Viaggio a Tokyo: Perfect Days (Wim Wenders, 2023, v.o. sott. ita)

Secondo film di Wim Wenders presentato all’edizione 2023 del Festival del Cinema di Cannes, e secondo ad essere proiettato in anteprima in versione originale sottotitolata in italiano nell’ambito della rassegna Cannes mon amour promossa da Circuito Cinema, Perfect Days segna il ritorno del cineasta di Düsseldorf al cinema di finzione a sei anni da Submergence (2017) e, per chi scrive, la seconda volta assoluta di una visione di un film contemporaneo di Wenders al cinema (la prima volta risale ormai oltre 23 anni fa, quando vidi al cinema il mio adorato The Million Dollar Hotel), prima cioè che per trovare una sala che proiettasse le opere del cineasta tedesco diventasse necessario imbastire ogni volta una piccola caccia al tesoro. Così come era accaduto per Anselm- Das Rauschen der Zeit (ne parlavo giusto pochi giorni fa), ho avuto il piacere di vedere il film presso il Cinema Fiorella di Firenze: si è trattato di una proiezione decisamente più affollata rispetto a quella del documentario su Anselm Kiefer, presenti in sala quasi cinquanta persone (lo so, sono numeri che fanno sorridere anche se dovrebbero soprattutto far riflettere, ma fare cinema di qualità ai tempi dello streaming imperversante e del disamore paralizzante verso la Settima Arte non è facile per nessuno). Comincio col dire che Perfect Days, che a Cannes era presentato nella selezione dei film in concorso, dalla Croisette è tornato con la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile, assegnata allo straordinario attore protagonista Kōji Yakusho e con il premio della Giuria Ecumenica. Si tratta per Wenders del ritorno (dichiarato) a un antico amore, il cinema nipponico e in particolare l’opera dell’adorato cineasta Yasujirō Ozu, primo riferimento per moltissime delle visioni che hanno attraversato il cinema del buon Wim: il film è stato realizzato con un cast interamente giapponese, e il giapponese ne è la lingua originale, in uno sforzo di mimesi che si riverbera anche nelle scelte di fotografia (Perfect Days, non mancherete di notarlo fin dal primissimo fotogramma, è girato in un bellissimo quanto ormai desueto formato 4:3, con la camera che “si stringe” delicatamente attorno ai personaggi: e parliamo solo del dettaglio più evidente, senza entrare nel dettaglio della composizione dell’immagine). Un ritorno a un antico amore, come dicevo poco fa: sin dai tempi del meraviglioso documentario Tokyo-Ga (letteralmente “immagini di Tokyo”: il documentario, realizzato nel 1983 durante una pausa della lavorazione di Paris, Texas, venne sottoposto a montaggio e infine distribuito nel 1985), una bella parte della ricerca “estetica” di Wenders, comune a quella di molti altri protagonisti del Nuovo Cinema Tedesco, era rivolta all’idea della cosiddetta “immagine pura”, alla sua reale possibilità o, viceversa, all’impossibilità di fermarla su pellicola. In un frammento particolarmente illuminante di Tokyo-Ga, Wenders incontra l’amico Werner Herzog in cima alla Tokyo Tower: lì l’autore di Fitzcarraldo racconta con assoluta chiarezza la propria visione dell’immagine filmica, e spiega come questa “purezza” della quale Wenders è in cerca non possa più essere trovata laddove l’uomo abbia stabilito la propria dimora e l’immagine sia in qualche modo già stata mercificata come in queste rutilanti megalopoli, dove tutto è già stato visto e, soprattutto, è drammaticamente esposto di modo da non poter assolutamente non essere notato; ma questa purezza la si debba invece cercare in luoghi ancora non visti, nuovi, completamente innocenti, non visitati, primordiali, nei quali in sostanza la visione ordinatrice dell’uomo contemporaneo non sia ancora arrivata a stabilire una norma. La definizione del punto di vista herzoghiano, cineasta dalla poetica prometeica, come la definisce correttamente ed efficacemente Fabrizio Grosoli nella sua monografia dedicata all’autore di Aguirre (Werner Herzog, ed. Il Castoro Cinema), è assolutamente necessaria a Wenders per rimarcare il proprio punto di vista sulla questione, che si lega indissolubilmente a questioni di umanesimo e alla ricerca di una purezza nella visione umana: dopo questa conversazione, Wenders si ributta infatti a capofitto nel trambusto della grande metropoli, in cerca di quella stessa purezza e verità che ha