Pezzi di cuore in forma di musica: vent’anni di You forgot it in People (Broken Social Scene, 2002)

Non ricordo esattamente in quale circostanza mi sia imbattuto per la prima volta in You Forgot it in People, secondo album del collettivo canadese dei Broken Social Scene. Di sicuro non è successo ai tempi della sua uscita, non ero ancora un ascoltatore così smaliziato, ma ho idea che sia accaduto non molto tempo dopo, sicuramente prima degli anni ’10 di questo secolo. Ricordo molto chiaramente che, come per molti altri incontri musicali fondamentali compiuti in tempi pre-Spotify, la fonte attraverso la quale sono giunto a questo album è stata il passaparola: “dovresti ascoltare questo pezzo”. Il pezzo era Cause = Time, la band appunto i Broken Social Scene (mai sentiti nominare, chiaramente), l’album portava il buffo titolo di You Forgot it in People (che letteralmente suona come “l’hai dimenticato nelle persone”, qualsiasi cosa voglia significare… ci arriveremo tra un po’). Tuttavia quello che so con assoluta certezza è che verso pochi altri album provo l’affezione e la consonanza spirituale che provo verso quest’ora scarsa di musica, e io sono uno che di album ne ascolta parecchi (voglio cogliere l’occasione per bullarmi bonariamente della definizione con cui mi ha omaggiato il mio Maestro Daniele Nesi, una lievissima iperbole secondo la quale io ascolterei qualcosa come “quattrocentomila dischi al mese”). Non è facile spiegare il rapporto speciale che si ha con un pezzo d’arte che viene da un’epoca lontana, che si è incrociato quasi per caso, che si è consumato in ripetute fruizioni come si consuma un amore passionale, che non si è mai smesso di rimandare a memoria (in direzione ostinata e contraria rispetto alle predizioni contenute nel titolo), senza andare a scomodare le categorie dell’illuminazione, dell’esperienza che cambia il modo di vedere le cose, insomma, senza drammatizzare un po’: You Forgot it in People per me è stato in effetti tutto questo, quello che gli americani chiamerebbero un game-changer, la dimostrazione che può esistere uno spazio nel quale la sperimentazione più selvaggia incontra la melodia più orecchiabile, ma anche un grande monito sul fatto che la musica è un qualcosa di collettivo, che si fa insieme (chi meglio di una band di 15 elementi poteva testimoniare a favore di questa visione?), e soprattutto uno di quei dischi che, ogni benedetta volta che schiaccio play, mi fanno sentire meno disperatamente solo. La mia immedesimazione con questo album è stata tale che, quando stavo lavorando a quello che avrebbe dovuto essere il secondo lavoro della mia fu band, avevo davanti agli occhi soltanto You Forgot it in People come riferimento ideale: l’album pop perfetto, forse era così che lo vedevo, l’album che ci mostrava plasticamente come “tutto c’entra e niente c’entra”, proprio come insegnava Nanni Moretti qualche anno fa. Insomma, credo di aver chiarito abbastanza bene quanto questo album conti per me.

