Teoria e pratica dei molti mondi: Djesse Vol. 3 (Jacob Collier, 2020)

Se su questo blog esistesse una fantomatica serie di contributi raccolti sotto il nome collettivo di Throwback Albums, questo post ne farebbe definitivamente parte: è da più di un anno che progetto di scrivere qualcosa su questo album, Djesse Vol. 3, quarto lavoro in studio del giovane polistrumentista e compositore inglese Jacob Collier, uno dei musicisti più talentuosi (e più interessanti) che mi sia capitato di incontrare negli ultimi tempi, ma come al solito giungo solo adesso, con infinito ritardo sull’uscita del lavoro (pubblicato il 14 agosto del 2020, e con tutto quello che è successo e succede nel mondo sembra già una vita fa). In ogni caso posso essere considerato ancora flebilmente sul pezzo se pensate che, causa ritardi dovuti alla pandemia, soltanto questo giovedì 31 marzo partirà finalmente il tour mondiale di supporto al disco, che porterà il nostro in giro per l’orbe terracqueo praticamente per tutto il 2022 (con una probabile propaggine a estendersi verso i primi scampoli del 2023), toccando anche il nostro paese in due date previste per il prossimo Novembre (l’1/11 a Roma all’Auditorium Parco della Musica e il 2/11 a Milano all’Alcatraz). Quindi, se vogliamo, non è troppo tardi per parlare di questo album, uscito come detto verso la fine dell’estate 2020 per Hajanga/DECCA. Magari Jacob Collier potreste già conoscerlo, se non altro per i video su YouTube nei quali analizza e decostruisce tracce di artisti molto famosi, oppure per alcuni video di illuminante valore didattico, o ancora per alcune splendide esibizioni live condotte nei più svariati contesti, per le cover di artisti che ama (su tutti, i Coldplay di Chris Martin, per i quali fa spesso anche da corista in situazioni live e di studio) e soprattutto per le sue strepitose armonizzazioni vocali, un autentico marchio di fabbrica; i link che vi ho lasciato sono soltanto alcuni degli esempi possibili, ma penso che possano darvi la misura del valore artistico di questo ragazzotto inglese classe ’94 (ebbene sì, amici nati negli anni ’80: iniziamo ad essere terribilmente vecchi). Tanto per lasciare qualche altro numero che sicuramente farà strabuzzare gli occhi agli addetti ai lavori e non, pensate che Collier ha già in cassaforte ben 5 Grammy, ottenuti dal 2016 ad oggi; e se vi sembra poco, aggiungeteci che il buon Jacob è stato il primo artista inglese nella storia ad aver vinto almeno un Grammy per ciascuno dei suoi primi 4 album… e tutto questo senza aver mai avuto nemmeno un singolo nella Top 40 delle classifiche del proprio paese d’origine! Quattro album quindi, a partire dal debutto di In My Room, datato 2016 (due Grammy all’attivo, Best Arrangement, Instrumental or A Cappella per You and I, cover di Stevie Wonder, e Best Arrangement, Instrumental and Vocals per Flintstones, una cover/rilettura del tema portante dell’omonima serie TV degli anni ’60), fino alla serie dei Djesse, attualmente composta da tre parti: Vol. 1, del 2018, premiato ai Grammy nella categoria Best Arrangement, Instrumental and Vocals per la cover di All Night Long di Lionel Richie; Vol. 2, del 2019, che vanta un altro Grammy nella categoria Best Arrangement, Instrumental or A Cappella per la versione proposta da Collier del grande classico Moon River; e infine questo Vol. 3, candidato nelle categorie Best Album of the Year e Best R&B Performance (per lo splendido singolo All I Need) e vincitore, con il brano He Won’t Hold You, del