potuto ammirare nel cinema e nei fotogrammi di Ozu, nume tutelare sulle cui tracce si snoda in generale l’attenzione dell’autore nel corso della propria intera carriera cinematografica e, in particolare, il percorso principale dell’opera in questione, Tokyo-Ga, costruita proprio su una serie di interviste ad alcuni degli storici collaboratori del cineasta giapponese, come l’attore Chishū Ryū o il direttore della fotografia Yuharu Atsuta, poste di fianco alle succitate riflessioni sull’immagine e il suo ruolo nelle nostre società tecnologicamente avanzate. L’amore per la poetica filmica e l’estetica di Ozu era esploso in Wenders nel periodo immediatamente successivo all’uscita del suo primo lungometraggio, Die Angst des Tormanns beim Elfmeter (Prima del calcio di rigore, realizzato a partire da un meraviglioso libro di Peter Handke, edito in Italia da Feltrinelli e che vi consiglio fortemente di leggere nel caso non l’aveste ancora fatto): per il regista tedesco infatti più che di recuperare immagini romanticamente e titanicamente (herzoghianamente) inedite, si tratta di tornare a “uno sguardo inedito sul mondo, che combini la visione del bambino e quella dell’adulto, la curiosità e la consapevolezza. Forse lo sguardo di un angelo”, come scrive Filippo D’Angelo nella sua monografia dedicata a Wenders (Wim Wenders, ed. Il Castoro Cinema, pag. 121), o anche “uno sguardo capace […] di dare ordine e trasparenza al mondo” (ibidem, pag. 120).

“Per quel che riguarda il narrare una storia, il linguaggio del cinema americano è tuttora valido. Ma l’importanza di Ozu, per me – dopo Die Angst, penso – sta nel constatare come qualcuno, il cui cinema si era completamente sviluppato da quello americano, avesse nondimeno saputo trasformarlo in una visione completamente personale. Così posso ben dire che è stato Ozu ad aiutarmi, a mostrarmi che era possibile aver subito colonizzazione, imperialismo, tanto da averne accettato il linguaggio. Intendo dire che per me non c’è altro linguaggio filmico di quello… non sono nemmeno tanto sicuro che si possa chiamarlo americano, ma se non altro è stato inventato in America […] ricordo ancora che, mentre giravo [Die Angst], rifiutavo nel modo più assoluto qualsiasi idea di una spiegazione psicologica di alcunché. In tal senso, già si trattava di una rottura col cinema americano. Del resto, è stato proprio questo uno dei conflitti ad ogni inquadratura: se spiegare o no qualcosa. Ed ecco perché ho ammirato tanto Ozu quando, dopo Die Angst, ho visto per la prima volta i suoi film. Ho capito che, in un certo senso, avevo visto giusto: giusto nel rifiutare di spiegare le cose, e che è possibile spiegarle più che bene solo mostrandole. […] È appunto per questo che Ozu è il solo regista da cui ho imparato. Il suo modo di raccontare una storia era, nel senso più assoluto, in funzione della rappresentazione. Era questa la mia idea del cinema, e improvvisamente ho scoperto di avere una tradizione alle spalle.” (Wim Wenders, Toronto 1976; come riportata in Filippo D’Angelo, Wim Wenders, ed. Il Castoro Cinema, pag. 7)

Nel restare fedele a un’idea di semplicità della messinscena che attinge a piene mani dallo stile del maestro Ozu, Wenders mette in scena undici giorni consecutivi nella vita del suo protagonista, il silenzioso Hirayama (appunto il già citato Kōji Yakusho), e il racconto si conclude all’alba del dodicesimo giorno. Hirayama è un uomo di età imprecisata, probabilmente prossimo ai sessant’anni, che per lavoro pulisce le toilette pubbliche di Tokyo, gestite dalla municipalità, e vive da solo in una piccola casa di periferia, conformandosi a una stringente routine quotidiana: apre gli occhi ogni mattina mentre avviene la pulizia delle strade sotto casa, rimette in ordine il suo futon, si lava i denti, si rade, spunta i propri baffi, e si prepara per il giro quotidiano per la pulizia dei bagni pubblici. Esce di casa osservando il tempo, poi prende un caffè in lattina al distributore automatico sotto casa, sale sul suo furgone e si mette in strada accompagnato dall’amata musica rock (principalmente anni ’60 e ’70) riprodotta rigorosamente tramite audiocassetta. Le giornate di Hirayama si susseguono tutte uguali, ma tutte leggermente diverse (come quelle di ciascuno di noi): a volte l’uomo, dopo il lavoro, prende la bicicletta e va ai bagni pubblici per