Se però vogliamo andare nel dettaglio, bisogna innanzitutto ricordare che Broken Social Scene è un collettivo artistico, un’etichetta che racchiude musicisti provenienti da svariate esperienze della prolifica scena alternativa di Toronto di fine anni ’90: mentre nei vicini Stati Uniti scorrazzavano il nu metal e altre amenità, in Canada succedevano cose destinate a durare, andavano per la maggiore gruppi come Stars, Do Make Say Think, Treble Charger, A Silver Mt. Zion e Mascott (tutte esperienze dalle quali peraltro giungevano, a vario titolo, molti dei musicisti che avrebbero poi contribuito a You Forgot it in People), il super-gruppo dei Broken Social Scene faceva il proprio esordio con Feel Good Lost (correva l’anno 2001) e soprattutto si preparava il terreno, tra le altre cose, per quello che a posteriori sarebbe stato uno degli album indie-rock (quando il termine non era ancora offensivo) più significativi dell’ultimo ventennio, lo splendido Funeral, opera prima degli Arcade Fire, datata 2004 (peccato che, per chi scrive e sta per esprimere un’opinione a dir poco controversa, la band dei fratelli Butler si sia decisamente persa dopo quell’episodio: ma cavolo, averne di dischi come quello!). Insomma, la scena canadese era una scena sperimentale e assolutamente vitale, una scena di autentica ricerca musicale, e il percorso intrapreso dal collettivo dei Broken Social Scene, capitanato dal duo composto da Kevin Drew (voce, chitarre, feedback vari e tastiere) e Brendan Canning (basso, cori, organo e drum-machine), i principali autori della band, voleva condurre al pop attraverso l’esperienza sviluppata negli anni nel contesto della più proficua e libera sperimentazione artistica: “we’d already made our art-house albums… the whole ideology of trying to write an actual four-minute pop song was completely new to so many of us”, era il tenore delle dichiarazioni dell’epoca. Sia Drew che Canning provenivano da altre band della scena alternativa canadese, rispettivamente KC Accidental e By Divine Right, e così era per la maggior parte degli altri componenti del collettivo (un totale come detto di quindici musicisti, compresi gli ospiti): Andrew Whiteman (chitarra, basso, organo, tastiere, tamburino e voci), Charles Spearin (chitarra, basso, percussioni, drum machine, armonica, effetti varie ed eventuali, chitarra acustica, organo e samplers), il batterista Justin Peroff (appunto impegnato con batteria, percussioni e shaker e coinvolto anche nella realizzazione dell’artwork), John Crossingham (chitarre, basso, batteria e feedback), Evan Cranley (trombone, archi e percussioni), James Shaw (tromba, chitarre elettriche e acustiche), Jessica Moss (violino), Ohad Benchetrit (flauto), Bill Priddle (chitarra), Brodie West (sassofono), Emily Haines (voci), Susannah Brady (voce parlata) e una (all’epoca) ancora pressoché sconosciuta Leslie Feist (voci, ovviamente). La quantità enorme di strumentisti dà un’idea della complessità del magma sonoro creato dalla band: il sapiente lavoro di produzione e missaggio sull’album, che come vedremo più avanti è parte integrante del fascino senza tempo di You Forgot It in People, si deve al produttore David Newfeld. Una nota en passant, giusto per completare la cornice storica sin qui abbozzata: a You Forgot It in People avrebbe fatto seguito, nel 2004 (il 24 marzo, per l’esattezza), Bee Hives, album di b-sides pescate dalle stesse sessioni di registrazione responsabili dell’album di cui stiamo parlando, e contenente un differente (e molto noto) arrangiamento di Lover’s Spit (cantata in quel caso dalla sola Feist) e altri otto brani tra i quali il curioso Time = Cause, diretto riferimento al brano più celebre dell’album principale.

If Broken Social Scene was an indie rock supergroup allegedly powered by male energy — that of founders Brendan Canning and Kevin Drew, who co-write nearly every song — then its female vocalists Emily Haines, Leslie Feist and Amy Millan were the band’s under-acknowledged celebrities. Few tracks summarize the members’ lasting impact like ‘Anthems For a Seventeen Year-Old Girl.’ As vast as the instrumental landscape reveals itself to be, building from isolated banjo strums to a crescendo of violins and percussion, it’s Emily Haines’ careful dictation that gives the self-reflective poem about adolescence its everlasting allure. Haines’ breathy whispers capture what it means to grow up, trying to embrace the joy of designing your own makeover while honoring the kid you used to be, without dramatizing the delivery. In that, this song has directly influenced the sneakily simplistic indie rock of today. (NPR)

