Long live the fighters: Dune- Part Two (Denis Villeneuve, 2023)

A poco più di due anni dall’uscita nei cinema di Dune- Part One (correva l’ottobre del 2021, ne avevamo parlato qui) ha fatto la sua comparsa nelle sale il secondo capitolo di quella che, nei piani ormai dichiarati del suo autore, Denis Villeneuve (Enemy, Arrival, Blade Runner 2049), dovrebbe essere una vera e propria trilogia, ovvero Dune- Part Two (ho avuto l’occasione di assistere a una proiezione del film in lingua originale sottotitolata presso l’Uci Luxe di Campi Bisenzio, FI). In questo secondo capitolo della storia di Paul Atreides, della durata monumentale di 165 minuti (perfettamente in linea, se vogliamo, con la tendenza globale a una maggiore durata dei film, legata con tutta probabilità ai minori costi consentiti dalla transizione al digitale, sebbene la storia sia densa di avvenimenti e richieda il suo tempo per venire rappresentata fedelmente), al ricchissimo cast originale, composto da Timothée Chalamet, Zendaya, Stellan Skaarsgard, Javier Bardem, Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Dave Bautista e Charlotte Rampling si aggiungono anche Austin Butler, Florence Pugh, Léa Seydoux, Anya Taylor-Joy e Christopher Walken: una line-up di qualità non comune, chiara indicazione dell’enorme impegno economico profuso da Warner Bros in questa riproposizione di uno dei romanzi cardine dell’immaginario della fantascienza di tutti tempi, il quasi infilmabile Dune di Frank Herbert. Come mi era già capitato di sottolineare nella mia recensione al primo film di questa probabile trilogia, il Dune immaginato da Denis Villeneuve, anche autore della sceneggiatura insieme a Jon Spaiths, ha ben poco a che vedere tanto con l’universo psichedelico vagheggiato da Alejandro Jodoroswsky in quello che sarebbe dovuto essere il suo Dune (e del quale oggi resta testimonianza solo negli splendidi bozzetti di Moebius e nel documentario Jodorowsky’s Dune), che l’autore stesso aveva avuto la smisurata ambizione di definire “il film più importante della storia dell’umanità”, “un film che avrebbe dato alla gente che all’epoca usava LSD le allucinazioni che si hanno con quella droga, ma senza allucinogeni. Non volevo che venisse usata l’LSD, volevo creare una droga”, insieme opera spirituale e delirio surrealista, quanto col film-sogno (sebbene si sia trattato, a conti fatti, di un sogno bruscamente interrotto) concepito da David Lynch nella sua celebre (e tormentata) versione del 1984 (clicchi pure qui chi volesse fare un ripassino), ovvero il racconto rapsodico ed enigmatico delle sconquassanti visioni del giovane Paul Atreides, nel quale la storia cambia connotati non dopo aver aperto una scatola (come accadrà qualche anno dopo con un altro sogno/incubo) ma dopo averci infilato una mano dentro (Fear is the mind killer). Come chiosavo ai tempi di quella analisi, e come era stato notato anche altrove, il Dune di Villeneuve è l’opera di un razionalista che riadatta un materiale intimamente psichedelico: alle derive lisergiche promesse da Jodorowsky e all’incedere immaginifico e frastagliato (come di un sogno a occhi aperti) della versione di Lynch si sostituisce quindi un racconto espanso, che predilige quasi un punto di vista collettivo, ben differente dalla storia individuale raccontata nello sfortunato Dune del 1984; e proprio in questa scelta risiede il fascino della visione di Villeneuve, maggiormente volta alla ricostruzione del contesto che coinvolge il pianeta Arrakis, con particolare riguardo alla tematica ambientalista e alle ragioni della lotta di indipendenza condotta dai Fremen (la tagline che accompagna il film, Long live the fighters, è da questo punto di vista fortemente indicativa), una dimensione che l’autore stesso considera giustamente fondamentale nel romanzo di Herbert e, di contro, fortemente sacrificata nell’adattamento di Lynch.