rilassarsi, oppure cena in un ristorante all’interno di una stazione della metropolitana o, talvolta, nel suo ristorante preferito, gestito da una donna, Mama (Sayuri Ishikawa), per la quale sembra provare qualche interesse sentimentale. Ogni giorno Hirayama scatta anche una fotografia alla natura, tipicamente durante la propria pausa pranzo, che trascorre in un giardino shintoista nel cuore della città; ama inoltre dedicarsi alla coltivazione di piante, piccoli arbusti che raccoglie durante la giornata, ed è soprattutto un avido lettore, e legge ogni sera prima di cadere addormentato, a volte strappando anche qualche ora al sonno per immergersi nella lettura. La domenica Hirayama fa il bucato, va a ritirare le fotografie della settimana precedente e lascia a sviluppare il rullino dell’ultima settimana, e si reca poi in una libreria dell’usato, dove sceglie un nuovo titolo da aggiungere alla propria libreria. Tornato a casa, visiona le fotografie sviluppate e seleziona solo quelle venute bene, strappando e gettando le altre. La sua casa, ordinatissima, è dominata da una libreria nella quale raccoglie i volumi e le audiocassette, e da un archivio nel quale trovano spazio le fotografie scattate ogni giorno.
Le (poche) interazioni di Hirayama col mondo esterno avvengono sempre in maniera estremamente motivata: c’è il rapporto bonario con l’apprendista Takashi (
Tokio Emoto), giovane guascone con pochissima voglia di lavorare e altrettanta poca empatia, totalmente preso dai suoi problemi sentimentali con la giovane e bellissima Aya (Aoi Yamada); c’è il ragazzo affetto da sindrome di down amico di Takashi, del quale era compagno di scuola, che resta ferito quando il giovane non si presenta più nelle toilette, l’unico posto dove riusciva ad incontrarlo, perché ha scelto di abbandonare il lavoro, lasciando Hirayama in enorme difficoltà a dover coprire due turni invece di uno per alcuni giorni; c’è la stessa Aya, che si affeziona a quest’uomo silenzioso e rassicurante che le fa conoscere la musica di Patti Smith e che non ha idea di cosa sia Spotify; c’è lo strano senzatetto interpretato da Min Tanaka col quale Hirayama intrattiene un rapporto che è completamente privo di parole, fatto solo di sguardi di intesa e mutua comprensione; c’è la giovanissima nipote Niko (Arisa Nakano), che irrompe nella vita dell’uomo dopo essere scappata di casa a seguito di un litigio con la madre, la sorella di Hirayama, Keiko (Yumi Aso), con la quale i rapporti dell’uomo sono a dir poco freddi a causa di screzi non meglio definiti; ci sono il titolare del ristorante nella metropolitana che gli offre da bere ogni volta “dopo una dura giornata di lavoro”, e Mama, la titolare del ristorante preferito di Hirayama, che canta canzoni rock americane tradotte in giapponese e per la quale, come detto, Hirayama sembra provare un sentimento amoroso di qualche tipo, al punto che quando l’ex-marito (Tomokazu Miura) la raggiungerà per parlarle della sua malattia e darle un ultimo saluto Hirayama, in un impeto misto di gelosia e imbarazzo, preferirà correre via vergognandosi dei propri sentimenti come avesse ricevuto un rifiuto; e infine c’è il misterioso personaggio col quale Hirayama intraprende una partita a tris attraverso un bigliettino lasciato in un’intercapedine di una delle toilette che l’uomo pulisce ogni giorno, un compagno di giochi che non ha nome né volto e che pur tuttavia diviene una delle interazioni umane più significative per il protagonista.
Niente cambia nella vita di Hirayama lungo gli undici giorni mostrati nel film eppure tutto, impercettibilmente, si modifica:
Perfect Days annulla programmaticamente ogni sovrastruttura diegetica, negando l’idea stessa che una storia debba essere raccontata come successione vorticante di eventi, e preferendo mostrare il tempo che scorre nella sua uniformità, con tutte le sue ripetizioni, con qualsiasi possibile schema che emerge soltanto dal suo svolgersi totalmente casuale. A scandire il trapasso di un giorno nel successivo sono i sogni dell’uomo, visioni oniriche realizzate da Wenders col contributo della moglie Donata Wenders, piccoli intermezzi in bianco e nero che pescano tanto dall’estetica di Ozu quanto da ciò che all’uomo è accaduto durante il giorno, frammenti di natura (gli amati alberi, i cieli sopra la città) e di umanità (volti, dettagli come occhi o mani).

