Music for the masses: WE ARE (Jon Batiste, 2021)

On the verge of cryin’
I don’t feel like tryin’
But instead, I’ll sing, yeah
But instead, I’ll sing
When I’m done with worries
And no one’s around me
Don’t you know I’ll sing, yeah
Oh, I love to sing
When I can’t find the words
And everything starts to hurt
I’m done with this heavy heart
I let all my burdens off
And I sing

Alcuni album hanno la capacità di raccogliere dentro lo spazio di poche canzoni tutta la complessità e la ricchezza, tutte le contraddizioni e i desideri che danno al mondo in cui viviamo la forma che esso ha; alcuni sono anche in grado di plasmare questo tempo attraverso il loro linguaggio, aprendo a nuove strade, indicando nuovi orizzonti. WE ARE, l’ultimo album di Jon Batiste, uscito nel corso del 2021 e che giusto una settimana fa ha vinto 4 Grammy Awards (5 sono i premi conquistati da Batiste, su 11 nomination totali) è uno di quegli album, un lavoro la cui importanza (ma direi “la cui urgenza”) finisce per trascendere anche la dimensione strettamente musicale, quella che in quanto appassionati (e talvolta musicisti) ci interessa nell’immediato, per assumere connotati che vanno oltre e ne fanno un’opera d’arte “totale”. Jon Batiste non ha bisogno di presentazioni: pianista e compositore di talento smisurato, incline tanto al jazz quando a RnB e funk, è una vecchia conoscenza di chi segue queste pagine (ne parlavo già qua, tanto per fare un esempio): band leader (fin dal 2015) del gruppo che accompagna il Late Show with Stephen Colbert, quegli Stay Human che lo accompagnano anche nei tour, Batiste ha iniziato a lavorare al concept di WE ARE nel 2020, nel periodo delle rivolte del Black Lives Matter, che sono state d’ispirazione per la stesura proprio del brano che apre il lavoro e gli dà il titolo (durante quelle proteste, che senz’altro ricorderete, lo stesso Jon Batiste ha radunato oltre 5000 manifestanti a New York in una marcia pacifica suonando e cantando per le strade di Manhattan). Chiamando a raccolta alcuni degli amici (Cory Wong e Nate Smith, ovviamente, ma anche Louis Cato, PJ Morton e Trombone Shorty) e sotto la scorta di numi tutelari del calibro di Quincy Jones (che ha scritto le note di copertina del disco, come si usava ai bei tempi del jazz) e Marvin Staples (che ha prestato la voce a un breve passaggio introduttivo del brano FREEDOM), Batiste ha realizzato con WE ARE uno dei dischi probabilmente più ricchi, appassionanti e (sono pronto a scommetterci) fondamentali/rappresentativi di questi anni ’20 che stiamo vivendo: pensate che delle 11 nomination ottenute nel novembre scorso per i Grammy, ben 5 sono i premi conquistati dall’artista e polistrumentista di New Orleans, ovvero Album of the Year (per WE ARE), Best American Roots Performance e Best American Roots Song per CRY, e Best Music Video per il videoclip che accompagna FREEDOM, senza contare il premio ottenuto nella categoria Best Score Soundtrack For Visual Media insieme a Trent Raznor e Atticus Ross per la colonna sonora del film Pixar Soul. Un’incetta di riconoscimenti che dà meglio di mille parole la misura dell’importanza di questo lavoro e di un’intera concezione musicale, fatta propria dall’artista originario della Louisiana e sviluppata fin dai tempi in cui era uno studente della prestigiosa Juilliard School of Music: l’idea di una musica sociale, in grado di tenere insieme una tradizione artistica che abbraccia tutto l’arco che da Duke Ellington conduce a Stevie Wonder, fino all’RnB contemporaneo, al rap e alle incursioni nella classica, senza mai perdere di vista la gioia dell’interazione tra gli essere umani (ricordate il nome della band di Batiste, Stay Human? Ecco), e la musica come una forma di espressione, un linguaggio di convivialità, un veicolo per creare comunità e incidere realmente sulla realtà. WE ARE assolve ad almeno tre compiti: è un album autobiografico, nel quale la dimensione del ricordo (e del racconto) è sempre presente e fondamentale, e non a caso Batiste ricorre alla propria viva voce per tutte le tracce dell’album, sia che si tratti di canto che di rap; ma è anche un album che si lascia alle spalle la nostalgia fine a se stessa e che vive nel proprio tempo, e di questo tempo parla, senza mai staccarsi dalla realtà dell’oggi in tutti i suoi aspetti (anche e soprattutto quelli più contraddittori) e senza assolutamente mai rinunciare alla potenziale immaginazione di un domani diverso; infine, è soprattutto un album che celebra e eleva un inno alla tradizione musicale dalla quale nasce, e che reinventa progressivamente e incessantemente, attestandone l’assoluta vitalità.