È così complesso, affascinante e sfaccettato il mondo descritto da Herbert e, allo stesso tempo, tanto viva e appassionata la ricostruzione che ne propone Villeneuve che, lo confesso, la visione di questo
Dune- Part Two, al pari di quanto avvenuto al tempo del primo episodio, ha avuto il potere di mettermi ancora una volta un po’ a disagio, e qui parlo a titolo pienamente personale: ovvero, ha riacceso in me quell’autentico dispiacere di non essere mai riuscito a concludere la lettura del romanzo di Herbert, avviata in più occasioni in lingua originale sull’unica edizione che non mi faccia sanguinare gli occhi (allego foto) in attesa di recuperare una copia di un’edizione italiana che non sia indecente come quella attualmente in commercio, che trovo graficamente imbarazzante. La storia dell’universo creato da Herbert io la conosco quindi un po’ di rimbalzo, tramite le sue versioni cinematografiche, quella parte del romanzo che ho letto sin qui e quello che ho spilluzzicato in rete: data la loro maggiore fedeltà non tanto alla vicenda quanto allo spirito dell’opera originale, Dune- Part One e Part Two si concentrano maggiormente sul racconto di quei “delicati equilibri” che governano le vicende di Paul Atreides, con particolare attenzione per l’intricata trama di potere sottesa al racconto (ma senza per questo disdegnare la costruzione di immagini e passaggi che sono un’autentica gioia per gli occhi: si tratta pur sempre di Cinema, maiuscola non casuale, e di grande spettacolarità), offrendo soprattutto un’opportunità unica per avviarsi a una conoscenza approfondita del racconto di Frank Herbert (opportunità che vi invito a cogliere: io ho già ricominciato la lettura).

A introdurre il film è una voce fuoricampo, che ricorda come chi possegga il controllo della Spezia concentri di fatto nelle proprie mani il potere assoluto: sullo sfondo delle trame dei suoi protagonisti, la vicenda riprende all’indomani della distruzione della casata Atreides, operata dagli Harkonnen col sostegno interessato dell’Imperatore Padishah Shaddam IV, che nella rapida ascesa del duca Leto Atreides, padre del giovane Paul, vedeva una potenziale minaccia per il proprio predominio. Paul Atreides (Timothée Chalamet) e la madre, Lady Jessica (Rebecca Ferguson), incinta della figlia Alia (che avrà le sembianze di Anya Taylor-Joy), sono stati salvati dai ribelli Fremen, e si uniscono alla rivolta tra i dubbi e la contrarietà della popolazione autoctona di Arrakis/Dune. Col contributo di Stilgar (Javier Bardem), fermamente convinto del destino di leader che attende il giovane Paul, Lady Jessica si insedia come nuova Madre Superiore del culto presso i Fremen: questa sua posizione contribuisce in maniera determinante a garantirle il potere per diffondere il culto del Kwisatz Haderach, identificato nel proprio figlio, e tentando di raccogliere attorno al giovane erede di casa Atreides un esercito in grado di vendicare lo sterminio della famiglia e garantirgli la riconquista delle posizioni di potere perdute. Da par suo, Paul fatica non poco a farsi accettare dai ribelli, tentando con ogni mezzo di far comprendere a quegli uomini e donne come il suo intento sia unicamente quello di aiutarli a riconquistare il controllo del proprio pianeta. Durante il suo percorso iniziatico per essere accettato come pari tra i ribelli Fremen a dispetto della sua natura di “forestiero”, Paul si avvicina a Chani (Zendaya), che era il principale oggetto delle sue visioni ancor prima di arrivare su Arrakis: i due, tra molte difficoltà, iniziano a collaborare seriamente nelle azioni di rappresaglia e combattimento organizzate dalla guerriglia Fremen per mettere in ginocchio le operazioni raccolta della Spezia Melange, imparando a fidarsi l’un dell’altro finché, mano a mano che il giovane inizia a inserirsi nella nuova