August Round-Up: Ogni cosa riemersa

Una volta concluso il crowdfunding su qrates, è stato infine dato alle stampe Here We Go Jack, sesto album della serie dei Vulf Vault licenziata dai Vulfpeck e relativo all’opera del loro deus ex-machina Jack Stratton, qui sotto le mentite spoglie di Vulfmon. Per salutare il superamento del traguardo delle 5000 copie prenotate (e la conclusione della campagna) Stratton/Vulfmon ha condiviso l’ultimo brano estratto, Rutgers: trattasi di un funk strumentale ciccionissimo, puro groove costruito su una linea di basso monstre e sugli svolazzi dei synth e accompagnato da un bizzarro (ed esilarante) videoclip incentrato sul concetto di monetizzazione (e su quello di insegnarvi a ballare il pezzo, ovviamente): come chiosa qualcuno nei commenti, “So, how did you fall for the Ponzi scheme?”, “Well… there was this funky grove… and this dance… and he told me to monetize…” In pochi ci sanno fare come Stratton, e nell’attesa che io vi parli dell’album per intero (pazientate ancora un po’), intanto godetevi questo!

Il 16 settembre tornano i Mars Volta: la band texana composta da Omar Rodríguez-López e Cedric Bixler-Zavala ha deciso di presentare il nuovo album The Mars Volta, primo lavoro dopo Noctourniquet del 2012 e uno iato protrattosi per un decennio, condividendo lo scorso 5 agosto il singolo Vigil. Come accaduto a molti altri gruppo assimilabili all’epopea del prog, l’evoluzione del sound del duo di El Paso, accompagnato oggi da Eva Gardner al basso, Marcel Rodríguez-López a synth e tastiere e Willy Rodriguez Quiñones alla batteria, sembra andare verso un pop-rock raffinatissimo, portando cioè nell’accessibilità pop tutti quegli elementi che fanno del prog il genere che da sempre è (gusto per la contaminazione, ricercatezza nell’esecuzione, uso di ritmi e poliritmi complessi, e più in generale un’incessante ricerca sonora). Vigil, come anche il secondo singolo Blacklight Shine, incarna perfettamente questo nuovo corso: Vigil è un brano che è piacevolissimo ascoltare, scritto bene e suonato meglio, privo delle asprezze soniche che caratterizzavano un lavoro come De-Loused in the Comatorium, il debutto della band (correva l’anno 2003, e su questi schermi andava in onda la meglio gioventù… ma gli anni passano per tutti, mica solo per me) e forse anche di una certa “tracotanza” intellettuale, eppure non meno interessante da ascoltare. Un bellissimo biglietto da visita e un ottimo passo d’inizio per un piacevole ritorno.

Midnight in Carlotta’s Hair è un brano scritto dal grande Wayne Shorter nel 1995 e incluso nell’album High Five uscito lo stesso anno (premiato col Grammy nel 1996 nella categoria Best Contemporary Jazz Performance), realizzato con una band formidabile (cito solo un certo Marcus Miller al basso, Airto Moreira e Lenny Castro alle percussioni e il batterista dei Living Colour, Will Calhoun, alle pelli). Il prossimo 9 settembre Shorter darà alle stampe Live at the Detroit Jazz Festival, incisione che testimonia di una storica esibizione live tenutasi appunto a Detroit il 3 settembre del 2017, un evento speciale che ha visto il leggendario sassofonista esibirsi con un quartetto decisamente speciale, comprendente la divina Esperanza Spalding (contrabbasso e voce), Leo Genovese (piano) e Terri Lyne Carrington (batteria). Quello che ne è uscito è un doppio vinile, quattro facciate che comprendono anche una riproposizione di Midnight in Carlotta’s Hair scandita dal duetto tra la voce della Spalding e il sassofono di Shorter, che si inseguono lungo la melodia del brano e gli interventi solisti, accompagnati dal drumming preciso ed espressivo di Carrington e dal pianismo sobrio e delicato di Genovese, sostenuti dal groove incalzante del contrabbasso suonato ancora dalla Spalding. Considerato che Shorter si è ormai ritirato dalle scene (almeno dal punto di vista delle esibizioni dal vivo, perché per il resto è tutt’altro che inattivo: ha scritto un’opera, Iphigenia, col contributo della stessa Spalding, e ha recentemente partecipato pure all’ultimo disco della contrabbassista e cantante americana, Songwright’s Apothecary Lab, di cui parlavamo qualche mese fa), questa lussuosa rilettura di un classico del repertorio del grande Maestro costituisce uno splendido biglietto da visita per un disco che potrebbe rimanere l’ultima testimonianza del suono live di uno dei grandissimi della storia del jazz.