Come detto, You Forgot it in People era la seconda prova sulla lunga distanza della band, dopo un primo album che, a parte qualche intervento di Drew e Feist, era principalmente un disco di post-rock strumentale; ma il successo di questo secondo capitolo fu tale che le stampe andarono esaurite a tempo di record, costringendo le etichette Arts & Crats Productions e Paper Bag Records a correre ai ripari. Il disco venne registrato tra il dicembre del 2001 e il luglio del 2002 e originariamente pubblicato sul mercato locale canadese nell’ottobre dello stesso anno (il 15 ottobre). Il rapido esaurimento della prima edizione contribuì fortemente ad alimentare il mito di You Forgot it in People: in Canada si dovette attendere fino al marzo del 2003 per una nuova ristampa e infine, quando la fiamma era ormai ampiamente divampata ed era arrivato anche un Juno Award come Alternative Album of the Year (premio consegnato il 6 aprile del 2003: per completare l’amarcord, lo stesso premio venne vinto nel 1998 da (un altro disco del quale abbiamo parlato qualche mese fa, ovvero Glee dei Bran Van 3000, canadesi anche loro, ma di Montréal… un caso? Io non credo), You Forgot it in People divenne finalmente accessibile anche sul mercato statunitense e da lì su quello mondiale (a partire dal 5 giugno del 2003). Significativamente, la cover artwork della ristampa del 2003 è differente da quella originale del 2002: in quest’ultima campeggiava una foto in bianco e nero di alcuni membri della band sul palco, immortalati in un momento di profonda concentrazione durante un’esecuzione; la ristampa mostra invece una copertina forse un po’ più anonima, un muro sul quale trovano spazio due scritte recanti il nome della band e il titolo dell’album (lungo il testo potete vedere entrambe le immagini). Piccole differenze tra le ristampe riguardarono anche i titoli di alcuni brani: Almost Crime (Radio Kills Remix) divenne semplicemente Almost Crimes, Anthems for a Seventeen Year Old-Girl venne privata del trattino e il Late Nineties di Late Nineties Bedroom Rock for the Missionaries si trasformò in un più vago Late Night. Nelle prossime righe si farà comunque sempre riferimento ai titoli originali della prima stampa canadese.

Ma che musica contiene You Forgot it in People? A questo punto, si tratta di una domanda legittima. Ci troviamo di fronte a un album eccezionalmente vario, oserei dire quasi folle, eppure allo stesso tempo incredibilmente, magicamente a fuoco: non si ha mai la sensazione di ascoltare qualcosa che non abbia né capo né coda, piuttosto tutta l’enorme ricchezza e varietà strumentale del lavoro confluiscono in un flusso organico, coeso, denso, insieme straniante e inebriante, eppure perfettamente calibrato. Nelle 13 tracce di You Forgot it in People si ascoltano luminose gemme pop, recrudescenze di magia shoegaze, un’elettronica finalmente umana, echi di epicità orchestrale e tanto rock graffiante, senza farsi mancare qualche allegra scorribanda nelle sonorità del jazz, demandata soprattutto all’uso sapiente (e spericolato) dei fiati. Un mix coraggioso nel quale è soprattutto il gran gusto musicale di Newfeld dietro la console a fare la differenza, perché uno dei tratti principali del disco è quello di essere incredibilmente arioso, pieno di spazi e risonanze. Il suono è insieme minimale e enorme, come fosse ripreso da infinita distanza con tutte le sue frequenze al posto giusto: la strumentazione, come si capisce anche solo scorrendo distrattamente la lista dei musicisti, è barocca e molto ampia, ma ogni parte è arrangiata nel minimo dettaglio e accostata alle altre in perfetta consonanza (o in voluta, e non meno fertile, dissonanza). Quello che fa veramente la differenza, come detto, è il lavoro di mix: Newfeld ha isolato (mettendoli in primo piano sul fronte sonoro) gli elementi principali e gli strumenti chiave di ogni canzone, che spesso si riducono all’ossatura chitarre-basso-batteria, catturando tutti gli altri strumenti come fossero sfumature, nuances, intessendo un tappeto sonoro etereo e affascinante fatto di archi e strumenti a fiato, viole, flauti e trombe (spesso sordinate) che supportano i brani e conferiscono loro quel peculiare calore che li fa brillare di luce propria. Ve ne accorgerete soprattutto ascoltando l’album con un paio di buone cuffie monitor: qualcosa che va molto al di là della cura del suono di un “semplice” disco pop-rock.