cultura, il loro rapporto evolve verso un innamoramento. Mentre Paul Atreides, che nel frattempo ha scelto di farsi identificare col nome di battaglia Muad’dib, guadagna sempre maggior prestigio presso i Fremen e comincia a spaventare gli invasori Harkonnen, che ne temono il carisma di leader misterioso (ignorandone la vera identità), gli uomini della temibile casata di Giedi Prime tentano affrontano numerose difficoltà a garantire l’approvvigionamento della Spezia, iniziando ad attirare le ire dello stesso Imperatore: vuoi per una catena di comando assai poco funzionale (perché essenzialmente basata sulla paura), vuoi per la leadership piuttosto confusionaria e scarsamente pianificatrice del giovane Rabban Harkonnen (Dave Bautista), il Barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgaard) capisce che occorrerà qualcosa di più per avere la meglio sulle indomite popolazioni locali. Decide quindi di destituire Rabban e puntare sull’altro nipote, l’appena maggiorenne Na-Barone Feyd-Rautha (Austin Butler). Quello che nessuno di loro può immaginare è come la Sorellanza Bene Gesserit, attraverso Lady Margot Fenring (Léa Seydoux), abbia già individuato in Feyd-Rautha una buona carta da giocare nel caso Arrakis sfuggisse al controllo dell’Impero: Lady Margot Fenring seduce il giovane, assicurandosi una sua discendenza. L’arrivo di Feyd-Rautha su Arrakis cambia le carte in tavola: il rifugio dei Fremen viene distrutto in un violentissimo attacco, e i combattenti sono costretti a ripiegare nelle terre del Sud. È a questo punto che Paul cede alla lusinga del potere. Dopo aver ritrovato il vecchio mentore e maestro d’armi Gurney Halleck (Josh Brolin), divenuto contrabbandiere di Spezia, e averlo accolto tra le fila dei ribelli, Paul cede alla lusinga di usare l’arsenale nucleare della famiglia Atreides, nascosto sul pianeta, come deterrente e minaccia di distruzione per mantenere il controllo di Arrakis. Il giovane accetta così il proprio destino, come preconizzato dalla Madre, e beve l’acqua della vita (il veleno dei vermi del deserto che, se assunto, permette di guadagnare la visione completa del passato, presente e futuro; un veleno mortale per chiunque non sia un membro della sorellanza). Sopravvivendo a questa prova, l’uomo si materializza agli occhi dei Fremen come Lisan El Gaib, “la voce dall’altro mondo” ma anche “colui che dona l’acqua”, ovvero l’incarnazione del Kwisatz Haderach, e li guida in un astuto attacco agli Harkonnen e all’Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken), giunto su Arrakis per incontrare il Barone Vladimir e punirlo con la morte per non essere riuscito a domare la ribellione e garantire così l’approvvigionamento della Spezia per l’intero impero. Qui, dopo aver fatto arrestare l’Imperatore, la figlia Irulan Corrino (Florence Pugh) e il giovane Feyd-Rautha, sopravvissuto all’anziano zio e unico Harkonnen rimasto dopo la fuga di Rabban (che durerà poco, visto che Gurney Halleck si prenderà la sua vendetta uccidendolo), Paul sfida l’anziano regnante per avere il suo trono. Quando questi sceglie Feyd-Rautha come paladino, va in scena lo scontro finale, che il giovane Atreides vince non senza difficoltà. In questo modo, Muad’dib diviene nuovo Imperatore, detronizzando l’anziano Shaddam IV, e ottiene la mano di Irulan come sua sposa (nonostante abbia dichiarato amore eterno a Chani poco prima di combattere). Sfortunatamente le navi spaziali delle altre casate, giunte su Arrakis dietro chiamata degli Harkonnen, non riconoscono l’autorità del nuovo Imperatore e scelgono di muovere guerra. Ha inizio la battaglia finale, alla quale però Chani non parteciperà: la combattente si allontana mentre si prepara lo scontro tra le milizie di Paul, ormai milizie dell’impero, e quelle degli altri nobili in arrivo dai quattro angoli della Galassia.