Se pure l’esempio di Ozu resta giocoforza irraggiungibile, come se il cineasta giapponese fosse “qualcuno che usa le nostre stesse parole ma in maniera differente” (definizione che nel film viene usata per l’opera della scrittrice giapponese Aya Kōda, della quale Hirayama compra un libro durante una domenica), Wenders persegue lungo tutto il racconto la volontà feroce di ridurre all’osso ogni orpello, asciugando ogni inquadratura e riducendola alla sua essenza, così da presentare nel materiale filmico qualcosa che assomigli davvero allo svolgimento di una “vita reale”: lo fa però ovviamente con i mezzi del cinema, quindi operando già una falsificazione (mettendo in scena la vita, cioè, perché non ci si può semplicemente limitare a mostrarla per come essa avviene: un meccanismo che è il limite e la forza stessa della rappresentazione e del quale Wenders è come ovvio totalmente consapevole), ma gli interventi extra sono talmente limitati che molto spesso l’incedere di Perfect Days si confonde in maniera efficace (e autenticamente commovente) con quella delle nostre comuni esistenze. Ovviamente il regista non rinuncia a dare una carezza al suo personaggio, a presentarcelo con tutta la delicatezza che il suo status di uomo evidentemente buono merita: la scelta del 4:3, di cui parlavo all’inizio, non è in questo senso affatto casuale (ed è significativa anche in rapporto al ritorno di questo formato cui stiamo sempre più spesso assistendo nel cinema contemporaneo, con esiti estremamente interessanti: del fenomeno si dava conto con qualche esempio anche in questo articolo), ma permette a Wenders di racchiudere l’immagine e i suoi protagonisti in un abbraccio visivo molto più stretto, tenendo tutto più vicino, e conferendo un calore diverso alla sua inquadratura. Il confinamento dell’immagine entro i limiti del formato sortisce così l’effetto di portare i personaggi vicini allo spettatore, concentrando efficacemente l’attenzione sui volti, sui dettagli dei corpi, sul loro modo di rapportarsi all’ambiente. Se ci fate caso, dentro l’immagine entrano sempre o dettagli, o primi piani, o il corpo intero dei protagonisti, e dell’immagine questo corpo è sempre il punto di fuga: l’uomo al centro del racconto, che poi è la vita di un uomo come tanti; l’uomo come interesse ultimo, in una sorta di nuovo umanesimo estetico. In questo voler raccontare la pienezza della vita di Hirayama anche solo attraverso i suoi movimenti o le sue espressioni, viene in soccorso a Wenders la straordinaria interpretazione fornita da Kōji Yakusho, cui bastano davvero poche contrazioni impercettibili dei muscoli facciali per cambiare completamente il senso di un’inquadratura, un’abilità attoriale fondamentale per dare vita a un personaggio che recita la prima battuta solo dopo mezz’ora abbondante di proiezione. Non soltanto il volto di Hirayama, però: il suo sguardo unisce quella consapevolezza dell’adulto e quella curiosità del bambino di cui parlava D’Angelo nella monografia citata poc’anzi, e ne fa così un personaggio in tutto e per tutto simile agli angeli de Il Cielo Sopra Berlino. In qualche modo, infatti, Hirayama svolge per Tokyo la funzione che Damiel e Cassiel svolgevano per Berlino, solo da due prospettive differenti: una prospettiva elevata, superiore, per i due angeli, e la prospettiva di chi invece vive nel flusso del tempo per Hirayama. Ecco, in qualche misura il passato nebuloso dell’uomo potrebbe far pensare che egli altri non sia che un altro angelo che ha scelto di cadere sulla Terra, dentro il nostro tempo: sebbene questa sia forse una speculazione troppo forte, quel che è certo è che Hirayama è un uomo ancora capace di emozionarsi per un incontro, di provare dei sentimenti forti ai quali a volte è difficile dare un nome, di ritagliarsi un ruolo per le persone che lo circondano (siano esse una nipotina che lo adora o un sottoposto simpaticamente vagabondo che ha evidente bisogno di una figura di riferimento). Ed è (anche) un uomo fortissimamente e irriducibilmente non-tecnologico: non ha un computer, scatta solo fotografie in analogico, il suo cellulare è un vecchissimo modello attraverso il quale fa solo ed esclusivamente chiamate, non ha mai sentito parlare di Spotify e usa solo e soltanto audiocassette che nessuno dei giovani che trasporta nel suo furgoncino (la nipote Niko, ma nemmeno Aya e Takashi) è in grado di inserire correttamente nel mangianastri.