L’apertura è affidata all’inno
WE ARE, caleidoscopio musicale che lo stesso Batiste descrive con queste parole: WE ARE is the overture of the album. I wanted to have the marching band from my high school on this record, because it’s a historically Black high school that has a lot of legendary alumni. I was in that high school band and I graduated from that school. It also features three of four generations of my family. My grandfather and my nephews are all on this track. It was a really special one because it goes from Southern marching band culture to gospel to what I call ‘horror disco,’ all within the span of four minutes. Il brano ha tantissimi mood, è pieno di piccole deviazioni, attraversa l’RnB e il jazz per accarezzare il gospel e definisce l’atmosfera “sociale” di queste tracce: Batiste suona praticamente tutto, e si affida a Cory Wong e Nate Smith per le parti di chitarra ritmica e batteria. L’uso del noi nel titolo non è affatto casuale, come potrete immaginare, e implica anzi la necessità per chi ascolta di sentirsi parte attiva della denuncia, della protesta, della battaglia per la giustizia sociale. Lo stesso artwork del singolo è stato ispirato dal manifesto di protesta I AM A MAN realizzato nel 1968 dai lavoratori di Memphis, ponendosi allo stesso tempo come sua celebrazione e superamento in concetto ancora più largo di “comunità”: si potrebbero sprecare decine di righe per dire ciò che già è stato detto, scritto, pensato, comunicato negli ultimi due anni, da quando le proteste del BLM (di cui WE ARE è figlio diretto) sono finalmente esplose in tutta la loro forza, insieme a una nuova consapevolezza della quale c’era un enorme bisogno. Il cammino è sicuramente lungo e complesso, in una società che in larga parte è fondata sul privilegio e (ovviamente) ha grosse difficoltà a rendersene conto, ma WE ARE è un primo mattoncino, un brano che sorge come un sole dell’avvenire portando in dote una consapevolezza vecchia eppure sempre nuova, sempre diversa: l’importanza della comunità, del noi come soggetto che si pone all’inizio di ogni vera Rivoluzione. The Revolution Will Not Be Televised cantava tanti anni fa un altro grandissimo poeta, ma non basta una diga per fermare il mare: “tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono”. A WE ARE segue l’RnB irresistibilmente funky di TELL THE TRUTH con James Gadson (già con Bill Withers e Jackson 5) alla batteria, Negah Santos alle percussioni e Celisse Henderson alla chitarra e voce, mentre è CRY (premiata come detto con ben 2 Grammy) a introdurre nell’album l’unica deriva pienamente chitarristica del lotto, con Wong e Henderson (tra gli altri) a pennellare musica su un testo che parla di disillusione e perdita dell’innocenza, sensazioni che le comunità afroamericane (ma più in generale la comunità umana tutta) ha conosciuto approfonditamente negli ultimi due anni (tra pandemia, violenze dell’autorità e proteste di piazza). CRY è un piccolo gioiello sospeso tra il folk della tradizione americana, il blues delle origini e una certa acidità southern rock, spezzato a metà da un infuocato assolo di chitarra. Brano complementare a CRY è la successiva I NEED YOU, che lo stesso Batiste descrive con queste parole: “I Need You” is sort of the other side of the coin of “Cry,” being a yin to its yang. “Cry” is the darker side of that inheritance and “I Need You” is the brighter side. I thought about the jitterbug, and the Lindy Hop of the Harlem Renaissance in the 1930s. And also that juke-joint Chitlin’-circuit vibe that you would hear Little Richard or Chuck Berry strike up and it would get people to dance. You hear that whole connection to that part of the lineage in rock-and-roll, rhythm-and-blues. It’s the Black social dance baseline. I NEED YOU sposa il boogie con l’hip-hop e rimanda alla mente qualcosa degli Outkast, un po’ come anche WHACHUTALKINBOUT, che Batiste definisce un esperimento punk-video-game-jazz, benedetto dal lavoro di produzione di Pomo, già coinvolto nelle produzioni di Anderson.Paak e MacMiller: I started to feel these words and this cadence starting to come out. It was a rapping or a shouting sort of cadence, and I had a vision of moving through life and career as a Black entertainer and a creator. Every level of success is like a video game. You have an obstacle to overcome or some sort of level boss to master with all these different things that come your way. A lot of times, you just want to focus on the creativity and your art and your family, but then something presents itself. So you have to best it and move to the next level while you continue to create and build.