Questo, in breve, il resoconto delle vicende narrate nel film. Non serve molto per immaginare come questa narrazione possa spingere a considerare il secondo episodio della trilogia di Dune come parte di un racconto di formazione: le vicende seguono infatti principalmente l’apprendistato di Paul Atreides (mosso comunque dai propositi di vendetta per la tragica sorte subita dal padre, ucciso dagli Harkonnen e tratto in trappola dall’Imperatore) nella nuova realtà della lotta Fremen della quale si trova a far parte. Nella linea narrativa che occupa la maggior parte del racconto, Paul diviene Muad’dib (il nome di battaglia che sceglie come guerrigliero Fremen) e impara a farsi accettare dai locali come uno di loro; allo stesso tempo, si moltiplicano i segni che sembrano deporre a favore di Paul come l’uomo che verificherà la profezia del Kwisatz Haderach. Il giovane Atreides è infatti in grado dapprima di farsi accettare come pari tra i combattenti, mettendosi a disposizione per la causa e volgendo a proprio vantaggio tutta la sua conoscenza pregressa (sebbene in larga parte teorica) del mondo Fremen, a partire da quella della lingua; in seguito, riesce perfino a cavalcare uno dei giganteschi vermi della sabbia che sconquassano il sottosuolo del pianeta, abilità che mai prima di allora era stata manifestata da qualcuno che non provenisse da quel luogo desertico e che, come da profezia, era prevista per il Kwisatz Haderach; ma, man mano che l’identificazione tra Paul e la causa Fremen si intensifica, e il legame tra il ragazzo e la nuova cultura si approfondisce, si moltiplicano anche i sogni premonitori che ammoniscono sulle vicende a venire, compresa la tragedia che aspetta l’uomo (e la sua causa) qualora egli dovesse decidere di rivolgersi alle popolazioni del sud di Arrakis per ottenere il loro sostegno nella sua battaglia personale contro l’Impero. Il dilemma che Atreides si trova ad affrontare è chiaro: privilegiare le ragioni della lotta collettiva, la lotta di liberazione Fremen, o usare quest’ultima come strumento per il soddisfacimento di una vendetta personale, con la prospettiva della riconquista del Potere. Nel corso di questa prima parte del film, l’accettazione del giovane Paul da parte dei combattenti Fremen trova una rappresentazione metaforica nell’approfondimento del suo rapporto con Chani, che dall’iniziale diffidenza si sviluppa in una profonda storia d’amore.

Come già sottinteso nella forte preminenza offerta al personaggio della giovane combattente Fremen (cui presta il volto una sempre bravissima Zendaya) nel corso del primo episodio della trilogia di Villeneuve, Chani è qualcosa di più di una semplice co-protagonista: da oggetto delle visioni misteriose di Paul nel primo film, lo sguardo profondo della giovane combattente, fresco e insieme portatore di una storicità apparentemente millenaria, diventa la lente d’ingrandimento attraverso la quale seguire le vicende di un intero popolo, il punto di vista altro che a Villeneuve serve per ribadire la propria posizione rispetto al racconto. Se il regista infatti sposa apertamente (come d’altronde era chiaro fin dal primo episodio) la causa del popolo Fremen oppresso, parteggiando per una rivoluzione dal basso, il personaggio di Muad’dib sceglie ben presto di abbracciare il proprio destino e la profezia Bene Gesserit sul Kwisatz Haderach, accettando (anche se all’inizio con riluttanza) di occupare un ruolo da leader e guida all’interno della rivolta, facendosi Messia più che pari tra pari. Quello affrontato da Paul non è un percorso privo di indecisioni, cambi di passo e presagi oscuri: le sue visioni, alimentate e rafforzate dalla lunga esposizione alla Spezia dovuta alla sua permanenza su Arrakis, gli preconizzano una vittoria e insieme un futuro terribilmente fosco e drammatico qualora egli dovesse, come accennato poc’anzi, cedere alle richieste della madre, ormai divenuta Madre Superiore del culto sul pianeta, e viaggiare presso le popolazioni fondamentaliste del sud desolato di Arrakis per fare proseliti e raccogliere un esercito. Villeneuve ha spiegato di voler rendere giustizia alla visione di Herbert, che si era detto scioccato a seguito dell’accoglienza ricevuta dal romanzo per il fatto che il pubblico avesse visto in Paul Atreides una figura eroica e positiva (e che per questo motivo aveva scritto Dune Messiah): l’idea di Herbert, dentro l’immenso calderone di motivi e suggestioni che animano la storia di Dune, era invece proprio quella di mettere in guardia dalla lusinga dell’uomo forte, denunciandone i pericoli mortali. Così la storia narrata in questo Dune- Part Two è per metà quella della resistenza Fremen, esperimento di lotta “dal basso”, e per metà quella del compimento di un destino (con tutte le prospettive oscure che una frase del genere può evocare): una storia di autodeterminazione e al tempo stesso una storia di lusinga, di ambizione. Alla fine Muad’dib cede alla lusinga del potere, convinto di poter sfruttare l’arsenale atomico di famiglia, rimasto nascosto sul pianeta, per far volgere a proprio vantaggio le sorti della battaglia con gli Harkonnen e la famiglia imperiale dei Corrino, e in un primo momento vi riesce: la sua ascesa come Kwisatz Haderach, dominus e leader unico della popolazione Fremen, tuttavia, gli attira immediatamente le inimicizie delle grandi casate, che non accettano di riconoscerne il nuovo potere e preferiscono muovergli guerra.

