Un suono del mondo fluttuante: A light for Attracting Attention (The Smile, 2022)

Ascoltando A Light for Attracting Attention, il debutto discografico degli Smile di Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner, la prima cosa che mi è venuta in mente è la colonna sonora del Suspiria di Luca Guadagnino, licenziata dallo stesso Yorke nel 2018 (ne parlavo, tra le altre cose, in questo post). Non lo dico per fare l’alternativo, ma mentre in giro per il web è tutto un fiorire di commenti che evidenziano la stretta parentela delle 13 tracce di questo album con la produzione dei Radiohead (e grazie, mi verrebbe da dire), la sensazione che mi ha comunicato fin da subito A Light for Attracting Attention è un po’ diversa: in particolare quella di essere davanti, come in una vera e propria soundtrack, non a un disco di canzoni ma a un disco di “momenti” musicali; un episodio di musica sperimentale nel senso che è proprio la musica a starvi al centro, al di là della proponibilità di alcuni dei brani come “singoli” o apripista. Si fa fatica, un’enorme fatica a trovare tra queste tracce un pezzo che si stacchi dagli altri tanto da poter essere trattato alla stregua del più classico “singolo”, ma questo non accade perché la scrittura è povera, tutt’altro; accade perché non è questa l’intenzione della band, quanto quella di creare un flusso sonoro, un’esperienza musicale che sia quanto più possibile sfaccettata, multiforme, fertile e al tempo stesso sottilmente inquietante. Thom Yorke e Jonny Greenwood non sono nuovi alla manipolazione delle forme musicali nell’ottica di dar vita a nuovi panorami sonori, strettamente imparentati all’epoca complessa nella quale viviamo: in fondo già OK Computer, Kid A e Amnesiac funzionavano (e funzionano tutt’oggi: è anche e soprattutto musica del futuro, le cui potenzialità sono ancora largamente inesplorate) allargando a dismisura i limiti della forma canzone fino ad avvolgere un intero mondo, quasi i singoli brani diventassero altrettante finestre sulla realtà; implementando il drumming inquieto e coloratissimo di Tom Skinner (già membro dei Sons of Kemet e impegnato nel suo progetto solista Hello Skinny, oltre che turnista e collaboratore per molti importanti artisti contemporanei tra i quali lo stesso Greenwood), gli Smile fanno un passo avanti nella direzione di una musica nuova, coerentemente e radicalmente sperimentale, orientata all’ennesima, profonda reinvenzione del panorama pop/rock, creando con A Light for Attracting Attention una suite variegata e articolata, lontana anni luce dalle logiche radiofoniche (o di streaming) che guidano la maggior parte della produzione musicale odierna. Sarebbe quindi enormemente ingiusto pensare a questo progetto come a uno spin-off della main band di Yorke e Greenwood, e come se Skinner vi fosse cascato dentro per caso: A Light for Attracting Attention è un album che ha una sua personalità, una vita propria e potenziali amplissimi orizzonti davanti a sé, se si esce per un attimo dall’idea che sia banalmente un disco di musica pop/rock (per quanto originale ed eclettica). Spesso capita che ci sia un’espressione artistica avanzata (diciamo d’avanguardia, anche se il termine non mi piace), che sta al passo coi tempi e forse anche li precede, ma un pubblico non ancora pronto a recepirla: è indubbio come il successo e il favore incontrati dagli Smile con questo primo progetto (e con i live a esso legati, alcuni dei quali tenuti anche nel nostro paese) sia strettamente legato alla fama dei Radiohead e allo zoccolo duro dei fan della band di Oxford, ed è probabilmente anche inevitabile; e pur tuttavia gli Smile sono un’altra cosa, perseguono un obiettivo forse analogo (la manipolazione e il superamento del pop/rock, la sua ibridazione con la sperimentazione elettronica e con le musiche colte del ‘900, in particolare il jazz) ma attraverso un percorso differente, che trae linfa vitale dalle esperienze soliste del Greenwood compositore e del Thom Yorke cantore e deus ex machina di lavori “d’ambiente” come quello svolto per Suspiria, che citavo in apertura; e che si giova soprattutto di un batterista che viene da un’esperienza artistica e da un background culturale profondamente dissimile da quello degli altri due artisti, intriso di jazz e interesse per i ritmi tribali africani e caraibici (ascoltatevi un disco qualunque dei Sons of Kemet per capire di cosa parlo).
