July Round-Up: When the hours are so still that time forgets them

The song has recently had a resurgence with listeners — which may speak to a deep national grief and sense of loss. As we head into this Fourth of July weekend — a U.S. holiday marked by war (and death) — let us reflect on what it means to live in fullness in the face of death. (from the Asthmatic Kitty website)

In occasione del suo quarantasettesimo compleanno, festeggiato lo scorso 1 luglio, il buon Sufjan Stevens ha pubblicato un piccolo singolo contenente due versioni alternative della sua bellissima Fourth Of July, estratta dall’album Carrie & Lovell del 2015 e dedicata alla morte della madre e al superamento del lutto. Su Fourth of July si sarà già detto tutto, quindi inutile ricamare troppo: leggetevi il testo, perché è davvero vicinissimo a una poesia, un dialogo spirituale tra un figlio e una madre di fronte all’ineluttabilità della morte, della separazione e della distanza, pieno di immagini meravigliose. Nel singolo pubblicato a inizio Luglio possiamo ascoltarne due nuove versioni, una ribattezzata April Base Version (il nome deriva dallo studio nel quale la versione è stata registrata, l’April Base studio di Justin Vernon sito a Eau Claire, WI) e una chiamata DUMBO version (che ha visto la luce nel vecchio studio di Stevens a Brooklyn, NY): la prima è costruita appoggiando la voce su un banjo e accompagnandola con alcuni cori che fanno in effetti un po’ Boniver, la seconda, ancora più scarnificata, si regge invece tutta su un delicato arpeggio di chitarra. Diciamo che per il suo compleanno il buon Sufjan ha deciso di fare a noi un regalo, e noi non possiamo che ringraziarlo: due versioni ancora più intime e minimaliste di una canzone già splendida, dolorosa e profonda come poche altre cose che potrete ascoltare. Forse non estiva, ecco, ma anche no: ho sempre pensato all’estate come alla stagione più feroce di tutte, e poi il sole e la luce, per quanto belli, non sono comunque mai in grado di vincere la morte. We’re all gonna die, recita l’inciso di Fourth of July: una verità che forse è la cosa che più di ogni altra fa parte della nostra vita.

“Did you get enough love, my little dove?
Why do you cry?
And I’m sorry I left, but it was for the best
Though it never felt right
My little Versailles”

It was February 2020, and I was on tour in support of my new album Modern Johnny Sings: Songs in the Age of Vibe. It was the most ambitious tour of my life, and Brooklyn Steel was the biggest venue I’d ever played as a solo artist. I had a feeling that this show would be special, and decided ahead of time to record and film the concert, with the goal of capturing a live album and concert film. The stakes were high: what if something goes wrong? What if I lose my voice? What if I don’t “nail it”?

Nell’attesa che Modern Johnny, ovvero la reincarnazione in forma di chansonnier di Theo Katzman (del cui splendido disco Song in the Age of Vibe ho parlato a suo tempo qui), decida di tornare con un nuovo album, a Luglio è partito il crowdfunding su qrates per la pubblicazione di un live registrato il 21 Febbraio del 2020 al Brooklyn Steel (New Jersey, NY), giustamente intitolato Songs in the Age of Live. Il vinile in edizione limitata è accompagnato da un video live meraviglioso, che trovate qui sotto. Ovviamente un’occasione ghiottissima per riascoltare le splendide composizioni dell’ultimo disco (e non solo), o anche semplicemente per ammirare un manipolo di musicisti in totale stato di grazia, dallo stesso Katzman (voce paurosa, come di consueto) allo straordinario tastierista Lee Pardini (meraviglioso il piccolo solo jazzy col quale lega insieme la conclusione di Break Up Together e l’inizio di “Best”, tanto per dirne una), fino ovviamente a Sua Maestà Joe Dart, affiancato dal drumming preciso e implacabile di Jordan Rose in una sezione ritmica di potenza impressionante. Si potrebbe tagliare corto citando un commento che si trova in calce al video su YouTube, ovvero “imagine a live performance that sounds 100x better than an already perfect studio recording…”: e in effetti questo live è qualcosa che riconcilia con la bella musica (e Theo Katzman è un cantautore sensibile e assolutamente originale, con una scrittura fresca e allo stesso tempo (auto)ironica e riflessiva, profonda, con un bagaglio di ispirazioni e colori che pesca come sempre soprattutto dai suoi adorati Fleetwood Mac) per lo più suonata divinamente (cito soltanto la splendida versione di What Did You Mean (When You Said Love), che inizia con sola voce e accordi della chitarra suonati ruotando il potenziometro del volume, creando così un’atmosfera veramente incredibile, e si apre poi all’ingresso dell’intera band: inutile commentare oltre, ci siamo capiti).