Dune- Part Two si chiude così sull’inizio di una catastrofe annunciata (dai sogni premonitori del giovane Atreides), e con uno iato: al fine di consolidare il proprio potere e affermarsi come erede del trono imperiale, Paul, dopo aver ucciso il Na-Barone Feyd-Rautha, prende la principessa Irulan Corrino come propria sposa. Questo gesto sancisce la rottura della sua relazione con Chani, e rappresenta (metaforicamente) la frattura stessa del suo rapporto di fiducia con le popolazioni del deserto: molti dei Fremen, in particolare i fondamentalisti del sud e Stilgar, da sempre suo sostenitore, accettano di seguire il neo-proclamato imperatore in battaglia, ma i popoli del nord del pianeta soffrono questa evoluzione inattesa della parabola di Paul e la loro posizione è (sempre metaforicamente) pienamente rappresentata dalla scelta di Chani che, mentre la battaglia sta per iniziare, abbandona il Palazzo e si allontana nel deserto. Oscillando tra i due poli di Atreides e Chani, due punti di vista nativamente opposti sull’intera vicenda che per un breve momento si sono sovrapposti in una sostanziale consonanza (quando il giovane Muad’dib si dice convinto di voler soltanto aiutare le popolazioni locali a recuperare il controllo del proprio pianeta e riprendere ciò che è proprio, mettendo temporaneamente da parte le lusinghe del potere assoluto), coronata dall’inizio di una storia d’amore, il film cresce lentamente materializzando i suoi presagi più oscuri che prendono la forma di una guerra totale ma, prima, quella dell’inquietante Feyd-Rautha. Il personaggio del giovane Harkonnen merita qualche riga di considerazioni, perché si tratta di fatto di un vero e proprio “negativo” di Paul Atreides (e infatti le inquadrature che lo ritraggono sono talmente desaturate da apparire un autentico, allucinato bianco e nero, specialmente nelle sequenze ambientate su Giedi Prime, quando lo spettatore impara a conoscerlo): al pari del giovane erede della casata Atreides (del quale inoltre, con un altro colpo di scena, si scoprirà essere parente), anche Feyd-Rautha è un ragazzo “pieno di potenziale”, che viene sostanzialmente manovrato dalla Sorellanza allo scopo di mantenere e indirizzare il potere (e il controllo) sulle vicende della Galassia. Feyd-Rautha potrebbe apparire un po’ come un Paul Atreides che non sia mai stato in dubbio su quale strada seguire, e abbia scelto scientemente di perseguire il proprio Potere personale a scapito di ogni altra cosa: è con il pugno di ferro che il giovane prende il controllo di Arrakis una volta sostituito Rabban, e ricaccia indietro i ribelli Fremen costringendoli a nascondersi nel Sud del pianeta, tra le grandi tempeste; ed è il puro interesse personale, unito alla volontà di sopraffazione e al desiderio malato di ottenere quella posizione di prestigio che il Barone Harkonnen gli aveva promesso, che lo spinge ad offrirsi come campione per il l’Imperatore in occasione dello scontro finale con Paul. In un certo senso Feyd-Rautha inquieta non soltanto per il suo aspetto e la sua indole, ma perché condivide una buona fetta del carattere del giovane Atreides, quasi un’incarnazione del futuro sanguinario che attende inevitabilmente il giovane Kwisatz Haderach: a questo personaggio così importante nell’equilibrio del racconto Austin Butler offre un’interpretazione di spessore davvero notevole.