In mezzo al disco troviamo la colonna vertebrale dell’intera operazione, il trittico
BOYHOOD- MOVEMENT 11’- ADULTHOOD, che poi è anche una finestra nella quale il racconto collettivo si mescola indissolubilmente agli elementi personali e individuali (ci sono sempre tanti, tantissimi IO dentro un NOI). I tre brani raccontano infatti la crescita e l’evoluzione personale di Batiste, dall’infanzia (BOYHOOD) agli inizi artistici (MOVEMENT 11’) fino all’età adulta (ADULTHOOD). BOYHOOD ha il suono caldo della luce che ammanta i ricordi, e riesce nel piccolo miracolo di raccontare la giovinezza con quella nostalgia che contiene in nuce e sa accarezzare già anche tutto il tempo che verrà: accanto al racconto in prima persona delle esperienze del giovane Batiste, un soul contemporaneo scandito da una bellissima drum machine, troviamo la vocalità di PJ Morton nello splendido bridge cadenzato dal piano e soprattutto gli incisi dei fiati guidati da Trombone Shorty (al secolo Troy Michael Andrews). Sia Batiste che Morton e Andrews sono originari di New Orleans e proprio nelle scuole e nelle comunità afroamericane che popolano la grande città della Louisiana, assoluta protagonista di questo brano, hanno mosso i primi passi (artistici, e non solo). Il passaggio dall’infanzia fatta di partire di basket, di videogiochi e di giornate passate a suonare con gli amici, alla prima consapevolezza dell’età adulta si concretizza nei meravigliosi due minuti di MOVEMENT 11’, nei quali Batiste lascia scontrare armonicamente l’educazione da pianista classico (alcuni passaggi quasi da clair de lune, e i crescendo tempestosi del finale) con l’amore sconfinato per il jazz (numerosi gli spunti quasi jarrettiani): MOVEMENT 11’ cattura efficacemente il momento di crescita (artistica e personale) che l’artista ha vissuto alla Juillard School e che lo ha condotto alla propria età adulta, espressa musicalmente dentro l’RnB di ADULTHOOD. MOVEMENT 11’ si interrompe bruscamente: in real life, you wake up one day and realize all of a sudden, ‘Man, I’m 33 years old. I’m an adult; I’ve matured in all these ways. Now I’m thinking about these different kinds of things. When did that happen? It seems like it just happens overnight. And, all of a sudden, it’s “Adulthood” and that’s the way that those tracks kind of lead into each other. It’s phenomenal, this boy’s gonna find his soul/ It’s emotional, room for us to grow canta Batiste: se BOYHOOD era di fatto un’ode all’infanzia (e a New Orleans, e agli stati del Sud, che plasticamente la rappresentano: la dimensione individuale trascende nuovamente verso quella, collettiva, della comunità afroamericana), ADULTHOOD, che chiude questa suite in tre movimenti che è al tempo stesso zibaldone intimo (e intimista), opera di formazione e potentissima trasfigurazione, cambia completamente il mood dell’album, anche grazie all’intervento risolutore della Hot 8 Brass Band nel finale. ADULTHOOD connette inoltre anche tematicamente questa suite alle ultime tracce del disco, nominandole nel testo: Only you can give me freedom/ Only you can make me sing canta Batiste, citando i titoli di due composizioni immediatamente successive, ovvero FREEDOM e SING. A FREEDOM prelude un breve discorso inciso dalla leggendaria Mavis Staples: Freedom to me is the ability for men and women, all created equal, to speak, think and do or not do what you want. La voce della Staples è la giusta introduzione per il blues sfrontato di questo brano, che proprio al sound della cantante originaria di Chicago (e di James Brown) sembra rifarsi, mescolando insieme rivoluzione sociale e sessuale: disco-blues con reminiscenze gospel nei refrain e trasudante groove e black music in ogni passaggio, FREEDOM è un inno alla libertà in ogni sua forma (‘Cause when I look up to the stars (Stars)/ I know exactly who we are (Ooh)/ ‘Cause then I see you shine/ You shinin’/ You shinin’, oh!/ Free to be! ). SHOW ME THE WAY è un po’ il singolo che potrebbe spaccare le classifiche, e Batiste lo ha realizzato insieme alla scrittrice Zadie Smith: This is a beautiful song to play when you’re cruising in the car with someone you care about. Or just cruising by yourself and doing your thing. It’s a homage to the many different culture creators who inspire me. I’ve been doing Zoom sessions with my friend Zadie Smith, who is a writer and sings on this record. We’ll do these virtual jam sessions and have real conversations about the music we want to listen to. So it’s really a homage to all the great Black musicians, and also great creators of all races, that have inspired us. Il motore musicale di SHOW ME THE WAY è un RnB vicino al funk, benedetto da un groove irresistibile di basso e batteria e speziato dallo stile chitarristico inconfondibile di Cory Wong, realizzato indossando un abito compiutamente pop. SING rappresenta infine un po’ lo scorrere dei titoli di coda sul narrato di WE ARE, e comincia come una ballad intimista, riccamente