May Round-Up: musica dei corpi e memoria del futuro

Mentre sembra dilungarsi l’attesa di nuova musica dalla casa madre, i protagonisti della vicenda artistica dei Vulfpeck proseguono interessanti carriere soliste. È il caso di Joey Dosik, voce, piano e sassofono per alcuni dei brani più belli della band di Jack Stratton, che se n’è uscito lo scorso 6 maggio con Make A Wish, singolone che accompagna alcune date live che il nostro (insieme tra gli altri al buon Joe Dart) sta tenendo negli States. Make A Wish è un R’n’B moderno, cavalcato da Dosik con la consueta, splendida voce carica di venature black e soul, e impreziosito dagli archi arrangiati e suonati da Miguel Atwood Ferguson.

Our bodies are Music
You cannot play
Music
Without the body
Dancing
Even in stillness
There is movement
Suspending
Floating

Di Songwrights Apothecary Lab si è parlato in lungo e in largo su queste pagine, sia nei vari Round-Up mensili (vi risparmio la lista dei link) che per intero poche settimane fa. Il 19 maggio scorso, Esperanza Spalding ha dato alle stampe un ultima Formwela, Formwela 12. Non sfuggirà ai più attenti come il numero 12 mancasse dalla tracklist dell’album, composto sì di 12 tracce ma nel quale si saltava dalla Formwela 11 alla conclusiva Formwela 13. Probabilmente Formwela 12 ci avrebbe azzeccato ben poco nel flusso sonoro del disco, perché il brano è strettamente legato alla performance di ballo di Carmen de Lavallade (che recita anche la poesia sopra riportata, proprio all’inizio del brano) e delle sue ballerine (Lindsey Donnell, Amanda Smith, Daphne Lee, Akua Noni Parker), e sembra sussistere quasi unicamente in relazione ad essa, come chiaramente testimoniato nel video che ne ha accompagnato l’uscita. Formwela 12 è rarefatta, quasi impalpabile, eppure insieme è fisica, incarnata: i movimenti armonici e melodici sono i movimenti delle ballerine, movimenti del corpo nello spazio, e anche la voce si fa pure suono, eterea, vocalizzo senza altro scopo che scolpire l’emozione. Il pianoforte di Leo Genovese trabocca di inflessioni jarrettiane, mentre la Spalding domina il brano con un solo lunghissimo del suo contrabbasso, dal suono tondo e affascinante. Anche l’ingresso della chitarra elettrica suonata da Matthew Stevens è all’insegna di un minimalismo raffinato, e l’accompagnamento ritmico del chitarrista si limita al minimo, less is more, in un proficuo interscambio con la linea della Spalding prima e con il ritorno del piano dopo. Sul finale c’è spazio anche per il groove della batteria di Francisco Mela, più atmosferico che davvero ritmico, come a sottolineare un’improvvisa apertura. Come dicevo, Formwela 12 appare probabilmente come l’esito più rarefatto del Songwrights Apothecary Lab: un brano che realizza appieno la tensione dell’album, superando la dimensione della pura musica, le strutture rigide e le catalogazioni, per rincorrere la libera espressione, una sensualità free jazz incognita e affascinante. Musica libera (e pura) per liberare (e purificare) lo spirito e il corpo.