Se a questo Dune-Part Two si può trovare un punto debole (ammesso che lo sia), questo potrebbe risiedere nel suo essere concepito chiaramente come un film di passaggio, un ponte fra l’inizio di un racconto e la sua conclusione autentica. Anche per questo episodio vale quanto scritto ai tempi del primo capitolo: se operiamo un confronto fruttuoso con la lectio di David Lynch, non possiamo non osservare come il Dune di Denis Villeneuve sia completamente mancante di tutta quella dimensione onirica, misterica e per certi versi rapsodica che costituiva una bella fetta del fascino del Dune lynchiano, pur così imperfetto (e forse l’altra fetta del fascino gli deriva proprio, ancora oggi, dalla sua incompiutezza). La lettura che offre Villeneuve ha infatti una dimensione differente, collettiva: all’interno della storia della ribellione Fremen contro uno sfruttamento diabolico delle proprie risorse naturali (tema a dir poco attuale) si innesta il racconto di un’ambizione risoluta, culminante nell’accettazione di un destino di terribile grandezza. Mentre la versione di Lynch era un racconto sull’intuizione, sul potere dell’immaginazione, che sfociava nel trionfo della dimensione onirica su quella materiale (metaforicamente rappresentata dalla pioggia giunta infine a cambiare le sorti del Pianeta Deserto ma anch’essa preannunciata da nuvole gravi e tempestose), in filigrana al racconto di Villeneuve si legge una complessa storia di torbidi intrighi di potere, un piano millenario per conservare e indirizzare il dominio sull’Universo che travolgerà l’esistenza di tutti i suoi protagonisti. Ciascuno di loro crede di stare tessendo un proprio piano (i Corrino come gli Harkonnen e gli stessi Atreides), ma tutti sono ignari del fatto che la sorellanza Bene Gesserit si trovi un passo avanti a ognuno di loro e sfrutti i loro stessi piani (e più di uno per volta) allo scopo di perpetrare se stessa, il proprio culto e il proprio potere. La battaglia per Arrakis è dunque, in ultima analisi, il centro di un campo di forze dove si scontrano le sfere d’influenza delle varie casate nobiliari e, sullo sfondo, il potere sotterraneo, invisibile ma pervasivo (e per questo ancora più efficace) delle Bene Gesserit: che Paul (dopo aver bevuto l’acqua della vita) sappia di stare assecondando un destino già scritto dall’attenta pianificazione di qualcun altro oppure no, è un nodo che il film non scioglie, ma torna alla mente quanto sosteneva Alejandro Jodorowsky, e cioè che Dune non si possa proprio considerare come il classico materiale da Hollywood. Non siamo infatti di fronte a una fantascienza familiare, accogliente, che possa al bisogno assumere il tono di una favola, quanto piuttosto a un mondo alieno e, al tempo stesso, inquietantemente simile al nostro: un mondo che ha davanti a sé tanti spazi aperti ma sceglie la via più stretta e tortuosa, quella della guerra, della violenza, della sopraffazione; un mondo, proprio come il nostro, dominato dalla smania del potere. Un plauso va sicuramente al regista, che (pur con tutti i compromessi del caso) è riuscito a sposare l’appassionata fedeltà al testo di Frank Herbert con una sua riproposizione hollywoodiana, sfidando la premonizione di Jodorowsky. In attesa di capire se Villeneuve riuscirà di dare seguito a questo racconto con un terzo capitolo (“I want to make sure that if we go back there a third time that it’ll be worth it, and that it would make something even better than Part Two”, sono le parole dell’autore) che metta nella giusta prospettiva la storia di Paul e della ribellione Fremen, c’è comunque di che riflettere.

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