Ad aprire le danze è la nebbiolina sonora che si solleva dai feedback di Capture the Flag, accarezzata dai fiati come in uno sgangherato jazz urbano e notturno, un’introduzione fumosa che si spenge dentro l’abrasiva chitarra distorta che dipinge il tema di KC Accidental, accompagnata da una batteria simil-punk fragorosa e gonfia di medi: pian piano nel sottofondo del brano si insinuano il basso e una seconda chitarra, a completarne il panorama sonoro. La cavalcata di KC Accidental continua in un trascinante crescendo fino a lasciar spazio alla voce, accompagnata dal basso elettrico, dal piano e dagli archi, prima che un’esplosione finale crei un’onda d’urto pazzesca nelle orecchie dell’ascoltatore. KC Accidental decolla definitivamente proprio nella sua coda strumentale (si tratta in fondo di un brano scritto da un gruppo proveniente dal post-rock, genere che ha fatto della cura per le parti strumentali uno dei suoni punti cardine), sepolta sotto pesantissime distorsioni e cadenzata da una batteria finalmente in primissimo piano, un’orgia chitarristica con suoni a metà tra il fuzz e il sintetico sghembo, che si spenge improvvisamente in un delicato arpeggio di chitarra. La successiva Stars And Sons è un altro piccolo gioiello pop-rock, basso e batteria a imprimere un groove trascinante sul quale si arrampicano le chitarre e soprattutto una voce che è insieme sussurro e rumore di fondo, intenzionalmente schiacciata nel mix, leggermente avanti ma un po’ “a panino” tra la sezione ritmica e le svisate delle chitarre; non manca un battimani che accompagna la canzone verso un piccolo crescendo strumentale che riconduce poi alla strofa e al ritornello (ammesso che si possa parlare dei canonici “strofa e ritornello”). Il finale è un altro tuffo strumentale dentro un trip di distorsioni, clapping hands e clamorose pacche sul rullante incastonate tra una miriade di piccoli suoni, feedback e rumorismi assortiti, qualcosa di veramente spinto per stare dentro il recinto canonico del pop e che pure, in virtù di quel magico squilibrio che caratterizza di fatto tutto questo lavoro, funziona a meraviglia, e anche quando sconfina nel rumore vero e proprio ti tiene attaccato al filo, senza mollarti. Almost Crimes (Radio Kill Remix) parte come un brano d’atmosfera, con note sparpagliate di chitarre e addirittura un pianoforte, ma poi torna a battere forte sulla batteria e sulle distorsioni, riuscendo a dipingere un affresco che tiene insieme in qualche modo il garage rock più abrasivo e l’afflato quasi epico (o comunque una visione che definirei “panoramica”) che avremmo conosciuto qualche tempo dopo nei solchi di Funeral degli Arcade Fire. Nelle sue parti strumentali, Almost Crimes (Radio Kill Mix) mette a registro sassofoni impazziti, in odore di jazz post-atomico, e un variegato assortimento di distorsioni art-rock e rumorismi vari ed eventuali; ma è soprattutto la melodia a farla da padrone, perché davvero il brano è un trascinante momento pop rivestito di sonorità che, di primo acchito, col pop non hanno niente a che vedere. We’ve got love and hate it’s the only way canta Drew (coi cori di Feist) prima della coda finale immancabilmente distorta e irresistibile del brano: e Almost Crimes (Radio Kill Mix) lascia spazio alla meravigliosa ballad Looks Just Like The Sun, che è un episodio quasi acustico, una batteria grooveggiante sulla quale si adagiano i bassi rotondi e la chitarra, con l’ormai consueta costellazione di rumori che resta stavolta in sottofondo, ad accompagnare delicatamente un testo che si solleva magicamente da solo, aiutato da una melodia irresistibile. Soprattutto, in Looks Just Like The Sun c’è un bridge clamoroso, accompagnato da una parte vocale che (personalmente) mi dà i brividi a ogni ascolto (Gold and red, the colours change as you can’t forget/ Turning back, you know I thought I knew, thought I knew someone/ You better check your watch/ I think it’s time you left/ To he, and darkness, still it’s obvious to everyone/ Darkness, still, it’s obvious to everyone/ Still it’s obvious to every). La delicata solarità del brano, con vibrazioni quasi live, si giova anche delle parole dei musicisti, che parlano tra loro nel corso dell’esecuzione dandosi indicazioni