premio nella categoria Best Arrangement, Instrumental and Vocals. Insomma, un carnet di tutto rispetto per un musicista di appena 27 anni, un piccolo genio musicale scoperto nientepopodimeno che da Quincy Jones (e scusate se è poco) e che, dalla propria cameretta strabordante di musica e strumenti musicali, è partito alla conquista del mondo (pur senza mai avere avuto enormi successi di classifica: vedi che se c’è la qualità il resto non serve?). A questo punto a qualcuno potrebbe venire il sospetto che si tratti soltanto di una specie di piccolo prodigio tecnicamente inarrivabile che si diletta di musica “di maniera”: niente di più lontano dal vero. Per quanto la proposta musicale di Jacob Collier non possa certo dirsi “semplice” o “minimale”, la ricchezza e la complessità dei suoi arrangiamenti e il suo ricorso a generi, ispirazioni e idee tanto profonde quanto distanti tra loro sono in questo caso nient’altro che un veicolo emotivo, un modo di incanalare una creatività esplosiva e inarrestabile, anche barocca, ma mai vuota. Questa semplice constatazione è testimoniata proprio dal percorso artistico di Collier: se In My Room, la prima fatica discografica, era fondamentalmente una formidabile incursione nel jazz (da viscerale appassionato, prima ancora che da musicista e compositore virtuoso), è proprio l’evoluzione mostrata nella serie dei Djesse a dare un’idea più chiara della versatilità e dello spirito sperimentale che informa l’espressione musicale di Collier. Spaziando dalla commistione di fusion, R&B e gnawa (musiche di provenienza nordafricana), ascoltata nel primo volume della serie, fino all’inusitato e delizioso mix di tentazioni classiche, ritmiche africane e piccole gemme folk contenuto nel prezioso scrigno di Djesse Vol. 2, Collier è arrivato al terzo volume della propria serie con l’idea, palese, di costruire un meccanismo pop senza rinunciare al contesto delle proprie passioni musicali (in particolare, R&B e jazz) e aprendosi allo stesso tempo a un inconsueto “minimalismo” (una sua personale versione) ricco di influenze elettroniche. Questa progressione è palese anche negli artwork: se quello del primo volume Djesse richiamava palesemente i quattro elementi e le forze della natura, sovrapponendole al volto dell’artista, quello del secondo lavoro mostrava il volto di Collier dentro uno sfondo quadripartito facente riferimento a quegli stessi elementi naturali; dall’interno verso l’esterno, l’idea era quella di denudarsi nella musica, offrendosi completamente all’ascoltatore. Questo Djesse Vol. 3 ha invece una splendida copertina nella quale la silhouette del volto di Collier si intravede appena contro lo sfondo offerto da un meraviglioso cielo stellato: un passetto ancora e siamo letteralmente dentro la testa (e il cuore) dell’artista, forse dentro a quei multiversi e a quegli abissi insondabili che ciascuno stringe dentro di sé. La filigrana cui si riducono i lineamenti del musicista inglese è un buon punto di partenza per parlare di Djesse Vol. 3, in effetti: perché dà pienamente l’idea di una intera concezione del lavoro musicale, perché suggerisce un procedimento fatto “per sottrazione” (dal lato compositivo) e perché parla chiaramente del ruolo di trait d’union che Collier primariamente si assegna in queste 12 tracce, nelle quali i numerosi ospiti assumono spesso un ruolo anche preponderante (come mai era accaduto in passato) ma ogni passaggio resta sempre inevitabilmente riconoscibile come opera del 27enne compositore inglese.