Send me a sign è il secondo singolo che precede il primo EP di Ella Hohnen-Ford, semplicemente Hohnen Ford, che sarà pubblicato dall’etichetta Young Poets: di Infinity, il suo primo, strepitoso singolo, avevamo parlato giusto il mese scorso. Send me a sign conferma quanto detto del lavoro dell’artista londinese: le inflessioni delicatamente jazz della voce di Hohnen Ford accompagnano un brano che affonda le proprie radici tanto nella ballad jazz (per le scelte armoniche, in particolare le meravigliose sequenze di accordi che accompagnano i ritornelli) quanto nel miglior pop pianistico (per l’accessibilità e l’abbacinante, semplice e fuor di retorica avvincente bellezza delle melodie). Mi viene da dire che la scrittura di Hohnen Ford e la sua incredibile voce possano essere una brillante chiave di accesso al magico luogo che lega insieme la ricercatezza armonica del jazz e l’accessibilità melodica del miglior pop, confezionando un prodotto di valore assoluto: a costo di ripetermi, vi dico nuovamente che dovreste tenere d’occhio quest’artista, perché ne sentirete parlare parecchio. Ah, e ovviamente (ma che ve lo dico fare: ascoltate da soli!), Hohnen Ford ha una delle voci più belle che mi sia capitato di ascoltare in tempi recenti.

(english version) Send me a sign is the second single preceding Ella Hohnen-Ford‘s first EP, licensed simply under the moniker of Hohnen Ford. The EP will be released under the Young Poets label: last month we talked about her first, amazing single Infinity. Send me a sign confirms what I already said about the London artist: the delicately jazzy inflections of Hohnen Ford‘s voice accompany a piece that has its roots both in jazz ballad (for the harmonic choices, in particular the wonderful chord sequences that accompany the refrains) as well as in the best piano-driven pop music (for the accessibility and the dazzling, simple and, out of any rhetoric, captivating beauty of the melodic lines). I firmly believe that Hohnen Ford‘s writing, playing and singing represent a brilliant and fascinating access key to that magical place where the harmonic richness of jazz and the melodic accessibility of the best pop are held together in songs of astonishingly high value: I don’t mind to repeat myself, I suggest you again to keep an eye on this artist, because you won’t certainly be disappointed. Ah, and of course she has one of the most beautiful voices I’ve heard in recent times.

Del lavoro di Verskotzi, al secolo Joey Verstkotzi, musicista losangelino d’adozione, ho parlato svariate volte negli ultimi tempi: si può dire che lo segua con particolare attenzione, sia per le sue abilità come songwriter che per le scelte compositive e l’assoluta qualità dei collaboratori di cui si circonda (un nome su tutti, Ian Martin Allison). Lo scorso 19 agosto, Verskotzi è tornato con un nuovo singolo, She’s so good: un piccolo brano elettrodance, con un testo che ruota attorno al senso religioso (“SHE’S SO GOOD cracks open some questions about who/what God is and I try to shine light on the underlying principle of all religions”). Se vi sembra ambizioso, lo è: ma d’altro canto quando la tua musica ha tutte queste massicce sfumature di elettro-soul e r’n’b che caratterizzano la modernissima proposta artistica di Verskotzi, nessun obiettivo è da considerarsi troppo ambizioso.