sulle parti, sui cambi e sulle entrate (e chiusure): il tutto contribuisce a creare un’idea di comunione, di esecuzione in tempo reale, di musica realmente suonata (oggi sembra un idillio lontano mille anni). Looks Just Like The Sun si chiude tra un pianoforte sgocciolante e un rumore metallico che avvolge le orecchie e lascia spazio a una curiosa percussione elettronica dalla quale si svilupperà naturalmente la clave che sostiene il magnifico strumentale Pacific Theme, un piccolo trip per chitarre vagamente centroamericane e nostalgie canaglie (carezze d’oceano e d’amor caraibico, verrebbe da dire, citando il Poeta). Pacific Theme è un po’ un esplosione di blu-marino delle tonalità del mare più placido e profondo, sulla quale basso e batteria dominano la scena imbastendo e mantenendo un groove portentoso: tutto il resto crea l’atmosfera caraibica di cui sopra, un’atmosfera rilassata e giocosa, fino a un break ritmico poderoso nel quale sono di fatto la batteria di Peroff e il basso di Canning a scavare splendidamente lo spazio che andrà ad occupare il tema, esposto dai fiati. Pacific Theme si spenge su un trascinante incedere ritmico, e dalle sue propaggini eteree e riverberate, incarnate da un coro di voci sovrapposte che ha in sé qualcosa di quasi sacrale, emergono la chitarrina sghemba e il groove sgangherato dell’anti-inno più adorabile che io abbia mai ascoltato, e che risponde al geniale titolo di Anthems for a Seventeen Year Old-Girl. Qui si crea una specie di contrazione del tessuto spazio-temporale, e la voce distorta di Emily Haines è la voce di tutte le nostre cotte giovanili e diventa un po’ anche una macchina del tempo che riporta a un mondo ormai lontanissimo, con vibes adolescenziali così forti (in senso positivo) che non mi è capito spesso di riascoltarne in molti altri brani: Anthems for a Seventeen Year Old-Girl è quasi country-pop-folk nelle sue parti strumentali, ma è soprattutto un originale e irresistibile meccanismo ritmico, un crescendo emotivo accompagnato da uno dei versi più belli che abbia mai ascoltato in musica, la formidabile e ostinata ripetizione di Park that car, drop that phone, sleep on the floor, dream about me che funziona come una dichiarazione di dipendenza, il racconto di un amore che è chiodo fisso, un’ossessione che è vitalità e non morte (come solo durante l’adolescenza può sinceramente capitare di viverne). Lo stupefacente episodio di Anthems for a Seventeen Year Old-Girl prelude al brano forse più celebre del lotto, la ritmica trascinante di Cause = Time. Cause = Time è un pop-rock dominato ancora dalla batteria e dal basso, con chitarre che si insinuano ovunque come in un meccanismo a incastri, e linee di synth che accarezzano lo spazio vuoto tra le strofe: il testo è un enigmatico delirio tra mestruazioni, masturbazione, religione e numerologia, una specie di inno post-politico che racconta in maniera sinistramente efficace gli anni ’00, una specie di manifesto per rivoltosi un po’ naif e un po’ sognatori, con gli occhi lucidi e lo sguardo ancora non sconfitto ma, a ben vedere, già ammantato da un velo di quel paralizzante cinismo che verrà. Le promesse mai mantenute cantate in Cause = Time lasciano il posto alla ninna nanna sintetica di Late Nineties Bedroom Rock for the Missionaries, un passaggio strumentale per chitarre metalliche graffianti e pesantemente distorte e anodine batterie elettroniche, con ampi momenti di sospensione e distensione, una specie di discesa tantrica dentro gli incubi e i sogni dei “missionari” del titolo. Late Nineties Bedroom Rock for the Missionaries affascina con il suo incedere notturno, in un crescendo che sfora nel rumorismo e lascia spazio a Shampoo Suicide, brano che è un po’ il cuore del disco. Ancora una volta le chitarre e il piano si appoggiano su una sezione ritmica indimenticabile governata dai soliti Peroff e Canning, e il brano cresce pian piano prima di colorarsi di tutta una serie di suoni satellite e aprirsi in una sezione centrale ampia e sognante che ospita la parte cantata del brano, volutamente sommersa dal contesto sonoro e praticamente inudibile: questo perché il protagonista di Shampoo Suicide è un infelice che decide di commettere suicidio usando uno shampoo come