L’opening di
Clarity è un po’ il disco ”in a nutshell”: tutta la ricchezza e la complessità del lavoro avvolte e concentrate in meno di un minuto di suoni da cui emergono, qua e là, brandelli dei pezzi che seguiranno; volendo proseguire nell’uso di metafore cosmologiche, l’equivalente di un big bang, il punto di inizio della rapidissima inflazione dell’universo musicale di Djesse Vol. 3. La fulminante Count the People è già un gioiello di pop elettronico d’avanguardia, che si incolla alle orecchie per non lasciarle più: merito della linea melodica cantata da Jessie Reyez (anche autrice del brano insieme a Collier), che cozza meravigliosamente col rap ad altissima velocità di T-Pain, e soprattutto del bizzarro e furibondo arrangiamento elettronico pieno di singulti, pause e gating proposto da Collier. Che si faccia sul serio è già chiaro dopo questi primi quattro minuti scarsi, ma poi arriva il vintage funk di Bones, cantata dal buono Jacob insieme alla splendida Kimbra con l’intervento di Mono Neon al basso elettrico, ed è un po’ un altro big bang: una luminosissima incursione ritmica dentro un mondo vicinissimo a certe produzioni di Prince (la prima cosa che viene in mente soprattutto ascoltando gli arrangiamenti vocali, in particolari nei ritornelli), impreziosita dal supporto musicale della band americana dei Tank and the Bangas. Time Alone With You è un esempio plastico del lavoro di sottrazione operato da Collier sulla propria musica per questo album: un brano che gronda groove (vi consiglio di ascoltarlo in cuffia per godervi la strepitosa linea di basso, suonata dallo stesso Collier), che fonde una riconoscibile matrice soul alla D’Angelo (ottimo lavoro vocale del cantautore americano Daniel Caesar, che duetta con Collier) con evoluzioni strumentali e soprattutto vocali di livello assoluto (penso al break quasi gospel che taglia a metà il brano, e alle piccole deviazioni jazzistiche della parte strumentale). All I Need, il singolone pop del lotto, è invece un brano straordinariamente orecchiabile e allo stesso tempo tremendamente complesso, nel quale Collier suona tutti gli strumenti (collezionando, parole sue, oltre 600 diverse tracce sovrapposte, che se non è un record poco ci manca, ma di sicuro è un record auto-proclamato per il nostro): comincia con tastiere un po’ surf, sulle quali si adagia un basso sferragliante e adorabile; cresce nel duetto tra la voce caldamente baritonale di Collier e la splendida vocalità di Mahalia, con gli interventi di Ty Dolla $ign; e si apre in un ritornello che ha tutte quelle vibes EDM che rendono il brano tremendamente contemporaneo. Questi sono letteralmente “universi multipli in a nutshell”: un brano di fatto pop, delicatamente e sfacciatamente easy listening, ma concepito e realizzato con una grazia, un’eleganza e una ricchezza espressiva da lasciare letteralmente a bocca aperta, una delle cose migliori che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. In Too Deep è un delizioso soul/R&B ibridato con l’elettronica, nel quale Collier duetta con la pianista, songwriter e attrice americana Kiana Ledé: una ballad asciutta, anch’essa quasi minimale, che concentra il suo portato emotivo nel formidabile intreccio delle voci, scandito da drum machine e bassi sintetici profondissimi. La successiva Butterflies è un piccolo gioiello di soul ibridato glitch, tempestato da distorsioni e rumorismi e scavato profondamente dalle incursioni elettroniche, valorizzato ulteriormente dalla voce di Erin Bentlage, che oscilla tra il pulito e gli effetti, un episodio breve che lascia spazio al funk-pop un po’ orientato verso la dance di Sleeping On My Dreams, altro passaggio di profonda eleganza melodica e orecchiabilità, per quanto fondato come sempre su un’orchestrazione estremamente complessa (ma abbastanza “leggera” da apparire semplice). Apparentemente senza sforzo, il buon Jacob sembra in grado di architettare un numero imprecisato di brani pop tutti orecchiabili e assolutamente catchy riuscendo al tempo stesso a infondere nelle proprie tracce tutta quella complessità armonica e ritmica alla quale ci ha abituato in tutti questi anni: Sleeping On My Dreams, che pure è estremamente articolata nella sua architettura armonica e sonora, scivola via piacevolmente come un pezzo pop da classifica (e magari ci fossero più pezzi come quelli di questo album nelle nostre classifiche di vendita…). L’R&B notturno e al rallentatore della splendida Running Outta Love, cantata con Tori Kelly (anche coautrice), pone le proprie fondamenta ancora su un lavoro strepitoso di Collier ai pedali bassi e si può di fatto considerare un pezzo per basso elettrico, batteria e armonie vocali, semplice e complesso insieme: R&B di grande, grandissima classe. Running Outta Love lascia il passo alla breve Light It Up On Me, che sconfina deliziosamente nella IDM in un turbinio di bassi profondissimi e campionamenti vocali; a questo brano, breve e intensissimo, segue la già citata He Won’t Hold You, premiata ai Grammy nella categoria Best Arrangement, Instrumental and Vocals. Qui Jacob Collier duetta con la rapper americana Marlanna Evans, in arte Rapsody, anche coautrice del brano: l’arrangiamento quasi gospel dei cori di Collier sulla strofa si sposa con la voce profonda della Evans, e il brano ha un inciso memorabile sia per la parte melodica (la linea vocale, cantata da Julia Easterlin, è di qualità cristallina) che per la tempesta di piccole note che lo attraversa. Quando la Evans ci mette il rap (linee di un’intensità tale da ricordare certi spoken di Kae Tempest) il pezzo sembra sollevarsi ancora più da terra, per decollare definitivamente nella seconda riproposizione del ritornello: He Won’t Hold You è un brano intriso di un romanticismo senza tempo, che riesce a sposare efficacemente la parola scandita e ritmata del rap con il gospel, lo spirito del soul e l’eleganza R&B dentro un gioiello di assoluto, scintillante pop; un distillato di musica popolare, verrebbe quasi da dire, da assaporare ad alto volume in cuffia o su un bell’impianto stereo tanto è ricca di colori la sua tavolozza musicale. A chiudere il lavoro giunge la breve nenia di To Sleep (sì, il sonno, il sogno e più in generale la notte sembrano essere un tema ricorrente in questo disco, da Sleeping On My Dreams a In Too Deep), una ninnananna siderale che è un coacervo di piccoli suoni quasi ambient legati tra loro dalle armonizzazioni vocali e dal profondo, caldissimo e bellissimo timbro baritonale di Collier.