I know there must be a place
Inside of me
where time stands still
an infinity
I haven’t found it yet, maybe i never will
but I’ll tretcher on, It’s a lifetime skill

Qui siamo di fronte a qualcosa di travolgente, ve lo preannuncio. Hohnen Ford (nome d’arte di Ella Hohnen-Ford: quando si dice nomen omen…) è una giovanissima cantante di jazz londinese e questa Infinity, licenziata per l’etichetta Young Poets, è uno di quei singoli che non si dimenticano: la voce di Hohnen Ford è qualcosa di speciale, che sembra provenire da una profonda distanza, eterea eppure caldissima, accompagnata unicamente dalle note sparpagliate di un pianoforte dai toni inconfondibilmente jazz. Il brano scivola delicatamente, accompagnato dalla voce: la tensione emotiva generata dalla voce di Hohnen Ford è enorme, uno stream of consciusness di rara potenza evocativa, e si scioglie in un turnaround conclusivo che è insieme un dolce ed enigmatico ritorno verso casa. Quello che colpisce è soprattutto la succitata portata emotiva del brano: Infinity unisce la grazia della jazz-ballad pianistica ad una vocalità che, a voler per forza trovare precedenti o ispirazioni, ricorda alcuni dei momenti più profondi di Joni Mitchell. Ma non fatevi traviare dalle similitudini: Infinity è il debutto assolutamente personale e originale di una voce giovanissima ma già di valore assoluto, della quale credo che sentiremo parlare spessissimo in futuro.

(english version) Now we are about to talk of something that is really huge, I warn you! Hohnen Ford (stage name of Ella Hohnen-Ford: when you say, “nomen omen”) is a very young London jazz singer and multi-instrumentalist, and this piece called Infinity, licensed by the Young Poets label, is one of those songs you would never want to stop listening to: the voice of Hohnen Ford is something really special, which seems to come from a deep distance, ethereal yet very warm, here accompanied only by the scattered notes of an unmistakably jazzy piano. Infinity slips delicately into mesmerizing vocal harmonies: the emotional tension generated by Hohnen Ford‘s voice is enormous, a stream of consciousness of rare evocative power, and melts into a final turnaround that is a sweet yet enigmatic sort of homecoming. What is most striking here is the aforementioned emotional significance of the piece: Infinity combines the grace of a piano jazz-ballad with a vocality that, if you want to find precedents or inspirations, recalls some of the deepest Joni Mitchell’s moments. But do not be misled by these few similarities: Infinity is the absolutely personal and original debut of a very young and talented artist, gifted with a voice of absolute value, and I think we will talk very often about Hohnen Ford’s music in the future.