arma, così da fare impressione sulle persone che incontra ogni giorno, sebbene le odi profondamente, colpevoli soprattutto di non averlo mai notato, e di fatto dimenticando se stess* nel tentativo di impressionare gli altri (sì, proprio come da titolo, sul quale vi avevo promesso che saremmo ritornati: You Forgot It in People). A Shampoo Suicide fa seguito Lover’s Spit, ballad per piano, batteria e suoni espansi, uno degli episodi più autenticamente belli del lotto, che dietro la sua forma di canzone romantica nasconde in realtà una caustica riflessione sull’impossibilità di una reale comunicazione, sull’assenza di un vero contatto con gli altri (All these people drinking lover’s spit/ They sit around and clean their face with it/ And they listen to teeth to learn how to quit/ Tied to a night they never met […] All these people drinking lover’s spit/ Swallowing words while giving head) e soprattutto la dolorosa attestazione che tutti quanti sembriamo ormai esserci rassegnati a questa modalità di fruizione del rapporto umano (I like it all that way, ripete Drew nel finale). Anche Lover’s Spit ha una dinamica ascendente, un crescendo che si interrompe parzialmente nel bridge strumentale per riprendere con un tutto pieno trascinante nell’ultima sezione strofa/ritornello: le chitarre distorte tornano a screziare la melodia, e infine il brano si avvia su una coda dominata dagli arpeggi del piano e delle chitarre, trasognante e dolente, sulla quale si affacciano anche sulfurei bagliori elettronici. I’m Still Your Fag si apre ancora sul groove della batteria, al quale affianca presto gli intrecci delle chitarre acustiche: il brano racconta di un amore contrastato tra due uomini, uno dei quali sembra non intenzionato a mollare tutto per l’altro (You’re only coming out ‘cause you came back in), che invece a sua volta non sa rassegnarsi ed arriva a formulare pensieri suicidi (It’s a possibility to live without lips/ Clinics love to fill right up with all the broken kids/ I swore I drank your piss that night to see if I could live/ But my wrists couldn’t stand the life that we missed). È un portentoso trombone a disegnare la linea melodica che accompagna il brano nella sua coda strumentale, affiancato da una linea di pianoforte e una sequenza di suoni alieni. La conclusione dell’album è affidata a un altro strumentale, Pitter Patter Goes My Heart, che riprende la linea melodica di Anthems For A Seventeen Year-Old Girl affidandola a un miracoloso pieno d’archi, accompagnato da una batteria che sembra un battito di cuore, e accelera pian piano come a mimare la sensazione dell’innamoramento (che poi è il senso di questo brano): e così ci si innamora come quando si è giovani, e non ci si innamorerà mai più nello stesso modo.

Vorrei poter fare un commento squisitamente tecnico su questo album, perché mi piace moltissimo e penso lo meriterebbe: ma temo che non saprò farlo, considerando quanto sono legato a questa ora scarsa di musica. Sicuramente You Forgot It in People è un disco splendidamente scritto e altrettanto splendidamente suonato: i quindici musicisti che hanno partecipato alla sua realizzazione, capitanati da Kevin Drew e Brendan Canning, sono strumentisti di livello e gusto assoluti e soprattutto dotati di una proprietà di linguaggio considerevole, e la musica che producono e suonano in queste tredici tracce è un distillato del miglior indie-rock, un meraviglioso ricordo di quando le scelte musicali erano fatte seguendo logiche ben diverse dalle attuali. Il lavoro sui suoni, seguito da David Newfeld, racconta di un tempo nel quale la cura del dettaglio non era considerata orpello, ma sostanza: d’altro canto, la complessità sonora condensata nei tredici brani della tracklist richiedeva un lavoro di altissima qualità per essere mantenuta ed esposta al pieno delle sue potenzialità, e non è mai facile mixare un disco con una strumentazione tanto ampia e barocca come questo. You Forgot It in People è un disco ancora tremendamente moderno, pieno di cose da dire: è un disco nostalgico, in più momenti (Looks Just Like the Sun, Anthems For A Seventeen Year-Old Girl), ma anche arrabbiato, lucidissimo (Lover’s Spit); è un album intimamente rock (KC Accidental, Almost Crimes (Radio