Il risultato è un ibrido mutevole che si apre sui toni ossessivi e cupi di
The Same, che è una ballad ma è una ballad sghemba, misteriosa: i territori sono chiaramente quelli dell’astronave madre Radiohead (e non a caso il titolo appare come una dichiarazione d’intenti), ma la melodia e la struttura sono già esplose, frantumate, come se i tre stessero già allontanandosi ad ampie falcate dalla comfort zone offerta dal glorioso passato. A conferma di ciò giunge The Opposite, che sembra una riedizione aggiornata dei deliri di album come Tago Mago, un episodio di psichedelia acida e allucinata condotto a cavallo del drumming di Skinner: e se anche qui non è difficile riconoscere i riferimenti di sempre (il krautrock, e soprattutto gli amati CAN), è la somma tra il groove matematico, ripetuto ad libitum dalla sezione ritmica, e il mandala intrecciato dalle voci stranianti e straniate a dare il senso di qualcosa di nuovo, vicino eppure sottilmente distante. You Will Never Work in Television Again ha un’urgenza quasi punk, ed è un episodio breve quanto feroce, fatto di chitarre abrasive e percussioni profondissime, destinato a un’apertura stortissima dopo il verso che cita il bunga bunga (il rapporto con le derive berlusconiste d’altronde è fatto di anni di dichiarazioni al vetriolo rilasciate dal buon Thom, da sempre sensibile alla tematica del potere e del suo esercizio). Se fin qui parliamo di tre momenti estremamente eterogenei da un punto di vista musicale, è con Pana-vision che A Light for Attracting Attention comincia a rivelarci di che pasta è fatto: piano ballad in 7/8, Pana-vision è un brano enigmatico e misterioso che sembra quasi avvolgersi su se stesso, in una specie di progressione “borgesiana” (Beginning without end/ Never lost, never dies/ Unending, a beam of light/ A tunnel in my mind). Quello di Pana-vision è un episodio insieme etereo e disturbante, criptico nella sua parte testuale e parimenti indecifrabile nel suo andamento sincopato e dispari, in grado di generare inquietudine con le sue variazioni ritmiche e attraverso le sue molte modulazioni. Con Pana-vision iniziamo a scivolare dentro un gorgo, un maelstrom oscuro che rapisce l’attenzione e porta con sé l’ascoltatore: nella successiva The Smoke è invece un riff diseguale della chitarra a creare un intro insistita di circa un minuto sulla quale cala infine una voce straniata e vagamente off tune. Qui gli elementi ritmici sembrano quasi rincorrersi senza riuscire mai ad acchiapparsi, vorticando dentro un mulinello pieno di sorprese (e di aperture come quelle, delicate, che si ascoltano sui ritornelli). Speech Bubbles ha sullo sfondo un organo che fa molto Motion Picture Soundtrack ma in versione scheletrica, impreziosito dalla voce eterna di Yorke e dalle percussioni di Skinner, e dipinge un dreamscape delicato e onirico al quale l’ingresso delle chitarre di Greenwood e degli archi (qui come ovunque nel disco suonati dalla London Contemporary Orchestra) dona una dimensione quasi epica, addolcita dal piano e dalle modulazioni che ne “aprono” la coda finale. In contrasto con le sottili inquietudini di Speech Bubbles, Thin Thing presenta una struttura estremamente complessa dal punto di vista della scansione ritmica, in larga parte basata su uno sghembissimo 6/8 (molto più facile da contare in 12), con una batteria tagliata e un riff di chitarra acido in odore di alcuni episodi “estremi” di Amnesiac: a tutti gli effetti una fugue, una progressione basata sull’interplay geometrico di chitarra e batteria e sui contrappunti offerti dal basso distorto, che danno vita a un riff potentissimo e straniante (in particolare sulla parte finale del brano). Open the floodgates sembra tornare al canovaccio della ballad per piano e oscillazioni elettroniche, in qualche modo nipotina delle varie Daydreaming e The Daily Mail, ma con un twist sognante ancora più accentuato, come fosse sospesa in uno stato onirico, un