Prosegue a gonfie vele la campagna che condurrà alla conclusione del crowdfunding per Here We Go Jack, sesto album della serie dei Vulf Vault, dedicato stavolta a Vulfmon aka il buon Jack Stratton. L’estratto di questa settimana è la title-track, Here We Go Jack, una ballad per chitarre strascicate e bassi corposi, con delle vibe che la fanno sembrare suonata un minuto dopo l’alba, con gli occhi ancora gonfi di sonno, e sulla quale abbiamo addirittura il piacere di ascoltare per la prima volta la voce sola dello stesso Stratton. Il buon Jack la presenta così: I’m finding my voice. Songs are the most important part of a song. I filmed an entire music video in reverse. I live like a dog. I eat from a bowl. Manco a dirlo, i commenti su YouTube si sprecano, concentrandosi sugli elementi più disparati: qualcuno si lancia sugli aspetti tecnici, “Crazy they got all these bicyclists to ride backwards for this video”; qualcun altro decide di accodarsi a una formula sempreverde, sottolineando come “I can’t believe Jack’s parents named him after this song”; in mezzo al profluvio di post inneggianti all’evidente e indiscutibile genio di Stratton, c’è anche chi decide di mettere una buona volta i puntini sulle i: “The song alone speaks for itself, but to memorize the timing and phonetics in reverse is impressive to say the least, Jack. Jack Go We Here”. Insomma, come al solito con tutto ciò che riguarda l’universo Vulfpeck, anche lungo questi quattro minuti la barriera tra l’Arte e il Web si incrina pericolosamente, facendo tracimare la vita vera dentro questi suoni insoliti (oserei dire inattesi), accompagnati da una voce ancora più strana e inaspettata, eppure meravigliosamente adatta ad accompagnare il brano. Chissà se e quando i Vulfpeck daranno alle stampe un seguito di The Joy of Music, The Job of Real Estate, ma quel che è certo è che Vulfmon è un altro progetto che meriterebbe ulteriore, fecondo sviluppo: le premesse, del resto, lasciano già a bocca aperta. Ah già, quasi dimenticavo: chiaramente il video non è in reverse, ma le espressioni facciali di Stratton sì; d’altra parte, un Genio può questo e altro.

Chiudiamo Luglio con Bet, che è il secondo singolo estratto dal prossimo disco degli Snarky Puppy, Empire Central, in uscita il prossimo Settembre per GroundUp Music. Bet segue a ruota il primo estratto, Trinity, del quale parlavamo nel Round-Up del mese scorso: composto dal buon Michael League, Bet ha il classico sound fusion che è un marchio di fabbrica dell’ensemble americano, con un basso profondissimo a scavare le fondamenta ritmiche sulle quali i fiati (e il terzetto di chitarre) costruiscono e propongono il tema, e arricchito da due strepitosi soli del sax tenore di Bob Reynolds prima e della combo Moog + Talkbox dell’ineffabile Shaun Martin dopo. Pura energia, e tantissima carne al fuoco: come sempre, la cura maniacale del dettaglio negli arrangiamenti produce un’esperienza sonora di livello superiore, nel quale anche la tecnica degli strumentisti (sopraffina, chiaramente) si mette completamente al servizio della Musica. Bet rappresenta a buon titolo il congedo migliore possibile per il mese di luglio appena concluso, nell’attesa che giunga Settembre e porti con sé (tra le altre cose, alcune anche meno affascinanti, almeno a guardarle con gli occhi di chi, come me, deve ancora prendersi le ferie…) anche Empire Central.

(una nota a margine) Il verso che dà il titolo a questo Round-Up viene da una poesia della poetessa americana Susan Hartley Swett (1843-1907), intitolata July. La potete leggere comodamente cliccando qui, ma ve la lascio anche qua sotto nel caso il caldo e gli scroll necessari ad arrivare alla fine di questo post vi avessero reso estremamente sgradita anche soltanto l’idea di fare un altro click col mouse.

When the scarlet cardinal tells
Her dream to the dragon fly,
And the lazy breeze makes a nest in the trees,
And murmurs a lullaby,
It is July.

When the tangled cobweb pulls
The cornflower’s cap awry,
And the lilies tall lean over the wall
To bow to the butterfly,
It is July.

When the heat like a mist veil floats,
And poppies flame in the rye,
And the silver note in the streamlet’s throat
Has softened almost to a sigh,
It is July.

When the hours are so still that time
Forgets them, and lets them lie
‘Neath petals pink till the night stars wink
At the sunset in the sky,
It is July.

When each finger-post by the way
Says that Slumbertown is nigh;
When the grass is tall, and the roses fall,
And nobody wonders why,
It is July.

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