Hirayama (come fosse una specie un alter ego del regista) compie di fatto dentro il materiale filmico quello stesso percorso che Wenders sceglieva di compiere dall’esterno, fuori dall’inquadratura, in Tokyo-Ga, gettandosi autenticamente dentro la città, e in questo la sua figura assume anche i contorni della metafora di una ricerca dell’immagine, in ultima analisi proprio la ricerca che Wenders ha scelto di compiere con la sua opera. Ciò nondimeno accanto alla figura di Hirayama, che ne è insieme protagonista e medium, l’altro grande polo attrattore dell’opera è proprio la città di Tokyo, altro luogo dell’anima per Wenders così come lo sono state in tempi diversi e differenti combinazioni geografiche Lisbona, Berlino, l’Australia, Palermo o il paesaggio desertico degli Stati Uniti: Tokyo che non è più (se non in parte) la metropoli rutilante e sgargiante ammirata proprio in Tokyo-Ga, ancora visibile come in filigrana forse soltanto nei piani lunghi dall’alto che la immortalano all’alba o al tramonto, quando le sue milioni di luci si accendono contro la notte azzurrina che avanza; ma è soprattutto luogo di quotidianità, di spazi intimi e famigliari, e anche rappresentazione metaforica della monotonia dei giorni che trascorrono. Un protagonista invisibile del film è infatti anche la noia, quella sensazione della quale tutti quanti facciamo autenticamente esperienza per la maggior parte del nostro tempo, forse la sensazione che proviamo (o provavamo) più spesso: provate a pensarci, se non lo avete mai fatto. La noia, che era al centro (tanto per dirne una) dell’ultimo grande romanzo incompiuto di David Foster Wallace, The Pale King, è anche quella cosa dalla quale la corsa a perdifiato della tecnologia nella nostra società dell’intrattenimento sembra volerci ad ogni costo proteggere, impedendoci di assaporarla. Eppure è proprio in quella che noi chiameremmo noia, negli interstizi vuoti che collegano i (pochi) fatti sparsi della vita, che Hirayama costruisce il proprio più autentico movimento, la propria vita interiore più vera: in essa egli coltiva la passione per la fotografia, raccogliendo gli scatti delle fronde degli amati alberi nel parco, durante la pausa pranzo; e quel tempo apparentemente senza scopo egli lo spende a osservare, guardarsi intorno, costruire intimità con luoghi e figure (come il senzatetto che sembra quasi il giro delle toilette da pulire).

Data la palese identificazione di Wenders col suo protagonista (a partire dalla scelta della colonna sonora, testimonianza dell’amore di Hirayama per quella stessa musica che Wenders ha sempre amato, che si potrebbe “trasversalmente” definire rock e che il regista sostiene da sempre gli abbia “salvato la vita”: da Lou Reed a Patti Smith, dai Kinks a Otis Redding, da Nina Simone agli Animals), Perfect Days è significativo anche in rapporto ad Anselm: se infatti in quest’opera il buon Wim riduce all’osso i movimenti e l’invasività della camera perché essa non sia un disturbo ma possa semplicemente seguire la storia dal punto di vista del suo autore interno, Hirayama, preferendo concentrarsi su un’attenta composizione del fotogramma (specialmente in relazione alla posizione in esso occupata dal protagonista, alla scelta del campo/controcampo come forma privilegiata per trattare il dialogo tra i personaggi quando essi siano distanti, all’uso sapiente del colore) nel documentario su Kiefer il regista sceglieva una prospettiva opposta (anche se con finalità similari, ovvero avvicinare alla storia e ai suoi personaggi), immersiva, garantita dalla tecnologia 3D, votandosi quindi alla sperimentazione piuttosto che all’asciutta semplicità. Da una parte quindi il rifiuto della tecnologia, dall’altra la prima linea della tecnica: e Wenders è sempre stato un regista sperimentale, fin dagli esordi e in modo fortemente evidente in opere come Fino alla Fine del Mondo, soprattutto in quanto regista di cinema sul cinema, meta-film che non hanno mai smesso di riflettere sul senso, i tempi e i modi dell’immagine cinematografica, una sovrastruttura che inevitabilmente allontana l’immagine dalla sua immediatezza per restituirci una riflessione sul mezzo stesso, l’immagine in movimento, una ricerca che proprio sul senso del Cinema ha percorso (e continua a percorrere) buona parte della propria strada. Ed è significativo come anche in quest’ottica non manchino le sorprese, perché contrariamente a quanto si potrebbe a questo punto pensare Perfect Days non è girato su pellicola ma in digitale: in fondo, è (anche) di apparenti contraddizioni come questa che il film si nutre.