dormiveglia dagli echi quasi fantascientifici, mentre Free in the knowledge è brano chitarristico con un’eco di How to disappear completely, un’altra ballad che all’inizio della seconda strofa viene percorsa come un brivido da un potentissimo bordone d’archi (o è un suono sintetico, magari prodotto dall’Ondes Martenot di Greenwood?). Il panorama dipinto dal brano, forse il più vicino alla forma canzone dell’intero disco, si allarga improvvisamente sul finale, che vede l’ingresso degli elementi ritmici (batteria e basso) a cadenzare il lavorio degli archi. Con Hairdryer va in scena il più compiuto intreccio di chitarre à la Greenwood che avrete l’occasione di ascoltare lungo l’intera tracklist, con la solita stratificazione di basi elettroniche a comporre vaghezze post-atomiche sapientemente alternate a carezze melodiche. Waving a White Flag si apre su synth ciccioni e orchestrazioni d’archi, suonati dalla London Contemporary Orchestra, ancora con un tempo difficile da contare (forse 13/8? Però potrebbe essere tutta un’illusione, dettata ancora dall’incedere enigmatico della melodia). We don’t know what tomorrow brings è un up-tempo più vicino a certe cose dei Radiohead (penso in particolare a Weird Fishes), ma costruito su un suono sintetico, graffiante, coronato da poche svisate della chitarra, con una coda nella quale la voce viene lentamente sommersa dal suono fino a sparire, come travolta da onde di marea. La conclusiva Skrting on the Surface presenta un altro tempo dispari (11/8) governato dal drumming di Skinner, accompagnato solo da chitarra e voce: la cosa buffa è che quando la batteria esce il tempo passa a 10/8, per tornare in 11 quando Skinner rientra sulle strofe. Nel finale c’è spazio per un jazz sgangherato, come proveniente dall’iperspazio, con i fiati che dondolano tra il 10/8 e l’11/8 di rientro della batteria e che qua e là presentano esiti quasi alla Branford Marsalis.
Come dicevo all’inizio, dentro i 53 minuti di musica che fanno questo
A Light for Attracting Attention ci sento più il Thom Yorke della soundtrack di Suspiria che i Radiohead tout court, e sarebbe assolutamente ingeneroso parlare di questo come di un disco che avrebbe potuto banalmente essere un disco dei Radiohead: non è così. Suspiria, ad esempio, aveva tutto un suo modo affascinante di ondeggiare tra il trip hop e la musica da camera, tra l’elettronica retrò e il minimalismo, la polifonia e il misticismo vagamente inquietante e altrettanto enigmatico, una maniera che presenta molte somiglianze con la stratificazione sonora di questi tredici brani: riascoltare per credere. I prodromi del sound degli Smile si possono quindi trovare non soltanto (come ovvio) nella discografia dei Radiohead, ma anche (e direi, fortunatamente, soprattutto) nel percorso musicale personali dei tre artisti coinvolti. Il primo elemento che discosta A Light for Attracting Attention dalla produzione della band di Oxford è infatti senz’altro il drumming irrequieto e irregolare di Skinner, che porta dentro questa musica un motore ritmico vicino al funky e alle percussioni tribali (una new entry, se pensiamo allo stile del buon Phil Selway), nonché felicemente contaminato con il jazz; vanno poi tenute in considerazione le complesse e stratificate orchestrazioni che arricchiscono tutti i brani, retaggio della grande esperienza compositiva sviluppata da Greenwood negli ultimi vent’anni, e il ruolo preminente che le sezioni d’archi giocano nel definire il sound d’insieme di questo lavoro; e infine, appunto, il cantato di Yorke, forse meno tormentato che in passato, ma sospeso, sognante ed enigmatico, che contribuisce in maniera determinante a creare atmosfere sfuggenti, fluide, oniriche. In generale, gli Smile suonano una sorta di moderno progressive rock contaminato con tribalismi, jazz, orchestrazioni classicistiche e cinematiche e scampoli di elettronica, e la loro musica inscena una zona d’ombra, una twilight zone: A Light for Attracting Attention attraversa quella striscia di terra che separa il sonno dalla veglia, come in un costante e periglioso affondare sotto il e riemergere dal pelo dell’acqua, avvolti da un maelstrom oscuro che tenta di risucchiarci. A uno sguardo più attento, quello degli Smile è il suono di un mondo fluttuante: in un contesto socio-economico e storico che vede il mondo ogni giorno spingersi un passo più in là sull’orlo del precipizio, la musica espressa da Yorke, Skinner e Greenwood è una delle più ricche e gravide rappresentazioni della complessità degli orizzonti che si aprono davanti a noi. È una musica complessa, frutto della stratificazione di intenzioni e ispirazioni disparate (dagli echi classicisti degli arrangiamenti di Greenwood al tribalismo delle percussioni di Skinner, dal fascino enigmatico delle melodie disegnate da Yorke all’abito elettronico e sperimentale che vestono tutte queste composizioni), ma è complessa soprattutto perché è insieme musica dell’oggi e del domani, che sta dentro il suo tempo e contemporaneamente cerca di trasfigurarlo nel tentativo di trovargli un senso. Allora la voce di Yorke si fa puro suono, il motore ritmico di Skinner frantuma e ricompone le (poche) certezze del nostro tempo (e ci riporta alla terra, al ritmo primordiale), e le sottili inquietudini da sempre tratteggiate dagli intrecci chitarristici di Greenwood si stemperano nella grandeur evocativa e onirica degli splendidi arrangiamenti degli archi. Se la parabola dei Radiohead, nell’attesa di completarsi con qualche nuovo capitolo (anche se le sensazioni non sono troppo buone), ha saputo imprimere al percorso della musica alternativa una svolta determinante (echi delle sperimentazioni della band si ascoltano, più o meno scopertamente, ovunque oggi si faccia con coraggio musica di qualità: un nome su tutti, gli Everything Everything), quella degli Smile sembra voler rispondere con mezzi diversi a un’urgenza insieme nuova e antica, contemporanea e fibrillante: la necessità di fornire uno spazio e una dimensione all’umanità dei nostri giorni, la ricerca di un suono che sappia allo stesso tempo descrivere e trasformare la realtà che viviamo. Proprio come l’onda nelle immagini del mondo fluttuante (ukiyo-e) era insieme fenomeno naturale e sovrannaturale, terrore reale e fantasmatico; così l’elemento fluido, l’acqua, trovano spazio nel lavoro degli Smile fin dall’illustrazione di copertina (d’altra parte, non si capisce la musica con la musica soltanto), opera del consueto sodale Stanley Donwood raffigurante un grande lago o un mare spazzato da onde agitate e con fiumi come folgori tentacolari o serpentesche, posto al centro di quella che sembra la mappa di un intero nuovo mondo fluttuante (un mondo post-scioglimento dei ghiacciai?), con un sole che è stella lontana e insieme bussola, montagne che sono dune oniriche multicolori e il vago sentore di un’apocalisse consumatasi infine nel disinteresse dell’intera (dis)umanità, e lo percorrono carsicamente contribuendo a conferire al lavoro un’inquietudine sotterranea, strisciante e ferocemente palese al tempo stesso. Ça va sans dire, niente di più contemporaneo del riscaldamento globale: e così A Light for Attracting Attention si scopre autenticamente concept album, lavoro pregno di una dimensione integralmente culturale, e politica, e le visioni di Skrting on the Surface sono visioni che preconizzano l’apocalisse, ed esplicitano quelle sottili inquietudini che attraversano anche tutti gli altri brani (fin dal People in the streets che cadenza il ritornello di The Same): When we realize, we have only to dive, then we’re outta here/ We’re just skirting on the surface/ We have only to click our fingers and we’ll disappear/ We’re just skirting on the surface. Se non è forse ancora troppo tardi per cambiare, non sarà mai troppo presto per capirlo una volta per tutte.

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