colorata: al primo ritornello, una ritmica incalzante prende a scandire il brano, ulteriormente impreziosito dal fraseggio dei fiati in sottofondo. Come preannunciato nei versi di ADULTHOOD, FREEDOM e SING sono due momenti fondamentali, strettamente legati tra loro: da un lato l’aspirazione alla libertà espressiva, che può accompagnarsi soltanto alla giustizia sociale; dall’altro la consapevolezza di quanto il canto e, per estensione, la musica, siano forse la sola forma di comunicazione in grado di superare (con la loro plausibile intimità, e la loro forza emotiva) qualsiasi dolore, qualsiasi violenza, qualsiasi sopraffazione (trovo meraviglioso l’incipit di SING, ovvero le parole che avete letto in esergo a questa recensione e in particolare i versi On the verge of cryin’/ I don’t feel like tryin’/ But instead, I’ll sing, yeah, che davvero dicono tutto). SING sarebbe la perfetta chiusura positiva del disco, ma poi arriva il brevissimo capolavoro di UNTIL, una tempesta di percussioni tribali e voci che cantano e parlano sovrapposte a una linea di pianoforte di purezza cristallina. Il caleidoscopio musicale di UNTIL sembra interrogare direttamente l’ascoltatore, lasciandolo nella sospensione di un limbo: “Until” brings you back to the beginning of the album. “Until” is sort of the answer to “We Are,” except it’s not an answer. Until could mean a lot of different things— “until what?” or “until who?” It’s really up to us. “Until” is a song that has hope in it, but it has nostalgia in it. It gives you this sort of closure to the experience, but it also doesn’t close the loop. You can decide what happens when you hear it—whether you want to delve back into the question of “We Are” and listen again, or you can decide, “I’m gonna let this process for a little bit.” It was really hard to name this piece because I wanted it to be something that felt like it was vacillating every time you hear it. Sometimes you hear it and it could make you want to cry. Other times, it could soothe you. And “until” is a word that I feel changes from time to time, depending on what’s going on in your life. La progressione armonica del brano, meravigliosa e straniante, si spenge di colpo così com’è sgorgata, e il disco può ripartire, come in una sequenza di cerchi che si chiudono su se stessi.
WE ARE è un disco che, più di altri, rappresenta e interpreta il mondo in cui viviamo: nato nella tempesta delle proteste del Black Lives Matter, nato nelle piazze e nei cortei guidati dallo stesso Batiste nel maggio e giugno del 2020, è insieme inno e protesta, canzone di lotta e d’amore, affermazione orgogliosa delle proprie radici, della propria tradizione, e inesausta, appassionata apertura verso il futuro. È un meccanismo che si autosostiene, un moto perpetuo teso verso l’emancipazione e la libertà e la dignità che a tanti è stata ed è tuttora negata. È ovviamente anche un bellissimo album sulla ricchezza di una larga fetta di umanità e che combatte con la forza della musica e della gioia la meschinità di uno società chiusa a riccio su se stessa, apparentemente dedita con tutte le proprie forze a negare ogni dignità a qualunque istanza diversa nel tentativo, egoistico e destinato al fallimento, di preservarsi e autoassolversi. La materia di cui è fatto WE ARE è sicuramente una materia complessa e scottante per una bella fetta di mondo occidentale, e mi vengono in mente le sacrosante parole con le quali uno dei miei poeti preferiti, Danez Smith, aveva voluto commentare in esergo il titolo della propria seconda raccolta, Homie: “This book was titled Homie because I don’t want non-black people to say my nig out loud. This book is really titled my nig” . La musica di Batiste, la musica contenuta dentro WE ARE, sceglie di combattere la violenza degli argini che costringono questo fiume in piena che vuole un mondo migliore con le armi della comunione, della simpatia, della gioia, dell’umanità. È musica per tutti, autentica musica per le masse, diretta e preziosa perché non cessa mai di porsi lo scopo di scuotere le coscienze di chi ascolta, e io trovo che sia bellissimo che questo disco irresistibile si sia portato a casa 4 Grammy Awards (per quel che vale), certificando l’importanza di una musica che vive dentro il suo tempo, sa raccontarlo, ma sa anche, soprattutto, plasmarlo, nel tentativo di renderlo migliore. Nel mio piccolo, a questa dimensione dell’Arte come punto di vista alternativo sulla possibilità di un mondo migliore ho sempre creduto con tutta la convinzione di cui sono capace: il suono e la parola come strumenti di emancipazione personale e collettivo, strumenti di simpatia, di vicinanza, di comunione e fratellanza. E poi, chiaramente, WE ARE contiene musica talmente bella che anche solo ascoltarla fa bene all’anima, e penso che faccia bene un po’ a tutti lasciarsi contagiare da qualcosa di autenticamente Bello, ogni tanto.

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