Pure in questo paradosso (che tuttavia a ben guardare paradosso non è), Perfect Days riesce comunque a inanellare una sequenza di immagini che si avvicinano dannatamente all’idea di purezza vagheggiata dal loro autore. Non sorprende che “noi che volevamo essere semplici, non potemmo esercitare la semplicità”, tanto per storpiare Brecht: ovvero, non si può raccontare una storia semplice senza farlo programmaticamente, quindi senza in un certo modo “costruirla”. Wenders si prende cura di queste immagini con ammirevole dedizione e riesce a farne un racconto, tenendole vicine agli occhi e al cuore dello spettatore, costruendo allo stesso tempo quell’utopica e vagheggiata immediatezza nelle pieghe della storia: perché questo orizzonte ideale di purezza è un qualcosa di cui, davvero, il Cinema (non soltanto il suo, ma il nostro) non può fare a meno. È significativo che Perfect Days si chiuda su un primo piano del suo straordinario protagonista, che all’alba del dodicesimo giorno percorre le strade della città diretto al proprio lavoro. Sul volto di Hirayama, segnato dal sole che sorge, si alternano il riso, la pace, il dolore, le lacrime, in una parola la vita, accompagnati dalla voce senza tempo di Nina Simone che canta la sua Feeling Good; la vita che è fatta di molti tradimenti, quelli che l’uomo deve aver patito (le poche cose che impariamo di lui le conosciamo attraverso i suoi incroci con gli altri personaggi, e così veniamo a conoscenza di una nipote che non vedeva da anni, di una sorella con la quale non parla e che del fratello si vergogna in qualche modo per la vita semplice e dimessa che ha scelto di fare, di un padre col quale non ha più alcun rapporto), di piccole gioie, tutta quella successione di momenti che la formano, le loro continue ripetizioni, sempre tutte uguali e allo stesso tempo tutte diverse tra loro che danno forma a undici giorni perfetti, ciascuno a suo modo. Hirayama è insieme la tela e la tavolozza, il disegno e il colore; come in Anselm, quel Malen che unisce Erde e Himmel, un ponte, ma anche il Malerin, il suo sguardo lo sguardo di Wenders e insieme il nostro. È uno sguardo consapevole, gonfio di pietas; ed è anche uno sguardo curioso, capace di farsi domande, desideroso di farsi domande. Sommando due ombre, si chiedono Hirayama e l’ex marito di Mama, il colore che ne risulta è più scuro o è lo stesso che avrebbe per un’ombra soltanto? Apparentemente un’ombra è solo un’ombra, e non cambia se ne sommi più di una, perché di fatto essa emerge opponendosi alla luce: così hanno luogo la scoperta e il gioco, Als das Kind Kind war, e si ripristina quell’effetto “prima visione delle cose” che poi altro non è che la capacità di osservarle con stupore e senso della meraviglia. Forse non è possibile restituire oggi, nel nostro mondo, la complicatissima eppure fatalmente semplice visione di Ozu, per quanto ci si sforzi di rincorrerne il rigore stilistico e geometrico, l’uso sapiente degli spazi dentro l’inquadratura, il calore estatico che trasuda dall’immagine quotidiana; ma non per questo, sembra dirci Wenders, possiamo permetterci di smettere di inseguire quella purezza. Come dicevo poc’anzi, è questa la posizione utopica che Perfect Days, lungo un’ora e mezzo autenticamente commovente, sceglie di difendere. E anche scegliere di difendere questa posizione è una presa di posizione che conta ed ha un enorme peso specifico in un mondo sepolto sotto terabyte di immagini morte, tutte uguali, insignificanti, ripetitive: riappropriarsi della Visione e, attraverso quella, dell’Uomo e del senso dell’Umanità. E scusate se è poco.

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