Kill Mix)) ma, qua e là, risolutamente stravagante, ora tropicalista (Pacific Theme) ora quasi minimalista (Pitter Patter Goes My Heart); un percorso nel quale si incontrano brani pieni zeppi di un groove quasi matematico (Cause = Time) e altri che sembrano trasognate, buffe o ciondolanti ninnenanne sghembe (Late Nineties Bedroom Rock for the Missionaries o I’m Still Your Fag). È un disco semplicemente folle, sgangherato e serissimo, scanzonato e strano, un punto di convergenza di un sacco di cose che a prima botta diresti siano capitate lì per caso e invece come ovvio niente succede davvero per caso; un disco pieno di piccoli e inaspettati guizzi di tropicalismo, la casa di molteplici di quelle “carezze d’oceano e d’amor caraibico” di cui parlavo poc’anzi, benedetto da una sezione ritmica che sa essere insieme fragorosa e lieve, e nel quale si respirano versi ora deliranti e ora quasi profetici, compressi dentro melodie che sono come preziose goccioline d’acqua fresca disseminate con prodigalità per gli assetati (e specialmente per quelli che preferiscono dare i nomi alle nostalgie che alle stelle, tanto per citare un altro Poeta); ma è anche un viaggio, un piccolo e affascinante percorso a metà strada tra il divertito e lo psichedelico. Per me poi sarà sempre il disco dei viaggi veri e propri, quelli in treno (frequentissimi) che mi riportano in Italia da Grenoble, e specialmente sulla tratta Chambéry – Torino, quasi come se, inspiegabilmente, solo l’austerità delle Alpi attraversate dal treno scivolando nella valle della Maurienne potesse essere il giusto contesto per questi suoni diseguali e asimmetrici, magari addirittura l’unico vero contesto possibile, con tutta la sua profonda, distante e oggettiva fissità; il disco al quale associo persone speciali (vi capita mai di pensare che a volte ci sono dischi che assomigliano alle persone che conoscete? È un’assonanza che faccio sovente, al punto che non ricordo spesso da quale direzione sia giunto a certe conclusioni, se sia cioè un certo disco a ricordarmi quella persona o se sia una certa persona ad avere assunto, nei solchi di quell’album in particolare, uno spessore che prima non aveva: in fondo, conosciamo mai davvero qualcuno? E il conoscere l’altro non è, in larga parte, reinventarlo?), il disco che suonava nelle cuffie (Pacific Theme, per l’esattezza) mentre una carinissima ragazza francese scendeva dal treno al confine (pensavo che me la sarei per sempre ricordata così, ma in realtà il suo viso non lo ricordo più). Quello che voglio dire è che un disco senza un centro, più simile a un vortice, ma in fondo poi che cosa non è un vortice? È un uragano, ecco, e anzi, direttamente un uragano del poi (le citazioni ai Poeti ormai si sprecano): un fronte di venti nel quale si entra e dal quale non si vuole più davvero uscire, e che ti cambia. È anche un album di contrasti, di fortissime luci, abbacinante sebbene intriso di melodie e momenti delicatamente notturni. Un album di luce: forse è di questo che sono tuttora così teneramente innamorato, l’idea che si tratti in fondo di nient’altro che un pugno di canzoni suonate da una band contro il profilo di una citta assopita nel calore del tramonto durante una lunghissima golden hour di un giorno di metà luglio, la luce del sole che taglia gli occhi e crea uno spazio enorme da riempire di tutti i sogni che si hanno nella testa e nel cuore. Per questi, e un milione di altri validissimi motivi (non tutti così sentimentali), ritengo che You Forgot It in People sia uno dei dischi più importanti prodotti dalla scena rock alternativa negli ultimi 20 anni, e ogni volta che lo riascolto mi fa piacere scoprire quanto stia ancora, inesorabilmente, invecchiando bene: ma d’altra parte la musica scritta e suonata per sperimentare, spingendosi un passo più in là e prendendosi dei rischi, magari ci mette un po’ a trovare il proprio posto (anche se non è questo il caso, visto che l’album fu un successo strepitoso e inatteso fin dal primo momento), ma alla fine raggiunge luoghi tanto profondi e tanto vicini al cuore da non poterla più scalzare via da lì. Di sicuro, You Forgot it in People resta uno dei miei 10 album del cuore.

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