(english version) Recently, I have talked several times about Verskotzi‘s work: born Joey Verstkotzi, he is a Los Angeles musician and producer that I’m following with particular attention, both for his skills as a songwriter, for the quality of his compositions and, also, for the absolute level of the collaborators he surrounds himself with (one name above all, the great Ian Martin Allison). On August 19th, Verskotzi returned with a new single, She’s so good: a small electro-dance song, with a text that reflects about the religious sense (“SHE’S SO GOOD cracks open some question about who / what God is and I try to illuminate the principle underlying all religions”). If it sounds ambitious to you, it is: but, on the other hand, when your music is capable of condensing in just over three minutes all these massive shades of electro-soul and beautiful, haunting r’n’b as Verskotzi’s can definitely do, no goal has to be regarded as too ambitious.

Prosegue la riedizione e ristampa dei seminali cinque lavori realizzati da Alva Noto (aka Carsten Nicolai) e Ryuichi Sakamoto tra il 2002 e il 2011 e raccolti nella serie V.I.R.U.S. Se si dovesse cercare un trait d’union tra i cinque album della serie (Vrion, Insen, Revep, Utp_ e Summvs), questo starebbe senz’altro nella volontà di sposare due universi musicali apparentemente (e superficialmente) quasi antitetici eppure pronti a fecondarsi efficacemente tra loro: il pianismo romantico, delicato e minimale che da sempre caratterizza la musica di Sakamoto, elegantissima composizione sentimentale prossima alla pregnanza dell’haiku per la propria asciutta (ma densissima) esattezza, e il cut’n’paste fatto di incisioni chirurgiche e taglia e cuci glitchy che è cifra caratteristica delle composizioni di Noto. In occasione della ristampa di Revep, terzo album della serie, pubblicato nel 2006, ai brani originariamente inclusi nell’album (siisx, mur e ax Mr. L. , rilettura scarnificata e dissonante della celebre Forbidden Colours) si affiancano tre inediti, tra i quali la meravigliosa suite che risponde al titolo di City Radieuse (che in realtà troppo inedita non è perché era già stata usata da Noto per la serie future past perfect nel 2012): una divagazione romantica del piano di Sakamoto, un delicato saliscendi di emozioni screziato dai piccoli rumorismi di Nicolai, una specie di saggio di minimalismo urbano, sognante e terso come una domenica invernale, di cieli sgombri e distanti e d’aria cristallina, quasi otto minuti di autentica meraviglia sonora.

Un po’ a sorpresa scopro che ci sarà un nuovo album dei miei amati National: alla fin fine, Matt Berninger e soci, i fratelli Dessner e Devendorf, devono aver deciso di avere ancora qualcosa da dire, dopo la meravigliosa incursione nell’elettronica crepuscolare di Sleep Well Beast del 2017 e la colonna sonora sperimentale rappresentata da I Am Easy to Find, album dato alle stampe nel 2019 e caratterizzato da un ricorso insolito alle voci femminili ad affiancarsi o addirittura a sostituire quella, riconoscibilissima, del frontman della combo newyorkese. Già dopo Sleep Well Beast la sensazione era che i National si stessero ritirando in buon ordine (era anche difficile replicare lo splendore di quel lavoro), e lo stesso I Am Easy to Find era giunto un po’ a sorpresa, per diretta ammissione della band soprattutto a causa dell’insistenza e della devota opera di convincimento operata da Mike Mills, regista del mediometraggio all’album collegato (interpretato dalla bellissima e bravissima Alicia Vikander, che prestò il volto anche alla splendida cover dell’album). Lo scorso 22 agosto è invece arrivato Weird Goodbyes, primo singolo estratto dall’album a venire e collaborazione con Boniver, uno che con Aaron Dessner si è già trovato a lavorare, in tempi recenti, per la produzione degli ultimi album di Taylor Swift. Weird Goodbyes è tipico rock-pop à la National, declinato però con piccole (ma fondamentali) concessioni alla modernità: il brano è aperto da una drum machine e dal piano, ma è la voce di Berninger a segnarne chiaramente i punti cardinali dell’operazione, ancorandolo alla produzione storica della band. La qualità della scrittura (sia dal punto di vista musicale che delle liriche) resta altissima, il duetto con Boniver nei ritornelli funziona, ma Weird Goodbyes è strana, come promette il suo titolo, soprattutto perché agisce come un formidabile meccanismo che accumula la tensione senza mai completamente rilasciarla: non c’è un autentico crescendo, non c’è scioglimento della tensione, c’è un unico, potentissimo blob di malinconica nostalgia che avvolge le orecchie e il cuore, cullandoli. Weird Goodbyes riesce ad essere insieme viscerale, fisica, ed evocativa, impalpabile: non un normale brano pop, ma un’altra scheggia di National-pop, un altro passettino compiuto da Berninger e sodali nella direzione dell’inesausta ricerca del brano pop perfetto. Non resta che aspettare l’album.