25 anni fa, OK Computer (Radiohead, 21 maggio 1997)

Quando OK Computer fu pubblicato, il 21 maggio di venticinque anni fa, io andavo ancora alle medie, ero alla fine della seconda media, per la precisione: eppure, di questo album ho un ricordo incredibilmente distinto. Il ricordo di cui parlo risale in particolare al secondo singolo estratto, Karma Police, che fu pubblicato in Italia verso fine agosto (il 25 agosto del 1997) e godette di numerose rotazioni sui canali TV musicali dell’epoca, ovvero TMC2 e la neonata MTV Italia (che avrebbe avviato le trasmissioni proprio pochi giorni dopo, il 1 settembre del 1997). Un altro mondo, chiaro, nel quale forse la fruizione della musica era meno rapida ed efficace di quanto non riesca ad essere oggi, ma allo stesso tempo un mondo nel quale ti poteva capitare di vedere e rivedere tutti i giorni almeno due o tre volte quell’inquietante videoclip che accompagnava le note di Karma Police, fino a fartela penetrare ben bene nella testa. Chiariamoci: sarebbero passati diversi anni (circa cinque e mezzo, per la precisione) prima che mi comprassi questo CD e imparassi ad amarlo quanto lo amo tutt’oggi, anche perché diciamocelo, non è che la musica dei Radiohead si potesse definire adatta a un ragazzino delle scuole medie; e però questo ricordo, la fascinazione per quel videoclip e quel brano, risalente a una giovinezza davvero molto lontana, è una sensazione che riesco a riconoscere con esattezza ancora oggi, quando mi capita di ripensarci. Karma Police mi colpì a tal punto che pochi anni dopo, quando sugli stessi canali musicali (beh, non proprio gli stessi) cominciava a girare, ma assai meno, il videoclip di un’altra canzone che oggi adoro, Pyramid Song, la mia prima reazione fu di rifiuto: pensavo, “che è successo ai Radiohead? Che fine hanno fatto? Cos’è questa cosa, non riconosco gli strumenti, non capisco cosa stia cantando la voce… che roba è??” Oggi, quando ci ripenso, mi dico che non avevo gli strumenti per comprendere quello che c’era stato in mezzo, cosa Ok Computer avesse rappresentato e come Kid A lo avesse rovesciato come un calzino, cambiando tutto ancora una volta. Ma non divaghiamo. Comprai questo CD, come stavo dicendo, il 5 aprile del 2003: avevo ancora diciotto anni e il mondo tutto davanti a me, largamente inesplorato. Ricordo tutto della prima volta che inserii il dischetto nel lettore: ricordo la grafica pazzesca di Stanley Donwood, che avrebbe influenzato qualsiasi mia idea di grafica per musica per il resto della vita (al punto da arrivare a confezionare un artwork molto simile, qualche anno dopo, per un dischetto del mio progetto musicale dell’epoca); ricordo l’effetto straniante che mi fece la batteria tagliata, acidissima di Airbag quando erompe dalle casse facendo letteralmente il pezzo; ricordo il tour de force quasi progressive di Paranoid Android, e che non avevo mai (MAI) ascoltato niente del genere prima di allora (dopo ne avrei viste delle belle, a proposito di prog, ma a quei tempi chi ci pensava?); ricordo l’ingresso dell’elettronica dentro la canzone pop, e in fondo il titolo, OK Computer, strizzava l’occhio proprio a questo; ricordo di aver finalmente capito da dove venissero quelle splendide idee e quegli arrangiamenti che tanto mi erano piaciuti in tanti altri album (faccio un nome per tutti: Parachutes dei Coldplay, ne parlavo dettagliatamente qui, che all’epoca adoravo); e ovviamente ricordo Karma Police, di nuovo dopo tanti anni. Il primo pomeriggio passato con Ok Computer credo di aver riascoltato il disco almeno tre volte di fila, e dopo una settimana di ascolto che definire ossessivo oggi mi parrebbe un mero eufemismo decisi di passare al lato oscuro e procurarmi anche Kid A (e da lì Amnesiac): quel che è certo, che non so se lo capii già all’epoca o se mi divenne chiaro solo dopo, è che il modo in cui avrei ascoltato tutta la musica della mia vita, da quel momento in poi, non sarebbe più stato lo stesso. Su questo album dei Radiohead (ma su ogni cosa fatta dai Radiohead) si è detto tutto e il contrario di tutto, e figuriamoci se io potrò mai avere la pretesa di raccontarvi qualcosa di diverso: nemmeno ci tengo, a dire la verità. Davvero, non so se ci sia un altro modo di dirlo, ma OK Computer è stato a tutti gli effetti quello che si definisce un game changer: dopo questo disco niente sarebbe più stato uguale, niente avrebbe più avuto lo stesso aspetto. Riascoltandolo oggi, quello che si respira è una modernità assoluta, avvolgente: la musica che Thom Yorke, Jonny e Colin Grenwood, Ed O’Brien e Phil Selway hanno letteralmente “inventato” 25 anni fa, col contributo fondamentale di Nigel Goldrich, è la musica dell’oggi; OK Computer parlava del presente ma preconizzava un futuro che, sinistramente, non è tanto diverso da quello, oscuro, che stiamo vivendo: paranoia, alienazione, solitudine, rapporti umani ridotti ai minimi termini, la macchina che soverchia l’umano, sacche di resistenza destinate a soccombere. Una visione eccessivamente pessimistica, dirà (avrà detto) qualcuno: eppure se ascoltate i deliri yorkiani di Lucky, di Climbing Up The Walls, di Let Down, o delle stesse Paranoid Android e Karma Police, sono sicuro che ci riconoscerete dentro i nostri tempi incerti, il tempo che stiamo vivendo. Kid A, l’ho sempre sostenuto, è un disco del futuro (ed è al futuro che si declina, ancora oggi, magicamente, ogni volta che lo riascoltiamo: non meno pessimista, ma definitivamente alieno dal nostro tempo, in qualche misura destinato a librarsi oltre, più avanti, più lontano, e infatti ancora non debitamente compreso, una vetta scalata una sola volta, un traguardo mai più eguagliato, almeno nell’ambito della musica pop); OK Computer è invece il rock di domani precipitato dentro l’eterno presente plumbeo e inquietante, dentro l’oggi nel quale viviamo le nostre vite.
Basta l’intro di
Airbag, quella chitarra elettrica appiccicosa e satura, primo episodio di un autentico tour de force chitarristico di Jonny Greenwood, fatto di effettistica e di uno stile assolutamente inaudito, e quella batteria splendida, tagliata, attorno alla quale si avvolge una minimale pulsazione del basso elettrico, e si eleva il canto alienato e alienante di Yorke: basta davvero solo questo per capire quanto OK Computer fosse (sia) diverso da tutto quanto. Mi piacerebbe descrivere questo brano in maniera più professionale, ma mentre lo riascolto scrivendo queste parole l’unica cosa sulla quale riesco a concentrarmi è la mia pelle d’oca. Se poi ad Airbag segue un brano tanto caleidoscopico, folle e ambizioso quanto Paranoid Android, è chiaro che siamo di fronte a qualcosa di inaudito: la voce di Yorke canta dell’alienazione, e a risponderle nei ritornelli è una voce meccanizzata, un sintetizzatore vocale che ripete, in maniera totalmente atona, la frase “I may be paranoid, but not an android”. Paranoid Android è una suite musicale in quattro momenti, e la fase iniziale lascia spazio a un passaggio che esce e entra tra 4/4 e 7/8 nella sezione “Ambition makes you look pretty ugly” per poi spengersi in uno stupendo squarcio ballad quando Yorke inizia a cantare “Rain down, Rain down”, prima di rituffarsi nel riff chitarristico finale (secondo, spettacolare episodio delle mirabolanti avventure soniche del buon Jonny Greenwood). Subterranean Homesick Alien, piena di immagini meravigliose (“Up above/ Aliens hover/ Making home movies/ For the folks back home/ Of all these weird creatures/ Who lock up their spirits/ Drill holes in themselves/ And live for their secrets”) si ispira a Bob Dylan nel titolo e, piccola nota di colore, dette con un suo verso il nome alla mia primissima band; il basso distorto di Exit Music (For a Film) , facente parte della colonna sonora del Romeo + Juliet di Baz Luhrman, accompagna il racconto di una storia d’amore disperato in un mondo malato (ed è stata, udite udite, la primissima canzone che ho imparato a suonare davvero al basso, grazie al grande Maestro Daniele Nesi); lo splendore di Let Down, introdotto e benedetto da un intreccio mesmerico di arpeggi delle chitarre e graziato da un ritornello indimenticabile, disegna il brano pop perfetto, con la forza di un inno e quel quid sperimentale che non smette mai di sorprendere; e poi c’è ovviamente il rock futurista e la girl with Hitler hairdo di Karma Police, col suo finale fatto di feedback e disturbi elettronici, l’ingresso ufficiale, per chi scrive, dell’elettronica dentro la musica leggera. L’assurdo intermezzo di Fitter Happier, recitato da un sintetizzatore vocale, tratteggia un apologo sulla disumanizzazione dell’umanità dentro un contesto sociale che cerca di creare replicanti interessati unicamente al successo e alla soddisfazione degli istinti minimi di sopravvivenza (e quanti replicanti ci sono ancora in giro), il nocciolo della storia raccontata da OK Computer; a questo segue il rock delirante di Electioneering, e lo splendore assoluto di Climbing Up The Walls, oscura e minacciosa, gonfia di un’inquietudine rarefatta ma densa che avremmo ascoltato ancora nei dischi a venire, forse il primo passo nella direzione della musica del futuro che i Radiohead avrebbero intrapreso compiutamente con Kid A, tre anni più tardi; e poi la ninnananna arrabbiata di No Surprises, altro video visto e rivisto ai tempi in TV, la desolazione di Lucky (e quello scambio modale nei ritornelli, un modal interchange fatto prendendo a prestito un A maggiore dalla tonalità parallela al E minore, che fa decollare il brano: buffo, visto che Lucky parla di un disastro aereo, e nasce proprio dal disagio di Yorke per i lunghi voli); infine, il placido 6/4 di The Tourist, degna chiosa di un album memorabile.
