doing our best work without looking for accolades or seeking reward. The main takeaway of ‘Video Game’ for me is: your worth (invaluable) should never be based on other people’s approval (ephemeral). Just be yourself. Keep it real. Keep it moving. Do all things with absolute purity, love and joy. And always do your best. Jalaiah epitomizes all of this and I’m truly inspired by her. So I thought, ‘what if we could get Jalaiah to star in a “dance video” about not wanting to star in a “dance video?”’ I’m so honored she agreed. She clearly owns it, and her work here is beautiful, poignant and true. Solo un’apparente contraddizione, per un album che scava nel più contraddittorio dei mondi, quell’America che contiene moltitudini, rappresentandola per come essa è: sfaccettata, confusa, arbitrariamente indistinta. La successiva Lamentations intreccia un mantra IDM-glitch dai toni vagamente industrial attorno ai versi I am the future, define the future/ I was only thinking of human kindness, introducendo una riflessione sul tema più ampio (e ampiamente trattato nel disco, si veda, poco più avanti, Gilgamesh) della critica all’ordine capitalista mondiale. Tell me you love me è una ballad introdotta da un lieve arpeggio sintetico che, come già accennato, riflette sul venir meno della fiducia, della fede e della capacità di credere (in un dio, negli altri, nell’uomo), un altro tema che attraversa il lavoro (si veda ancora America): il finale in crescendo mette in mostra un desiderio di grandeur melodica che prelude alla strana ninnananna elettronica Die happy, lungo la quale Stevens ripete, ancora come un mantra, solo il verso I wanna die happy, prima di un nuovo crescendo conclusivo, screziato dagli intrecci dei synth. Anche in Ativan traspare lo stato di ansia per il futuro (in questo caso, per le elezioni presidenziali di questo Novembre negli States), ed è un po’ un’ideale colonna sonora per un attacco di panico: The rhythm is the heart of the matter and the rhythm communicates the kind of character of the song. So, in that song, there’s this sort of despairing, dreading undertone, and there’s kind of like a four-on-the-floor kind of thing, which is really unusual for me. Like a pulsing heartbeat. […] But, yeah, that song is pretty hilarious. It really goes there. I wanted to allow myself some space to broaden the emotional space on this record, I gave myself license to indulge in the ecstasy and the agony, the love and affection, the despair; all these things are emotional environments in which I’ve given myself a license to embody them and to feel things within them and kind of work through them. Ativan is Lorazepam, it’s like a Xanax. It’s what you take when you’re having a panic attack. So, I guess I wanted the song to feel like a panic attack.
Ursa Major mi ha fatto tornare in mente il finale di On the Road (For the love of God/ In the shade of Ursa Major, canta Stevens, mentre Kerouac scriveva and tonight the stars’ll be out, and don’t you know that God is Pooh Bear, tradotto in italiano con “orsa maggiore”, appunto), ed è un caleidoscopio di suoni sintetici che si rincorrono, un brano profondamente stratificato. A un certo punto Stevens canta i versi For your information/ I’m not one for controversy, riferendosi probabilmente a una serie di dichiarazioni rilasciate ai tempi dell’insediamento di Trump, profondamente critiche in relazione alla rozza commistione di religione e politica che il magnate americano voleva incarnare agli occhi del paese (si legga pure qui): l’elemento apertamente politico torna a trasparire e lo fa direttamente da una dichiarazione di intimismo, la volontà di restare nascosti, ai margini, di non stare al centro delle polemiche (volontà tradita, ovviamente, ma solo perché ci sono ingiustizie e violenze alle quali occorre sempre ribellarsi).