Questo settembre, tra gli altri, segna anche il ritorno di Iron & Wine, pseudonimo di Samuel Ervin Beam, cantautore americano autore di alcune tra le più belle canzoni che abbia ascoltato negli ultimi anni (faccio solo due titoli, The Trapeze Swinger e Passing Afternoon): il 16 settembre uscirà infatti l’EP LORI, contenente una serie di cover della cantautrice statunitense Lori McKenna, realizzate col contributo di Sima Cunningham e Macie Stewart alla voce. That’s How You Know è il primo estratto, pubblicato lo scorso 24 agosto: una ballad lenta e sotterranea, crepuscolare, dedicata (manco a dirsi) a un amore finito e all’inizio di una nuova vita. Poche voci sono più viscerali, emozionanti e sincere di quella di Beam, e non è difficile vedere nelle parole di That’s How You Know anche un’eco dei temi di brani del passato come appunto la già citata Passing Afternoon: e se non bastasse questo, per chi scrive è già una buona giornata solo perché Iron & Wine è tornato.

Chiudo con due chicche: la prima sono i Punch Brothers di Chris Thile che, insieme agli archi dei Watchhouse, propongono una delicata rilettura di Mysteries of Love del mio caro Sufjan Stevens durante un live a Telluride, Colorado. Chris Thile (lo confesso) lo conoscevo solo grazie alle sue collaborazioni coi Vulfpeck, e non ero affatto a conoscenza del suo lavoro con i Punch Brothers; i Watchhouse non li avevo mai sentiti nominare; Sufjan Stevens, come sa chi mi conosce, mi limito ad adorarlo. Mi sono imbattuto in questo brano, pubblicato su YouTube il 13 luglio scorso, e ho sentito che valeva la pena condividerlo con voi perché non si tratta di una semplice cover, ma di un’autentica re-invenzione del brano, plasmato e amorevolmente “sagomato” ad adattarsi a una diversa veste sonora (per quanto ancora assolutamente acustica).

La seconda chicca, tanto per cambiare, riguarda Cory Wong: al nostro non basta più aver realizzato la migliore web series di sempre, e evidentemente anche gli ormai consueti video Q&A gli stanno stretti, tanto che, all’interno di questi ultimi, nel mese di agosto abbiamo assistito al debutto di una nuova, esilarante versione dell’artista di Minneapolis e dei suoi Wongnotes, una versione “animata” (sul chiaro modello di quella dei cartoons di Scooby Doo). Ormai è chiaro che il genio di Wong non ha confini: cliccare play per credere.

Anche questo mese ho scelto il titolo del Round Up razziando una poesia: stavolta è toccato a Estate di Cesare Pavese, scritta nel 1937. La poesia completa si legge cliccando qui, oppure direttamente qua sotto:

È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.

Nell’immobile luce dei giorno lontano
s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d’allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.

È tornata l’angoscia dei giorni lontani
quando tutta un’immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l’estate e i tepori sotto il vivido cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.

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