Come dicevo poc’anzi, tanto si potrebbe dire su
OK Computer (e altrettanto sulle b-sides di quel periodo, uscite coi singoli, raccolte in bootleg e infine incluse nel secondo disco dell’edizione celebrativa del ventennale dell’album, OK NOT OK, uscita nel 2017: I Promise, Lift, Polyethylene ecc.): con questo album l’elettronica fece il proprio ingresso trionfale negli spazi della musica rock, e di lì a poco (ancora Kid A) avrebbe dato forma e sostanza a un suono completamente nuovo. Quando collaboravo con una fanzine di musica online (correva il lontano 2003-2004), avevo scritto una recensione critica di questo album: sono passati quasi vent’anni e, paradossalmente, non mi sento più in grado di fare una cosa del genere. Oggi OK Computer mi appare come un album meraviglioso, pieno di Musica speciale, plasmata da musicisti assolutamente sopra la media, musica sperimentale come quasi nessuno, nell’ambito del pop, sembra avere più il coraggio di farne, ma anche, forse soprattutto, come una memoria del futuro: lo riascolto e mi dico che vent’anni fa, dentro questo disco, già c’era il mio presente attuale, il mio oggi; c’era quando scrivevo sul banco di scuola il testo di Fitter Happier, e quando provavamo a suonare Let Down o Karma Police con la mia band dell’epoca, per poi finire invariabilmente per riproporre l’ennesima cover di Creep; l’universo tematico e il linguaggio universale di OK Computer c’erano quando cercavo un mio linguaggio per dire quello che avevo dentro, così come c’erano stati prima e ci sarebbero stati, anni e anni dopo, altri artisti e altri suoni e altri versi immortali (dagli angeli di Wenders alle poesie di Rilke e Pessoa, dalla follia dei personaggi di Werner Herzog al romanticismo senza tempo di Wong Kar-Wai ai versi di Allen Ginsberg, da Derek Walcott a César Vallejo a William Carlos Williams, da Sam Shepard e Charles Mingus a Miles Davis e ai Talk Talk, e ne sto dimenticando mille e allora chi più ne ha più ne metta). Avrete ormai capito che considero OK Computer grande, grandissima Arte, e come tutta la grande Arte soprattutto come un’ispirazione, una porta che si apre su un Altrove, l’invito ad attraversarla, spingersi con coraggio oltre la soglia, continuare ad andare avanti. Quindi capirete anche quanto sia inutile per me cercare di ripetere l’ovvio, per l’ennesima volta: preferisco piuttosto invitarvi tutti quanti ad ascoltare questo disco, uno di quei rari album che possono cambiarti letteralmente la vita, nel caso ovviamente non lo aveste già fatto; ma anche in quel caso, spero che queste poche parole vi abbiano messo voglia di riascoltarlo. Dopo un quarto di secolo, OK Computer non ha ancora finito di dire tutto quello che ha da dire, e questo non è altro che un buon segno.

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