Landslide alleggerisce un po’ il tono e suona ancora come una pop song ibrida, accarezzata da suoni IDM, rintocchi e tastiere in libera uscita: We step in the light/ The rise of our tide/ My love is a wave/ You got me caught in a landslide canta Stevens nel ritornello, prima di lasciar spazio a un affascinante raseggio di chitarra caricata di delay e riverberi. Gilgamesh racchiude un’epica in poco meno di quattro minuti, ed è di fatto racconto esplicitamente politico: nei versi Oh, my heart receives you now/ With arms full of harvest si espone una precisa visione dell’uomo, del suo rapporto con gli altri, la comprensione dell’alterità della morte e di un destino comune. Di fronte a un mondo spaesante e spersonalizzante, dominato da quella paura dalla quale, come già in Run Away with me, si cerca di correre via (The fear of life/ That seeks to bring despair within), il comune destino di fragilità degli esseri umani appare più di una semplice condanna, forse un modo per trovare il proprio posto nel mondo: in fondo, come scriveva già Hölderlin, “laddove aumenta il pericolo/ cresce anche ciò che salva”. Death Star è un delirio dance robotico che prende le mosse da Star Wars per andare a parlare della grande sfida che l’umanità sta perdendo, quella col riscaldamento globale e il cambiamento climatico (What you call the human race/ Expedite the judgement day (I’m your ticket tonight)/ It’s your own damn head on that plate). La seguente Goodbye to all that comincia proprio dove finisce Death Star, senza alcuna cesura tra i due brani, riprendendone addirittura gli ultimi versi, e di fatto i due brani sembrano fondersi in un unico paesaggio. Il manifesto programmatico di tutta l’urgenza che pervade l’opera è però contenuto lungo i solchi di Sugar che, nelle parole del suo autore, esprime the desire for goodness and purity (and true sustenance), un accorato invito a far presto, prima che sia troppo tardi. Musicalmente si tratta ancora di una pop-song colorata dai glitch, una collezione di singulti elettronici e suoni filtrati, sui quali poi è la delicatezza della voce a prendere il sopravvento. Feed your soul and speak new life into those around you. Give each other love, respect and sacrifice. Relinquish all the old habits, all the old ways of thinking and doing, all former practices—‘business as usual’—and bring new life to the world. This is our calling.
La titletrack,
The Ascension, ripropone qualcosa di quel suono sospeso e magico cui le ultime fatiche di Stevens ci avevano abituato, sebbene in forma di germe, come se fosse un universo colto sul punto di esplodere. The Ascension è una canzone sul recupero dell’ingenuità del sé, come racconta lo stesso Stevens: Experience makes fools of us all, in experiencing so much and growing older, I’ve realised there was definitely a naivety to my former self. There was a hopefulness, joyfulness and playfulness to a lot of those early records that’s been slowly receding over the years. It’s hard for me to speak for it because it’s happened so gradually, like watching a tree grow. But you start to lose faith in the structures of society as you get older, and I think that’s coming to the surface now. Una consapevolezza che costa fatica, perché significa in prima istanza ripensare se stessi e il proprio posto nel mondo, ripercorrersi all’indietro e riuscire a comprendersi.
A concludere il lavoro giunge
America, che è soprattutto un lungo canto di disillusione, di protesta contro la malattia che sembra aver colpito la cultura americana e la sua società. Don’t do to me what you did to America canta Sufjan Stevens: l’assegno con cui il sogno americano è stato pagato si è rivelato, tragicamente, un assegno a vuoto, una promessa non mantenuta, una parola senza significato. Asperità elettroniche e tastiere atmosferiche accompagnano quella che, lentamente, si tramuta in una cavalcata cosmica che affonda pian piano nelle nebbie e nell’oscurità, dove le voci stesse diventano fantasmi che attraversano il fronte sonoro, ologrammi appena visibili, luci in dissolvenza. Cala il sipario su un sogno tradito, calpestato, sconfessato, in un’inattesa e travolgente coda kosmische musik che risucchia tutto con sé per poi stemperarsi in tempeste di organi che accompagnano l’ascoltatore verso la fine del tunnel e, concretamente, del disco, mentre sbocciano nebulose di suoni puri, pizzichi d’arpa e droni che richiamano un po’ i soundscapes di gente come Klaus Schulze o i Tangerine Dream. America assomiglia al continente del quale racconta l’ingloriosa e dolorosa fine (la fine delle sue promesse se non altro): è vasto, e contiene moltitudini, e si contraddice, e scorre via per mille rivoli e gorghi, e si srotola enorme lontano dal tramonto verso una nuova alba, mai uguale a se stesso, mai del tutto compreso (né davvero comprensibile in ogni sua parte). Allo stesso modo, The Ascension è un disco profondissimo ed enigmatico, brutale eppure delicatamente sfuggente al tempo stesso: mentre i suoni scivolano via nelle cuffie, la sensazione, fortissima, è che servirà molto tempo perché tutte queste persone che si sono smarrite, un intero paese, possano ritrovarsi, imparare di nuovo a comprendersi, a camminare insieme. In tutti questi esercizi assolutamente pop domina uno spleen asfissiante: What now?, si domanda Stevens in The Ascension, mentre tutte le strade sembrano restringersi attorno a lui (attorno a noi) ed è la domanda che risuona nelle orecchie lungo tutto l’album. What now? Fuggire, avere paura, confessare la propria fragilità, tentare ancora di innamorarsi, essere umani. Anche se, malinconicamente, niente è stato ciò che pensavamo dovesse o potesse essere, abbiamo il dovere di restare umani.

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