Djesse Vol. 3 tiene insieme magicamente una quarantina di minuti di musica di molti altri mondi, un piccolo universo nel quale la lingua comune è il potere infinito della musica: tutto è musicale, ci ricorda Collier, e i brani divengono complesse stratificazioni di suoni, armonie vocali, persino rumori e piccoli difetti elettronici, senza per questo perdere niente della loro diretta schiettezza. L’abito è sartoriale, il filato estremamente complesso e ricercato, la tessitura di pregevole fattura, e il risultato è un disco di 12 brani che sembrano incredibilmente semplici, facili da ascoltare (ed è altrettanto facile innamorarsene), mentre invece sono enormemente complessi e strutturati. Dietro ciascuno di questi episodi risiede un lavoro di ricerca e di cesello davvero difficile da quantificare, ma forse anche da immaginare, e in particolare uno sforzo di composizione e arrangiamento quasi commoventi (per il coraggio e per il valore enorme del risultato): quello che rimane è un disco che praticamente non ha punti deboli, come capita di ascoltarne pochissimi, un flusso ininterrotto di potenza musicale (e ideale, mi permetto di aggiungere) paragonabile solo ad alcune pietre miliari del miglior passato musicale. Jacob Collier riesce nell’impresa di racchiudere dentro un sound assolutamente contemporaneo una miriade di ispirazioni che vanno dall’onnipresente jazz al funk, dal soul all’R&B, contaminandole con l’elettronica ed estraendone un concentrato pop tanto seducente quanto ricco, tanto orecchiabile quanto stupefacente: la musica di Djesse Vol. 3 lascia a bocca aperta il musicista, l’appassionato di virtuosismi e tecnicismi e il teorico musicale tanto quanto l’ascoltatore occasionale, perché assomiglia tanto a una sintesi virtuosa del meglio di tutti questi mondi, digerito e restituito per regalare il piacere dell’ascolto, la meraviglia della scoperta, tutta la forza della musica. Questo probabilmente è legato a doppio filo a quello che considero il contagioso ottimismo che sembra sprigionare da ogni manifestazione del buon Jacob: la sua è musica fatta per il cervello, per la pancia, per le orecchie a anche per i piedi, una pioggia di note che è un piacere ascoltare, cui ci si abbandona con gioia, che accompagna, culla e sprona con eleganza e genera un’inesauribile ammirazione e una profonda, profondissima voglia di averne ancora. Ecco, credo che di pochi album si possa dire quello che sto per dire di questa piccola, grande meraviglia: Djesse Vol. 3 è uno di questi dischi che fanno fiorire un sorriso sul volto, che fanno sbocciare la gioia; un disco caldo e che ti viene voglia di stringere, che ti mette allegria e ti fa sentire abbracciato in ogni suo episodio, da quelli più scanzonati a quelli più tristi, da quelli più sperimentali a quelli più classici. Ed è proprio questo il motivo per cui io lo considero già un piccolo, grande classico, di quelli senza tempo, perché al proprio tempo danno forma e non possono in alcun modo esserne limitati.

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